Soli in Africa, io e la mia Vespa

Guinea Bissau - Guinea Conakry

 

“ Viaggiare è una brutalità. Obbliga ad avere fiducia negli stranieri e a perdere di vista il comfort della casa e degli amici. Ci si sente costantemente fuori equilibrio. Nulla è vostro, tranne le cose essenziali – l’aria, il sonno, i sogni, il mare, il cielo.”
Cesare Pavese

Al ristorante dell’ hotel faccio la conoscenza con Giorgio, un italiano che lavora  con la moglie per una ONG italiana. Ceniamo assieme parlando della guerra che ha devastato per lunghi anni la Guinea. Dopo le elezioni del 2005, il paese sembra godere di una relativa stabilità politica sotto la guida del Presidente João Bernardo Vieira. (Purtroppo, nel momento in cui scrivo queste righe, e dopo l’assassinio del  Presidente, la Guinea rischia di ripiombare ancora una volta nel baratro  della guerra civile).Cambiamo argomento e la conversazione si sposta sul mio viaggio. Giorgio s’informa sull’itinerario  di massima che intendo seguire. Mi consiglia di stare molto attento quando sarò nella Guinea Conakry e di evitare la capitale. Poi, sapendo che il giorno dopo farò sosta a Bafatà, mi dice di andare alla missione cattolica e  di chiedere di  padre Francesco, un sacerdote italiano, il quale sarà felice di ospitarmi per la notte. Il 2 aprile, di buon’ora, ho già lasciato Saõ Domingos alla volta di Bafatà, una tappa di 273 chilometri di asfalto discreto.22Km dopo il villaggio di Ingore, l’asfalto scompare e uno sterrato abbastanza compatto e liscio mi porta sino alla riva di un grande fiume. Qualcuno mi dice che occorre aspettare un’ora perché arrivi la chiatta che mi potrà traghettare sull’altra riva. So già che non si tratterà di un’ora e mi  predispongo  quindi, con rassegnazione tutta africana, ad una lunga attesa. Sistemo  la vespa in posizione d’imbarco e mi vado a sedere all’ombra di un  improvvisato capanno, in cui si sta arrostendo della carne di capretto. E’ quasi mezzogiorno e la fame si fa sentire. Compro, per qualche CFA, una porzione di arrosto che mi viene servita in un cartoccio fatto con carta di sacco per cemento, una pagnottella di pane e delle banane. Consumato il mio pasto, mi alzo e raggiungo la vespa per prendermi una sigaretta. Cerco invano  l’accendino: devo averlo perso; mi guardo intorno per cercare qualcuno che mi faccia accendere. Accanto ad un pick-up,non lontano da dove mi trovo, scorgo due bianchi. Mi avvicino a loro per conoscerli. Sono Italiani, uno è ingegnere e l’altro geometra. Sono lì per conto di una società  italiana per costruire un ponte fra le due rive del fiume. L’ingegnere mi indica sull’altra sponda i capannoni che ospitano le maestranze del cantiere e mi dice che tra qualche giorno cominceranno i lavori per posizionare i primi piloni.
Mentre parliamo di loro e di me, vedo avvicinarsi la chiatta.  Ho già fatto il biglietto e non devo fare altro che salire a bordo. Ma questa operazione che da noi si farebbe a cuor leggero e senza alcuna difficoltà, in Africa può presentare notevoli rischi. Quando viene calata la pedana, la mia gioia per la fine dell’attesa si trasforma repentinamente in cupa preoccupazione: la pedana fatta di  assi di legno si compone di due parti; nel punto in cui esse si uniscono, si forma un angolo  tanto accentuato da rappresentare una possibile  trappola per le piccole ruote della vespa. Ad accrescere le difficoltà c’è anche l’acqua del fiume che ricopre totalmente la pedana. Arriva il mio turno di salire e il  cuore batte forte nel mio petto; so che non devo avere la benché  minima esitazione. Quando le due ruote sono tutt’e due sulla pedana,l’acqua arriva a lambire le mie scarpe; tengo il motore su di giri: se si spegnesse, la vespa slitterebbe verso dietro, poi s’inclinerebbe ed io, non avendo un buon appoggio, non riuscirei a sostenerla. Inevitabilmente io e lei cadremmo in acqua!Nel momento in cui sto per giungere all’angolo-trappola, dò un colpo di acceleratore e tiro il manubrio verso di me, due azioni sinergiche che risultano essere efficaci.  Infatti la vespa fa  un balzo in avanti e la ruota anteriore esce dall’acqua ed  artiglia le traversine della pedana: E’ fatta!Sono sulla chiatta.  Un lungo sospiro di sollievo allenta il battito frenetico del mio cuore. Metto la vespa sul cavalletto e mi faccio scattare da un passeggero una foto che ritrae un uomo soddisfatto e sorridente per il pericolo scampato ma che si è scordato che di lì a poco dovrà affrontare i rischi della discesa sull’altra riva!
