A margine del successo cinematografico ottenuto dal recente film 'La
Passione di Cristo', la feroce polemica non ha finora conosciuto
tregua, investendo anzitutto il cattolicissimo regista Mel Gibson, il
nuovo evangelista, catalogato come ottuso fanatico, pio secchione e
fondamentalista.
Pur dinanzi a record di spettatori e incassi, non si sprecano accuse e
giudizi drastici da destra e da sinistra, ad ovest o ad est delle
contrapposte civiltà, evidenti essendo i limiti della pellicola
americana: un lavoro tra horror e western, giusto per sostenere, in
maniera problematica, tesi antisemite in chiave cristiana, non senza
sminuire la forza della parola messianica.
Non è stato affrontato il contrasto tra Gesù e i farisei, gli scribi e
i capi dei sacerdoti se non nelle ultime dodici ore della vita di
Cristo, dal momento della cattura (la mezzanotte del giovedì)
trascinata sino alla fine in una collera demenziale (mezzogiorno di
venerdì sulla croce). Seppure venga rispettata sostanziale fedeltà ai
testi sacri, la controversia religiosa nasce da lontano, insita nella
cultura e nelle istituzioni teologiche israelite (l'autoproclamarsi
'figlio di Dio' costituiva di per sé grave bestemmia e reato di
sacrilegio, punibile con pena capitale). È bene riconoscere che c'è
meno grazia in tutto questo film che in una sola scena de 'Il Vangelo
secondo Matteo' di Pasolini (parimenti girato tra i Sassi di Matera).
S'ignora quali nuovi insegnamenti positivi ci abbia voluto impartire
Gibson. Potrà svegliare le coscienze promovendo gesti di conversione?
Il mistero del dolore del Cristo sofferente si può rappresentare con
scene cruente di macellazione? Il Cristianesimo non si fonda invece nel
mistero della Redenzione?
Non sfugge ai più una compiacenza scioccante propria dello spettacolo
della violenza, dettata da sentimenti di vendetta, in un dramma che non
può essere edificante o storico, se è stata stravolta persino la
lezione del Concilio Vaticano II ('Ebrei nostri fratelli maggiori')
Dopo circa 2000 anni di antisemitismo (Isabella di Castiglia con
l'inquisizione spagnola, i progrom sovietici con le espulsioni di
massa, la sistematica e sofisticata epurazione nazista con i lager),
siamo nuovamente di fronte ad un altro capitolo nero, scritto da un
cristiano contemporaneo. Ma che senso hanno ancora oggi alcune
affermazioni del tipo: 'Gli Ebrei non hanno riconosciuto Cristo in
quanto povero e non miliardario'? Le parole, si sa, sono pietre e vanno
condannate sia queste sia altre dello stesso tenore, in quanto, se
inconsulte e non sorrette da logica alcuna, piovono assai deleterie
come macigni.
'La Passione secondo Mel Gibson', per i gesuiti di 'Civiltà cattolica',
è solo una vergognosa sconcezza, inutile per la catechesi o per la
diffusione del messaggio evangelico nel mondo: pur in ottemperanza
all'obiettività storica, si tratta di 'un film commerciale e non di
un'opera d'arte, un megaspot pubblicitario con eccessi di sadismo'. Non
avrebbe indubbiamente suscitato eguale interesse né la Madonna fredda e
senza lacrime (l'ebrea Maria Morgenstern) né l'inespressivo Gesù (Jim
Caviezel), su cui la cinepresa ha insistito in tutti i 126 minuti di
proiezione nel rispetto dei dettami dell'arte barocca. Le pagine sui
generis, tratte dalle strane visioni dei testi mistici di Anna Caterina
Emmerick, hanno ispirato le riprese che, pur sembrando un pamphlet
antiebraico, restano in ogni caso un'operazione kitsch raccapricciante,
condita da apparizioni demoniache mostruose più ridicole che paurose,
aggravate dalla volgarità di certi ralenty che nulla hanno di poetico.
È un'opera cruda e iperrealistica del Calvario di Cristo che va alla
morte tra volti sfacciatamente deformi e folle urlanti alla Papini.
A proposito della 'Storia di Cristo' di Giovanni Papini (1921), si
legherebbe questa al film di Gibson? E fu anch'essa una testimonianza
antisemita? Il regista americano ha forse voluto rivisitare in un
racconto in diretta la Passione nel suo aspetto più terribile di
martirio della carne, per scuotere la coscienza di un'umanità distratta
e indifferente. Lo scrittore italiano, a sua volta, si convertì
scrivendo appunto il discusso libro, che piacque ad una certa cultura
retriva fino a riscuotere i favori dell'Italia fascista.
Se responsabili sono solo gli Ebrei e non tutta l'umanità peccatrice,
che senso ha il messaggio evangelico rivolto a tutti gli uomini? Se
apparentemente nel libro come nel film Ebrei e Romani sono trattati
allo stesso modo, proprio dal film si evince che l'Impero romano ha le
maggiori colpe del deicidio.
