La presa ... e “ripresa” di Gallipoli. A proposito dell' assedio veneziano del 1484 e sue conseguenze

Gli anni Ottanta del Quattrocento hanno rappresentato una svolta nella storia politica, e certamente antropologica, delle città salentine. La drammatica vicenda di Otranto, violentemente saccheggiata e occupata dai Turchi nel 1480, segnò l'inizio di una lenta fase di ripiegamento specie dell'area meridionale del Salento, ridotto ad avamposto militare, a terra di frontiera.
Intorno al 1508, un attento e dotto osservatore della realtà provinciale dell'epoca, Antonio de Ferraris (il Galateo), lucidamente colse la modificazione profonda degli assetti territoriali che era seguita al 1480: le città maggiori (Brindisi, Lecce, Otranto) apparivano spopolate, decadute e distrutte, in serie difficoltà nel superare la congiuntura negativa di guerre e occupazioni militari d'età aragonese; e i piccoli centri (Soleto, Ugento), molto ristretti ed entrati in una fase di profonda crisi.
Alcuni di essi sembravano tuttavia conservare ancora tratti di fisionomia urbana: S. Pietro in Galatina, quale importante emporio commerciale;
Nardò, centro di elaborazione della cultura provinciale; e Gallipoli, città mercantile con un recente e importante incremento dei traffici (“ociosissima rerum necessitudine facta est negociosissima”), nonostante il triste e noto evento storico che l'aveva resa protagonista qualche anno addietro.
Effettivamente, Gallipoli, nella primavera del 1484, coinvolta insieme ad altre marine pugliesi in una sorta di azione “tattica” nel quadro del nuovo conflitto veneto-aragonese del 1482 (scoppiato per l'intromissione del regnante di Napoli Ferdinando, alleato del duca Ercole D'Este, nella guerra tra Venezia e Ferrara), aveva subito una feroce e sanguinosa occupazione militare (“non fu tal crudelità al Mundo vista, quanta fu per dicti nemici in dicta Cità usata”), durata alcuni mesi, da parte di un'armata veneziana di settemila uomini.
Seppur indifesa, essendosi trovata “improvisa de homeni et d'artegliaria” ed “estremata dalle penurie e dal tracollo dei traffici causato dalle guerre recenti e da quella che correva”, la cittadina, durante l'assedio, “volendo usare fidelità”, aveva ad ogni modo dimostrato fierezza ed austerità (si pensi all'eroico valore degli abitanti, donne comprese), fino alla sua restituzione in seguito alla pace siglata il 15 settembre.
Il racconto di tali gesta palpita, in modo particolarmente vivace, dalla incisiva relazione del comandante Malipiero, dalla cronaca particolareggiata del Navagero, dalla lapidaria rievocazione del contemporaneo Galateo, ma soprattutto dalla narrativa, altamente drammatica, dell'Università.
Fonte preziosa, anche se non sempre originale, il Libro Rosso di Gallipoli (la cui edizione critica, curata da Amalia Ingrosso, è apparsa in questi giorni per i tipi dell’editore Congedo di Galatina, nella collana Fonti medievali e moderne, diretta da Benedetto Vetere) presenta, a questo proposito, alcuni documenti che ripropongono il problema delle spese necessarie per la resistenza ai veneziani,
testimoniando la costante premura mostrata dal re Ferdinando verso i gallipolitani all'indomani delle disastrose vicende che segnarono la vita della città. Con privilegio del 9 dicembre 1484, in particolare, il re (il quale “non mancò [...], pria di ogni altra cosa, manifestare a questa Città il dispiacere da lui provato pei sofferti travagli”) proprio per compensare l'Università dei gravissimi danni subiti, le concedeva quanto essa aveva chiesto: la provvista di artiglieria; l'esenzione da tutti i pagamenti fiscali; il libero commercio in tutto il Regno; l'estensione della cittadinanza con tutti i privilegi annessi a quanti avessero voluto ripopolare la città; la ricostituzione di certi dazi a favore dell'Università e la remissione dello scannaggio.
Approvava, inoltre, che i proventi dell'estrazione dell'olio restassero all'Università; che la diocesi di Nardò ritornasse al vescovo di Gallipoli; il diritto per ogni gallipolitano di estrarre liberamente venticinque tomoli di legumi l'anno;
la libera introduzione di vettovaglie, eccetto il vino; il divieto di imprigionare cittadini nel castello se non per omicidio o delitto di lesa maestà;
il godimento delle franchigie durante i due panieri annuali e il mercato settimanale del martedì;
il diritto dell'Università all'elezione annuale di sindaci, mastri giurati e di tutti gli altri ufficiali cittadini; la libertà di pascolo nelle puzzàriche;
l'obbligo, infine, rivolto agli uomini dei casali vicini di popolare la città.
Ma non solo, dal momento che Ferdinando, fu “sempre memore della fedeltà dei Gallipolitani, beneficiandoli con nuove grazie” fino al 1493;
e “più ancora sarebbe stata considerata questa Città, se Ferdinando non avesse terminato di vivere a 25 gennaio 1495”.