Dieci minuti per raggiungere la sponda destra; la discesa dalla chiatta è più agevole e non presenta alcuna difficoltà. Dopo un centinaio di metri di sterrato riprendo l’asfalto. Attraverso i villaggi di Bula, Nhacra; a Mansôa faccio il pieno di benzina. Prima di Bambadinca mi fermo per fumare una sigaretta. Mancano solo 32 km per Bafatà  e allorché   vi arrivo  è  pomeriggio inoltrato. La missione cattolica indicatami da Giorgio è all’uscita dalla città. Infatti, quando le case incominciano a essere più rade, scorgo sulla mia sinistra il campanile della missione. Parcheggio la vespa in un grande giardino e vado a chiedere di padre Francesco. Busso, si apre una porta e una persona mi accoglie con un gentile sorriso: è padre Francesco. Mi presento e gli porgo i saluti da parte di Giorgio, chiedendogli nel contempo ospitalità per la notte. Assume un’espressione interrogativa,poi mi dice di non conoscere nessun italiano di nome Giorgio. Forse il padre Francesco che cerco non è lui ma un altro sacerdote di una missione  che si trova a qualche chilometro da Bafatà, sulla strada per Gabù. Comunque si dice felice di ospitarmi ed io sono contento perché oramai è buio e non ho alcuna voglia di rimettermi per strada, fosse anche solo per qualche chilometro. Sposto la vespa e la vado a sistemare sotto una grande tettoia, accanto al fuoristrada della missione; poi scarico i bagagli per portarli nella camera che mi è stata assegnata. Una rapida doccia e gli abiti puliti fanno il miracolo di rendermi più presentabile. Poi, in fretta e in furia, faccio il bucato; devo sbrigarmi, alle 7 si cena  e non voglio farmi aspettare.
Nel refettorio trovo degli italiani;  sono in Guinea per una missione umanitaria. La cena è ottima e padre Francesco ha fatto portare a tavola del buon vino, cosa molto rara in Africa. Dopo un’iniziale riservatezza, nella quale tutti i commensali e anche il sottoscritto sembrano aver poca voglia di parlare, la conversazione si accende grazie proprio a padre Francesco che mi presenta,raccontando  quel  che gli ho detto del  mio viaggio. Tutti esprimono la loro meraviglia quando espongo in modo dettagliato il mio itinerario; in particolare, una ragazza che di professione fa l’infermiera, s’informa soprattutto dei rischi sanitari del viaggio. Mi chiede se non abbia paura della malaria e delle altre malattie tropicali. Le rispondo che ho paura ma la paura non è sufficiente a farmi desistere; cercherò comunque di prestare molta attenzione e di usare tutte le precauzioni che offre una buona profilassi.
Oramai è tardi ed è ora di andare a letto. Mi congedo stringendo la mano a tutti; l’indomani andrò via di buon mattino e non avrò modo di salutare nessuno.
