Maurizio Marzo: L'uomo che parlava alle pietre

“Oh quanto è corto il dire e
 come fioco al mio concetto!
 E questo, a quel ch’io vidi,
è tanto che non basta a dicer poco”.
 (Dante, Par. XXXIII, 121 – 123)

    E’ proprio un viaggio a ritroso nel tempo e nello spazio, tra i misteri di Gallipoli e dintorni, come chiarisce l’autore nel sottotitolo. Ma solo un viaggio onirico? Ci si chiede, a lettura finita. Oppure un sogno, una favola, una calda rivisitazione poetica dell’infanzia bella e felice di Maurizio e di tutta la generazione della famiglia Marzo? Oppure una colorata favola natalizia che,però, apre spaccati di attenta riflessione e di stimolanti ripensamenti sulla realtà gallipolina di oggi? Oppure un segnale, un monito, una lezione per fermare in qualche modo la velocità del nostro vivere caotico, distratto, affannoso e senza senso? Libro che ci obbliga a riflettere e meditare sul mondo, sulla vita, sul passato, sul presente, sui destini delle “sorti alterne e progressive” dell’umanità del terzo millennio? Volume di storia, favola, leggenda, poesia, folklore?
    Tutto questo e molto altro ancora.
    Volume lineare si, ma composito vibrante, ricco di motivi lirici e nostalgici insieme, che non nasconde anche un impegno sapienziale ed etico – religioso, non certo moralistico. Pagine che esprimono la gamma di interessi, visioni, emozioni e sensibilità dell’autore che, caricandoci su un “trainu”, umile e semplice antico mezzo di trasporto(molti lo ricordano ancora), ci porta, attraverso la “lettura” di sette pietre quasi magiche, alla riscoperta di memorie sepolte dall’incuria e dall’oblio, viaggio di sapore quasi dantesco che sbocca verso orizzonti di luce e di speranza.
    Il protagonista è quello del titolo: l’uomo che parlava alle pietre, un guru, un maestro di saggezza, un profeta che, attraverso lo schema letterario della riscoperta ramificata di sette pietre, ci fornisce la mappa per orientarci nel mistero delle cose buie, segrete, dimenticate, realtà che, nei loro sparuti frammenti, non parlano più e/o non riescono a far sentire la loro flebile voce.
    Pietre che tutte portano un nome, una targa, un segreto da rivelarsi in un mondo “pietrificato”, nel doppio gioco della metafora fantastica che allude al mistero della luce e dell’ombra, della gioia e del dolore, della vita e della morte, del dolore e della redenzione, della rovina e della resurrezione. Sette piccole tappe, sette fermate per riprendere, di volta in volta, fiato, vigore, capacità di arrivare fino al capolinea.
    Il percorso, infatti, parte dalla pietra dell’amicizia e dell’innocenza (come a ricordare il sogno del paradiso perduto), per inerpicarsi poi su quella del dolore e della morte, ma per purificarsi e risalire la china e sostare così davanti a quella della vita, dell’amore e della speranza.     Tappe che alludono ai valori di un tempo ormai lontano, ma che permangono dentro ciascuno di noi come infanzia recuperata, sogno, anelito, tentativo di risveglio, proprio di chi, insieme all’autore, si mette alla ricerca del tempo perduto.
    Fatica di camminare per la “selva oscura” della malvagità umana, dei suoi egoismi e vizi e delle sue perversioni che tanto incidono, anche su scala mondiale, allo “spegnimento” della speranza, ma che, nel contenuto attraverso il miracolo dell’amore e della poesia, decretano anche la possibilità della rinascita e del riscatto.
    Si può infatti costruire la vita sulla sabbia, sulla falsità, la cupidigia, il tradimento, il non rispetto delle regole, sull’ingiustizia, sulla caparbietà e sull’ostinazione di vagheggiare un mondo solo da spremere e sfruttare, avvelenandone così le sorgenti della genuina ricchezza, bontà e bellezza primigenia.
    Ma, come ammonisce Gesù nel Vangelo, si può costruire anche nella roccia, cioè sui valori che non passano, che non invecchiano, quei valori che furono salvaguardati dalle tavole di pietra che Mosè, su mandato dell’Altissimo, fornì all’umanità e che se “rispettate”, ascoltate, comprese e messe in pratica, possono ancora salvarci e restituirci ad un mondo rigenerato, ancora bello e variegato. “Se non parlate voi, scribi e farisei di ogni tempo, maestri e cultori della legge e della tradizione, parleranno le pietre”. Così ammonisce Gesù nel Vangelo di Matteo.
    Ebbene, Marzo prende alla lettera le parole di Gesù e col suo “uomo che parla alle pietre” vuole suggerirci che se anche le pietre parlano, in tanti modi, a cominciare soprattutto dalla penombra dei loro silenzi, anche noi, a nostra volta, dobbiamo imparare ad ascoltare e parlare, recepire e trasmettere, meditare e comunicare con tutti, senza chiusure ermetiche. In una parola, dobbiamo diventare più attenti, più consapevoli, più saggi, più buoni.
    Proprio come i vari personaggi del volume, che, quasi tutti, in fondo, attraverso una catarsi di rinnovamento, riprendono in mano i fili del loro destino e si riabilitano. Ed anche quando la morte sembra trionfare ed avere l’ultima parola, proprio dalla soglia del mistero si leva l’invito a non fermarsi, a non darsi per vinti, ad andare oltre. Calzante la citazione di O. Wilde che, insieme ad altre, arricchisce ogni incipit di nuovo capitolo: “Il mistero dell’amore è più vasto del mistero della morte”  (v. pietra dell’amore).
 “Chi vuole comprendere la poesia deve andare nella terra della poesia; chi vuole comprendere il poeta deve andare nella terra del poeta” ( W. Goethe). Caricati sul suo “trainu”, Maurizio ci ha portati, non solo alla “riscoperta” delle sette pietre, simbolo della vita e delle realtà che non passano, ma ci ha immersi nel mondo genuino di una famiglia patriarcale ( v. San Salvatore), dove, attraverso l’attaccamento al lavoro quotidiano, l’intangibilità di certi principi di convivenza famigliare e sociale, l’onestà adamantina di un mondo di affetti e di valori, ormai quasi del tutto tramontati o smarriti, non solo ci ha trasmesso un prontuario di conversazioni, dialoghi, poesie, canzoni, modi di dire e preghiere, ma ci ha inseriti nel vivo di calori e atmosfere di serene intimità vissute attorno ad un focolare, d’inverno, sempre acceso, dove tutti la sera sostavano non solo per consumare il pasto di una cena frugale, ma dove - soprattutto i bambini – godevano di essere trasbordati sulle ali della fantasia in un mondo di favole e di racconti avventurosi.
    Ma ne godevano anche gli adulti e gli anziani perché, a tratti, il volume accende i toni dell’epopea, rievocando importanti pagine di storia gallipolina, e il coinvolgimento diventa così totale, sia quando soprattutto si descrive l’attacco e la disfatta dei gallipolini ad opera dei Veneziani (1484), sia quando si illustrano angoli caratteristici della città vecchia, con le sue chiese, processioni, tradizioni civili e religiose. Il tutto impreziosito da reiterati squarci e intermezzi lirici che ben si alternano allo snodarsi del racconto.