Tra le due opere sono in comune le inquadrature crude della
crocifissione e le scivolate antiebraiche papiniane, per nulla
giustificate in nome della pretesa osservanza alle Sacre Scritture
('brulicame giudaico', 'vecchie dai nasi maligni sbucavan nei trivi',
'lezzo antico di quel verminaio di circoncisi', 'l'Ebreo che seguiterà
a percorrere, munito di molte tasche, le vie del mondo per raccattare i
denari figliati dai trenta sicli di Giuda', 'gli israeliti che
protendono i musi annusanti, i colli nodosi, i nasi gobbi e uncinati,
gli occhi predaci che sbucano dai sopraccigli setolosi', 'sugli
assassini di Gesù deve ricadere, per espressa volontà dei padri, il
sangue di Cristo', 'la perfidia deicida dei nasi adunchi', 'osservateli
quanto sono orridi in quelle pose d'implacata cainità…'). Ma, se Papini
non poteva ipotizzare o pronosticare i tragici effetti delle sue
pesanti parole, Gibson, dopo la Shoa, non può non essere consapevole
del danno arrecato dalla storia ad un popolo ieri come oggi!
Protagonista dell'opera americana resta la violenza: una pioggia di
scene da macello stile splatter (volto e corpo di Cristo coperti da 30
kg. di sangue finto!), con piaghe e ferite purulente inferte su un
attore-robot. I soldati romani, non meglio degli Ebrei, gli fracassano
la schiena secondo la tradizione di molte pellicole scadenti d'un
tempo, con la vittima che, ad ogni frustata, geme ed urla in dolby
stereo. Se raro è il ricorso al flash-back di buon cinema e solo pochi
secondi di Resurrezione, nel finale surreale, sono riservati alla parte
più breve del film, tutto il resto rappresenta un dolore così insistito
da diventare monotono in scene monocordi che mai si alzano di qualità.
Una scelta non casuale per una necessità dettata dai costumi della
modernità, segno dei tempi: terrorismo, guerra, ossessione per le
riprese crude e violente di sangue, di orrore, di morte, bombardate via
etere a domicilio dai padroni dell'immagine, magnati della terra.
Un commento apocrifo del Vaticano ('It is as it was') è stato
tempestivamente smentito da organi ufficiali. Giustamente, perché in
effetti non fu proprio così, stando al racconto evangelico. E, se così
fosse stato, che senso avrebbe l'insistere su macabro e orripilante? La
pellicola è piaciuta a Gaza e nei territori occupati, ma non in Israele
e nelle comunità ebraiche nel mondo. Arafat pare aver paragonato le
sofferenze di Gesù a quelle del popolo palestinese, ancorché la
Passione di Gesù non contenga, a suo dire, nulla che possa suscitare
l'antisemitismo. Nel Corano non ci sono riferimenti al fatto che gli
Ebrei abbiano ucciso Gesù (s'ignora la croce!), anzi l'Islam crede che
Gesù non sia stato ucciso ma sia asceso in Paradiso. Ma, se fosse vero
che gli Ebrei lo hanno ucciso, che colpa hanno i loro discendenti?
La macchina da presa punta costantemente su Gesù dall'inizio alla fine
e non contro altri. Il film non è esempio negativo di 'grave
intolleranza religiosa', in chiave antisemita, perché non è contro gli
Ebrei né contro nessuno. Intanto la realtà descritta da Gibson, un
aspirante suicida che diviene cattolico preconciliare, per non dire
controriformista, pare fedelissima alla tradizione, almeno nel testo,
ma è un intreccio tra patina hollywoodiana e mistica medievaleggiante
(25 minuti di flagellazione con brandelli di carne filmati nel
dettaglio, per il trionfo del barocco, là dove non c'è spazio alcuno
per cogliere il mistero divino su cui si fonda il Cristianesimo).
Il
regista non indugia sulle responsabilità dei capi del sinedrio né si
accanisce sulla loro studiata doppiezza, ma mette a nudo l'inaudita
violenza usata dai soldati romani sul presunto malfattore, che per
ordine di Pilato è condannato alla flagellazione esemplare e punitiva,
impartita come violenza pura (vera e propria tortura quasi compiacente
ad ammorbidire l'ostinazione dei giudici), e infine alla morte
umiliante di croce secondo la prassi riservata esclusivamente agli
schiavi.