Il mattino seguente, alle 8, ho già percorso 50 km e sono  a Gabù. Nelle mie previsioni conto di arrivare nel primissimo pomeriggio a Koundara, in Guinea Conakry. Ma  la mia ottimistica previsione si scontrerà con la dura realtà di una terribile pista, nel tratto tra  Pitche e la frontiera tra le due Guinee. Sto percorrendo da qualche ora uno sterrato abbastanza compatto e senza particolari difficoltà, procedendo comunque con cautela e non superando mai i 30 km orari; il colore rosso della pista contrasta con il verde un po’ sbiadito  della boscaglia; siamo nella stagione secca e la natura soffre per la mancanza d’acqua. Fa molto caldo e mi fermo spesso per bere. Verso le 13 decido di fare una sosta all’ombra di un immenso albero che s’innalza al margine della pista; accontento lo stomaco che chiede di essere riempito  con una scatoletta di sardine, del pane e due banane; bevo molta acqua, fumo una sigaretta e poi mi rimetto in marcia. Sono solo da diverse ore, la pista non è molto frequentata e,  solo di tanto in tanto, incrocio  qualcuno che viaggia in bicicletta. Gradualmente lo sterrato comincia a guastarsi, buche, canaloni lunghi e stretti lavorati dall’acqua nella stagione delle piogge  feriscono la pista e  si riempiono spesso di sabbia finissima, frutto del dilavamento. Oramai procedo solo in prima con il piede destro  sempre pronto  a pigiare il pedale del freno; lunghi tratti sabbiosi mi costringono a pattinare con i piedi  per evitare di cadere. La pista è diventata essa stessa  un canalone largo all’incirca tre metri e le cui pareti sono alte oltre due. Un caldo bestiale mi fa sudare molto, ma il sudore evapora subito non senza aver prima cementificato sulla mia pelle e sugli indumenti la polvere che mi ricopre dalla testa ai piedi. Bevo litri di acqua in cui ho  sciolto delle bustine di sali minerali per combattere il rischio di disidratazione. Non ricordo di aver mai sofferto tanto in vita mia(ancora non ho sperimentato la pista nella foresta del Gabon e soprattutto le piste fangose nella provincia orientale del Congo!).Ho quasi terminato la scorta d’acqua ma scopro, provvidenzialmente, un pozzo a 20 m dalla strada; alcune donne vi stanno attingendo dell’acqua. Lascio la vespa sulla pista e vado a riempire una lattina da cinque litri e due bottiglie; per depurarla, aggiungo all’acqua della compresse di Micropur, un prodotto svizzero molto efficace e sicuro: di lì ad un’ora  l’acqua sarà perfettamente potabile. Riprendo la marcia, sono teso oltre misura. Mi accorgo che per la tensione,stringo con una forza
eccessiva  le manopole del  manubrio e ciò mi causa del dolore ai gomiti.Nonostante la spasmodica attenzione al terreno della pista, non noto col giusto anticipo un tratto sabbioso.La vespa sbanda, si piega su un fianco; cerco invano di rimetterla dritta aiutandomi con i piedi: cado e, come al solito, la mia gamba sinistra resta imprigionata sotto la vespa. Non c’è nessuno che mi possa aiutare a liberarmi, devo fare da me. Sollevo la schiena e con la mano destra stacco gli elastici che bloccano la lattina dell’acqua e quella della benzina; con la mano destra stacco  il bagaglio sul portapacchi anteriore. Ora la vespa è più leggera ed io posso sollevarla leggermente  per ritirare la  mia gamba; ancora una volta le robuste scarpe da trekking m’hanno salvato il piede che non ha subito alcun danno. Rimetto in moto e, senza montare in sella, libero la vespa dalla sabbia. Qualche centinaio di metri più avanti, la pista è segnata da  numerosi  solchi, stretti e   profondi; cerco di mantenere l’equilibrio sulla gobba che separa due solchi, ma non è una cosa facile: ad un certo punto, la ruota anteriore slitta  sul terreno liscio e s’infila nel solco. Cado ancora una volta ma, in una frazione di secondo, riesco a darmi uno slancio per non restare imprigionato sotto la vespa.
