Elogio dell'abbandono

Una vecchia Masseria fortificata. Ripulita, ricostruita nelle parti mancanti, decorazioni e fregi restaurati, crepe sparite, intonaco rifatto.
Bellissima nelle linee pure e semplici e nello stesso tempo possenti dell'Architettura salentina.
Vegetazione tipica mediterranea (con qualche inesattezza) perfettamente curata, muretti a secco perfettamente ricostruiti, intonaco e colore perfettamente eseguiti.
Perfettamente, perfettamente, perfettamente, perfettamente, troppo perfettamente.
La sua vista mi provoca una fitta al cuore. La ragione è soddisfatta, l'anima stranamente e inaspettatamente si ribella. Spesso nel mio girovagare per territori abbandonati mi fermavo presso di essa, la esploravo in ogni suo angolo e l'ammiravo incantato. La mia fantasia materializzava gli uomini che l'avevano costruita ed abitata, ricostruiva la loro vita, il loro sentire, le loro paure, il loro modo di leggere la natura. Com'era il paesaggio in quel tempo? Rivedevo le pietre, le foreste, le paludi, i daini, le linci, le aquile, gli stormi immensi di anatre. Uomini che cacciavano per mangiare e morivano anche di fame.
Mi dolevo per il suo stato di abbandono e per il suo lento disfacimento e distruzione. Speravo che qualcuno se ne accorgesse e la restaurasse. Inveivo contro le istituzioni che non riuscivano a valorizzare un bene del genere. (Il mio pensiero allora non poteva elaborare una frase più piena di banalità e più disgustosa di questa.)
Ora era lì, "integra e valorizzata" davanti a me, ma non riuscivo a trovare niente che me la facesse sentire "reale e viva". Non sentivo più l'anima di chi l'aveva "vissuta".
Mancava qualcosa, anzi mancava tutto.
Mancava quel velo grigiastro o bruno di muschio che la tingeva, quella vegetazione spontanea che emergeva dagli anfratti e dalle crepe, quella intricata e contorta dei muretti a secco, i resti degli infissi di legno marcio, mancavano i porcellini di terra sotto i residui di lavorazione del carparo abbandonati qua e là, le pile rotte, i cancelli di ferro arrugginito.
Mancava quel fascino misterioso dell'antico, quel fascino contorto del casuale, quel fascino pietroso di cavità nascoste e detritiche, di anfratti ombrosi e abitati di vermi e ragni. Mancava quell'intricato e penetrante abbraccio con la natura. Mancava quel fascino dell'abbandono, capace paradossalmente di conservare intatta tutta la sua essenza e di renderla reale. Semplicemente non esisteva più.
Per carità, non toccate più le costruzioni rurali antiche, lasciatele divorare ed erodere dalla Natura. Solo così troveranno la ragione della loro ricostruzione ed esistenza reale. Solo nell'abbandono continueranno ad esistere, integre, reali e vere, eterne e definitivamente intoccabili.
Ricostruitele e moriranno, stavolta davvero per sempre.

Le meduse
Dal Quotidiano di Lecce del 21 giugno 2003

"Concessionario di stabilimento balneare risarcisce bagnanti da danni provocati dall'invadenza delle meduse".
Questa è proprio bella. Mi verrebbe da ridere a crepapelle se la cosa non fosse tragica. Come tutti sanno gli uomini sono animali marini. Mentre le meduse sono animali squisitamente terrestri, hanno quattro zampe per camminare sul terreno e hanno la pessima abitudine di voler colonizzare ambienti a loro estranei ed invaderli impunemente.
Solo uno stolto può usare un termine del genere, uno stupido e ottuso uomo, che si ritiene il padrone dell'universo e che invece è una nullità (non voglio usare la parola più adatta, legata in qualche maniera alle funzion intestinali, perché significherebbe essere già qualcosa)
Mi chiedo: chi risarcirà le meduse che non hanno diritto di vivere nel loro ambiente, e anzi non hanno proprio diritto di vivere.
E se al limite qualcuno dovrà proprio pagare non sarà forse quello che provoca strani sconvolgimenti negli equilibri ecologici delle popolazioni?
Sentite! Meno male che le meduse non possono parlare il nostro linguaggio. Perché il minimo che potrebbero fare sarebbe quello di chiederci: Ah, sono io l'invadente? E anche loro desiderare quelle famose epidemie di una volta e poi inviarci un gigantesco "vai a quel paese" (la frase giusta sarebbe ben altra). Cosa che avremmo dovuto fare già da soli e da parecchio tempo se avessimo un minimo di dignità e la capacità qualche volta di riflettere e di provare vergogna per i nostri pensieri e le nostre azioni.
Chiedo io scusa alle meduse per il nostro di cui sopra (che non potrebbe mai concepirlo per la sua immensa stoltezza e stupidità ), perché quel silenzioso e rumorosissimo "vai a quel paese" penso di averlo sentito solo io, disposto a prendermene tutto il carico, anche se penso di essere proprio l'unico a non meritarlo.

Luciano Scarpina