Ma sulle conseguenze, non sempre dunque solo negative, di quel disastroso sbarco di fine Quattrocento non ci si ferma certamente qui.
Nota il Guerrieri, pure ricordando la precocità delle relazioni commerciali tra il Salento e la Repubblica di Venezia, come, una volta restituiti i territori assediati, “rimane[sse] in Terra d'Otranto l'importante colonia di mercanti e di banchieri veneziani, e il vivo desiderio del governo della Serenissima di occupare i nostri porti quando se ne offrisse propizia e sicura l'occasione”.
È stato spesso evidenziato, difatti, come uno dei caratteri più significativi della storia salentina nell'età medioevale e moderna, il rapporto costante più che con la capitale con i grandi centri commerciali esteri (Venezia, Ragusa, Genova, etc.).
Così, pur conoscendo la maggiore intensità delle relazioni veneto-pugliesi negli anni tra il 1495 e il 1529 (quando la Repubblica esercitò un dominio diretto su alcune città della regione), è al secolo XVII che si riferiscono alcuni episodi attestanti la presenza in Gallipoli, a quel tempo “città di Traffico così di Mare come di Terra”, di “molti Vascelli d'ogni parte”, compresi naturalmente quelli provenienti da Venezia.
Ne fece cenno il Massa nel 1897, raccontando del sequestro, per contrabbando di oggetti di valore, di una feluca veneziana, e della difesa gratuita e vincente offerta da Filippo Briganti al suo capitano (“al quale si volea fare un'ingiustizia”), condannato alla perdita del legno e del carico.
Un altro episodio, questa volta quasi certamente inedito, è relativo ad una minaccia di scomunica (il cui documento si conserva nell'Archivio Storico Diocesano della città) rivolta nel 1666 a diversi marinai veneziani, colpevoli d'aver trasgredito il precetto della Chiesa di “fatigare diverse hore” in giorno di festa, “empiendo botti d'acqua marina per veder se erano stagni [...] con l'assistenza dello loro padrone”.
Ma nel ventaglio, infine, delle relazioni fra Venezia e Gallipoli, senza dubbio dunque infittitesi sul finire del secolo XV, è stato più volte sottolineato, oltre all'aspetto più propriamente politico-commerciale, anche l'atteggiamento culturale di alcuni gruppi genericamente definiti filoveneti: e ciò dal momento che dalla città salentina convennero a Padova, nell'Università tanto e sapientemente curata dal governo veneto, studenti di legge, medicina e filosofia (si pensi, solo per fare un esempio, a diversi rappresentanti della famiglia Zacheo).
Indubbia apparve pertanto la ripresa della “fedelissima”, sul principio favorita dagli Aragonesi, ma anche indirettamente avvantaggiata dalla crisi delle città del basso Adriatico, dalla difficoltà del commercio con l'Oriente, dal declino, iniziato per altro a metà '300, di Brindisi, dallo scacco di Otranto.

Milena Sabato