Bevendo di continuo,pattinando con i piedi, spingendo la vespa nei tratti sabbiosi, zigzagando tra le innumerevoli buche, in tre ore di pena  e di sforzi sovrumani,percorro si e no una  ventina di chilometri. Il caldo si è attenuato, io, invece, continuo ad essere un tizzone ardente; è un miracolo che non abbia preso un colpo di calore:le mie esperienze pregresse nel Sahara mi hanno evidentemente reso più adatto a sopportare anche il caldo  infernale. Uno scassatissimo fuoristrada mi viene incontro e sembra anch’esso essere in difficoltà. L’autista si ferma e mi chiede se io abbia bisogno di aiuto. Ho bisogno di sapere quanto sia distante la frontiera. Mi dice che il confine è a 10 km.  Ho stabilito di  sostare per la notte subito dopo aver attraversato la frontiera. Continuo la marcia sempre con grande fatica; percorro 12 km ma ho la sensazione che il confine sia ancora lontano. Arrivo nel villaggio di Buruntuma; un signore anziano mi dice che ci sono ancora 3 km per la Guinea Conakry.  Il sole è oramai basso all’orizzonte, tra non molto calerà la sera; io sono al limite delle mie forze. Rimango per qualche minuto come inebetito, senza sapere cosa fare.  La mia presenza richiama molte persone, soprattutto bambini; mi guardano come  fossi un marziano. Sulla mia sinistra,ad una decina di metri da dove mi sono fermato, all’ombra di immensi manghi, vi sono delle capanne  ben costruite e dei recinti fatti con i rami secchi: la gente, dopo un primo momento di sconcerto, comincia a sorridermi amichevolmente: il posto mi piace e quelle persone mi ispirano fiducia. Penso che sia una buona idea fermarmi per la notte. Chiedo al padrone delle capanne se posso montare la mia tenda sul suo terreno. Non capisce il francese ma qualcuno gli spiega la mia richiesta. Con un gran sorriso mi indica  il luogo dove posso sistemarmi, che è sotto un grande mango, accanto ad una rudimentale panchina. Osservato da decine di persone, monto subito la tenda,pensando che non valga la pena  di fissarla la terreno con tiranti e picchetti: la serata è calma e non c’è un alito di vento. In Africa certe leggerezze le puoi pagare a caro prezzo!Dopo aver messo i bagagli nella tenda, chiedo che mi venga portata dell’acqua per una doccia e per fare il bucato. Mi lavo con del sapone africano e mi risciacquo  versandomi addosso l’acqua direttamente da un secchio. Per togliermi la polvere  di dosso sono costretto ad insaponarmi due volte. Fresco di bucato(sic!), mi  appresto a lavare i jeans, la camicia e la biancheria sporca che metto ad asciugare ad una corda tesa tra due rami del mango. Terminate le operazioni di pulizia,non mi resta che prepararmi la cena: una scatoletta di sardine, un pezzo di pane e  qualche banana (tanto per cambiare!) mi riempiranno lo stomaco.
Ho bisogno di mettermi subito a dormire; considerata la stanchezza accumulata durante l’intera giornata, la tenda, il  materassino gonfiabile e il saccopelo saranno per me pari ad una stanza di un hotel a 5 stelle! Dò la buonanotte alle persone che sono ancora lì ad osservarmi e m’infilo nella tenda. Verso le due del mattino, un vento fortissimo scuote la tenda svegliandomi all’improvviso dal sonno pesante in cui ero rapidamente sprofondato; il fogliame dei manghi amplifica lo stormire del vento rendendolo simile all’ ululato di mille lupi. Ad ogni folata, la tenda che, per stupida superficialità non ho assicurato al terreno con i tiranti,  subisce tremendi scossoni; ad ogni istante ho il timore che possa essere spazzata via come un fuscello, nonostante il mio peso  quello degli zaini. Per quasi tre ore, allargando le braccia e le gambe, sono costretto a formare con il mio corpo una specie di x per poter tenere ferma la tenda, impedendo al vento di infilarsi sotto il catino e di avere più forza. Alle cinque del mattino, uno scroscio di pioggia smorza il vento e annuncia il ritorno della calma.  Metto fuori la testa dalla tenda per accertarmi che il mio bucato non sia volato via . Con gioia vedo che è ancora appeso alla corda e per giunta mi sembra che sia  quasi asciugato. Riprendo a dormire, ma la possibilità di riprendermi dalla fatica del giorno prima è oramai irrimediabilmente pregiudicata.
Alle 8, quando esco  fuori e mi guardo nello specchietto retrovisore della vespa, mi pare di scorgervi un cadavere.
Una rapida toilette, un’ altrettanto fugace colazione a base di biscotti bagnati nel  latte in polvere sciolto in acqua fredda, poi via verso la frontiera. Alle 9.30 sono già a Koundara , in Guinea Conakry. Da Koundara sino a Labé ci sono da percorrere 252 km di pista che nel Fouta Djalon  diventa pista di montagna. Su tutto il percorso non c’è alcuna possibilità di rifornimento di benzina.  Ho ancora nella mente vive e nere come un incubo le immagini  della pista percorsa il giorno precedente e non ho intenzione  e nemmeno la forza di rifare la stessa esperienza, moltiplicata per cinque, visto che si tratta di ben 252km. In un bar faccio la conoscenza del sig. Maxime, commerciante di pezzi di ricambio per auto nuovi ed usati. A lui spiego il mio problema. Mi dice subito che sono fortunato: c’è un mezzo  che parte per Labé verso mezzogiorno. Chiederà al padrone se c’è spazio sul portapacchi per la vespa e un posto per me nell’abitacolo. Chiedo a Maxime di indicarmi un cambiavalute per procurarmi dei franchi CFA. Conosco già il tasso di cambio, non c’è quindi la possibilità di fregarmi. Cambio un centinaio di euro, perché non so quanto mi costerà il biglietto per Labé. Maxime ritorna e mi annuncia che è tutto a posto ma che conviene che contratti io stesso  con il padrone in persona il costo del biglietto. Si tratta di un  tipo basso,
tarchiato e dai modi molto gentili. Con parole cortesi riesco a spuntare un buon prezzo.