V'è tuttavia una campagna di disinformazione preventiva finalizzata a
sminuire la testimonianza di Gibson circa la
passione-morte-resurrezione di Gesù di Nazareth, 'per le cui piaghe
siamo stati guariti' (profezia di Isaia 700 anni prima di Cristo, come
si legge nel primo fotogramma del film). Se per i suoi accusatori e per
i suoi carnefici (in massima parte Ebrei) Cristo invoca il perdono di
Dio 'perché non sanno quello che fanno', a che scopo si vorrebbe
puntata la macchina da presa e la colpa contro un intero popolo? Forse
perché quell'uomo continua ad essere ancora oggi il vero
'rivoluzionario' della storia, col quale è troppo scomodo dover fare i
conti.
Un set di dolore-espiazione per un'idea medievale della religione,
insomma, in una rappresentazione della Passione orrendamente banale
fino alla caricatura del Cristo, icona americana troppo umanizzata per
poter sembrare spiritualizzata. I nemici di Cristo sono il male allo
stato puro e su di essi Gibson si è soffermato, dimentico che non è il
dolore esterno lo specifico del Cristianesimo. La lunga scena della
crocifissione, spiritualmente base del film, è risolta senza fantasia
visiva dall'anatomista e sadico regista, che insegue una sua ossessione
di morte e rimuove un senso di colpa come se fosse tutta sua. Una
messinscena che non può che disturbare o annichilire, se l'abbondanza
di sangue, ripresa in diretta e tempo reale, non regala emozioni. Resta
il giudizio storico. Di quell'atroce delitto ci chiediamo da secoli chi
sia il reo maggiore, l'imputato: se Roma o i Giudei.
Gli stessi Romani descrivono Ponzio Pilato (sannita di Telese) come
corrotto e crudele, ma è fotografato da Gibson quale figura
affascinante che si arrende al volere del popolo ebraico e agisce
contro la propria coscienza. Anzi il paradosso della tragedia è che
tutto debba avvenire contro la sua volontà o che il destino noto dalle
profezie si possa realizzare dietro la sua ipocrisia, mercé la perfidia
di soldati anarchici assetati di sangue, avvezzi a tal genere di
licenziose, nefande scelleratezze. Pilato si fa da parte a mani pulite
con irridente impotenza e sarcasmo. In scena entrano i suoi sgherri tra
gli Ebrei inermi. E si dà il via alla mattanza. La storia dell'uomo è
la storia della guerra incrudelita fino ai nostri giorni (stile
Apocalypse now) e la tortura ne è uno strumento subdolo, non ancora
estirpato, arbitrio di aguzzini impuniti, ovunque e sempre liberamente
in azione.
Nel processo a Cristo, tuttavia, Gibson ribalta la realtà storica del
tempo, perché, in verità, gli Ebrei erano allora un popolo sotto
occupazione come i Palestinesi oggi, tuttora orfani di una patria. Si
deve pertanto credere che l'Impero di Roma, se avesse voluto, non
avrebbe avuto il potere di liquidare a suo modo e autonomamente un
intricato affare politico così maledettamente diplomatico?
È errato sospettare il regista di antisemitismo. Se il film fosse
antisemita, lo sarebbero anzitutto i Vangeli! E perché gli strali solo
contro gli Ebrei, catalogati nella categoria di perfidi da condannare e
perseguire? Sarebbe come disconoscere che i Romani, di tutt'altro
culto, abbiano avuto un ruolo non secondario nel triste episodio, quasi
non fosse nota l'inflessibile politica estera romana nei rapporti con i
nemici vinti ('parcere subiectis et debellare superbos'). A prova di
quanto premesso, alcuni significativi esempi:
- nel 71 a. C. un esercito di 90 mila schiavi al seguito del ribelle
trace Spartaco fu massacrato e migliaia furono crocifissi sulla via
Appia;
- nel 70 d. C. Tito distrusse Gerusalemme e il tempio di Salomone, disperdendo per il mondo gli Ebrei (inizio della diaspora);
- nel 73 d. C. i Romani espugnarono dopo un durissimo assedio Masada in
Palestina, lasciando sugli spalti i cadaveri di migliaia di Ebrei
asserragliati a difesa della loro identità etnica;
- nota è la politica repressiva e indiscriminata di persecuzione e
sterminio perpetrata dagli imperatori romani contro i cristiani, specie
sotto Nerone Domiziano, Commodo, Diocleziano, sicché il martirio di
numerosi santi, i primi della Cristianità (Pietro, Paolo, Andrea,
Agata, Sebastiano, Cristina, Lucia), è dovuto proprio alle
responsabilità dell'amministrazione imperiale;
- dopo le sconfitte di Taranto e Annibale furono severamente punite le
popolazioni salentine greco-massapiche, che, per essersi schierate
contro l'Urbe a difendere la propria libertà (anche a Canne!), subirono
dure umiliazioni con confisca dell'ager publicus e deportazioni in
massa nel centro della penisola italica, com'è registrato sui Fasti
Capitolini ('De Tarentineis Messapeisque'). Ne sanno qualcosa anche
Gallipoli e Alezio, puntualmente risorte come l'araba fenice dalle sue
ceneri.
Gino Schirosi