Mi dice di portare la vespa vicino alla sua officina, perché occorre, per ragioni di sicurezza, svuotare il serbatoio di tutta la benzina in esso contenuta. Quando è tutto pronto, mi aspetto che la vespa sia caricata su un camioncino o  su un pick-up.Iinvece si tratta di una vecchia Peugeot  familiare. In Africa tutto è possibile,anche questo. Sul portapacchi vengono posizionati tre copertoni di auto su cui è adagiatala mia vespa; vigilo che il lavoro sia fatto alla perfezione, perché non vorrei che essa si danneggiasse negli scossoni e sobbalzi che certamente l’auto subirà sulla pista.   Al momento della partenza, conto 10 persone nell’abitacolo, 3 sul portapacchi, dove,non solo vi è la mia       vespa, ma vi sono stati caricati tutti bagagli dei passeggeri ed in più tre galline; per strada caricheremo un 14° passeggero.                        
Alle 12 in punto, come  previsto, partiamo( questa puntualità mi è molto gradita, ma qui, in  Africa, mi risulta inspiegabile). Non appena abbandoniamo Koundara, l’autista lancia  l’auto a velocità pazzesca; la pista taglia la foresta, disegnando un’infinità di curve abbastanza strette che l’autista inforca senza quasi  mai rallentare; i passeggeri che , al momento della partenza, ridevano e scherzavano ora  si sono  ammutoliti. Anch’io sono preso dallo sconcerto ed allungo il collo per guardare la pista attraverso il parabrezza. Abbiamo appena percorso 20km che un fortissimo rumore e  uno scossone ci fanno  sobbalzare in aria; l’auto si ferma e tutti scendono per vedere cosa sia successo. Un grosso sasso s’è portato via mezzo tubo di scappamento; per fortuna il danno non è grave; l’autista recupera il pezzo che viene risistemato alla men peggio, con l’ausilio di un filo di ferro. Si riparte alla stessa velocità di prima, accompagnati dal rumore assordante della marmitta rotta. Per quasi due ore,resto aggrappato allo schienale del sedile anteriore paralizzato dalla paura, poi mi dico, per tranquillizzarmi, che non vale la pena preoccuparsi più di tanto; probabilmente l’autista sa quel che fa; chissà quante volte avrà percorso quella pista. Accompagnato da quest’ultimo pensiero consolatore, chiudo gli occhi e, schiacciato dal peso di un donnone che siede alla mia sinistra, mi appisolo, recuperando in parte  il sonno perso la notte precedente.
Dopo circa un’ora e mezza, la signora mi sveglia; vuole scendere; l’auto è ferma di fronte alla riva di un fiume; una chiatta è pronta per farci passare sull’altra sponda.
Il fiume, di un bel colore verde smeraldo, è stupendo  e le sponde hanno una vegetazione lussureggiante; dalla chiatta mi godo quello spettacolo africano  che sino a quel momento avevo visto solo nei documentari. Riprendiamo la folle corsa, ma oramai non faccio più tanto caso alla guida spericolata del nostro autista: mi ci sono quasi abituato. Ma la mia atarassia subisce uno scossone quando arriviamo nel Fouta Djalon; lì, la pista s’inerpica sulle montagne lungo ripide  scarpate di cui è difficile scorgere la fine; l’autista inforca gli innumerevoli tornanti con irresponsabile disinvoltura; ad una curva l’auto rallenta e si ferma. Non riesco a comprendere il perché di quella sosta improvvisa. I passeggeri parlano in modo concitato; scendo dall’auto, guardo avanti  e scorgo sul bordo della pista una persona ricoperta di sangue; con le  due mani si stringe il fianco destro da cui perde sangue. A terra, un giovane, seduto  con la testa tra le ginocchia, si lamenta: è ferito anche lui. Chiedo all’autista cosa sia successo ed egli mi dice di guardare giù, in fondo alla scarpata. Guardo ma non riesco a vedere nulla di strano; poi, osservando meglio tra la vegetazione alquanto intricata, intravedo la sagoma informe di un’auto. Nell’abitacolo ci sono tre persone morte. In quel momento penso che un incidente simile dovuto sicuramente all’imprudenza  o all’eccessiva velocità poteva accadere alla nostra auto. Chiamo l’autista e gli ordino  con parole ferme  di moderare la velocità perché è meglio arrivare in ritardo che finire sotto una scarpata. Vedo che alle mie parole gli altri passeggeri annuiscono; sono tutti scossi per quello che hanno visto. Credo che anche il nostro giovane autista sia giunto alla sana conclusione che occorra essere più prudenti. Ripartiamo, lasciando i feriti lì dove sono; i soccorsi sono stati già chiamati ma chissà quando arriveranno. Con la velocità moderata posso rilassarmi ed osservare il panorama selvaggio del Fouta Djalon; in questo periodo i colori della natura sono un po’ spenti; siamo nella stagione secca. Non recrimino, d’altra parte,se fossimo nella stagione delle piogge, la pista probabilmente non sarebbe praticabile, a causa del fango o degli smottamenti. Prima del tramonto del sole, arriviamo  a Labé. L’autista parcheggia la Peugeot in una piazzetta dove viene scaricata la vespa. Nonostante avessi vigilato al momento del suo caricamento a Koundara, la vespa presenta due grosse ammaccature sul bauletto portaoggetti e sul parafango anteriore; nemmeno le cadute che ho fatto hanno causato danni così importanti. Protesto con l’autista il quale mi assicura che la vespa sarà riparata l’indomani mattina. Oramai è quasi buio, occorre cercare un hotel. Un giovanotto con una motocicletta adibita al servizio regolare di mototaxi, si offre di indicarmi un hotel che, come gli ho detto,deve essere pulito e a buon mercato. Dominique, così si chiama il giovanotto, carica i miei zaini sulla sua moto e mi invita a seguirlo. La camera dell’hotel risponde pienamente             alle mie  aspettative: è spartana nell’arredo ma è  pulita, e a buon prezzo. Non c’è acqua corrente ma non è un problema: per le mie esigenze, il guardiano mi porterà nel bagno tutta l’acqua di cui avrò bisogno. Resterò a Labé due giorni, giusto il tempo per riprendermi e per far riparare la vespa. Alle 20 ho appuntamento con Dominique che si è offerto di farmi da guida nella sua città. E’ un ragazzo serio di cui posso fidarmi;con la sua moto e con l’aiuto economico di suo padre, è riuscito a farsi una bella casa, dove vive con la moglie e due bambini. Ho una fame da lupo, durante il viaggio ho mangiato solo frutta: banane e manghi. Dominique mi accompagna in un ristorante, nel centro di Labè. Lui non vuole nulla perché ha già cenato in famiglia; io prendo un piatto di fagioli, carne arrostita e una bella birra fresca.
L’indomani vado alla ricerca dell’autista per farmi riparare la vespa. Mostro  ad un meccanico la sua foto sulla macchina fotografica digitale ed egli mi dà le indicazioni giuste per trovarlo. Dei colpi di martello dati senza complimenti sulla carrozzeria della vespa mettono le cose  a posto (secondo gli standard africani).
Il resto della giornata a Labé prevede una visita alla casa di Dominique,un giro nell’immediata periferia della città,qualche ora dedicata alla manutenzione della vespa e nella serata la partecipazione ad una specie di rave party per ascoltare della musica africana e bere qualche birra.
Il 6 aprile  riparto  alla volta di Bamako, nel Mali. Mi occorreranno tre giorni di viaggio per percorrere 730 km. Dominique mi scorta con la sua moto cinese  sino all’uscita della città. Gli ho dato qualche franco in più di quelli che m’ha chiesto per il suo lavoro, per ripagarlo della  estrema gentilezza mostrata nei miei riguardi. Sto attraversano l’alto Fouta Djalon. La strada si presenta ben asfaltata,il paesaggio è meraviglioso; nelle prime ore del mattino la foresta mostra il suo respiro fatto di dense nebbie che avvolgono le cime dei grandi alberi. Mi fermo spesso per godermi lo spettacolo di panorami mozzafiato. Oggi prevedo di percorrere, se tutto andrà bene,  circa 330 km, sino a Dabola, dove trascorrerò la notte. (continua)

 

Stefano MEDVEDICH