“Cose non scritte,
indurite a linguaggio
mettono a nudo il cielo”
(Paul Celan)

    Nel volume, inoltre, non mancano punte di indignazione e frecciate di vibrante, partecipata protesta contro il malaffare dei politici di turno e contro lo scempio ambientale, diseducativo e immorale delle tante ferite inferte al paesaggio e all’onesta convivenza dei cittadini.  Va ricordato il famoso aforisma di V. Hugo: “Le leggi sono ragnatele che le mosche grosse sfondano, mentre le piccole ne restano impigliate”.
    Potremmo anche dire che “passando in rassegna le cose già accadute, la poesia cerca risposte a domande non ancora fatte”. Domande che però sono girate a noi, sollecitati proprio dall’incalzare degli avvenimenti narrati. Essi, con naturalezza vengono a stimolare le nostre riflessioni e/o le nostre omissioni.
“Io vedo tutto – sembra confidarci Maurizio – questo è il mio problema vedo le cose belle e le cose brutte del mio Paese vedo la gente che vorrebbe cambiare la propria vita, ma non riesce a farlo e continua a mentire a se stessa e agli altri”.  
    L’ha dichiarato una famosa giornalista russa, Anna Politkovskaja, assassinata da due killer spietati sulla porta di casa, il 7-10-2006. (I mandanti restano ancora nell’ombra!)
Insomma, per una certa analogia certamente da ridimensionare, possiamo mettere nella bocca e nel cuore dell’autore, la stessa confessione di L. Borges: “I miei mi generarono per il gioco rischioso e stupendo della vita. Per la terra, l’acqua, l’aria, il fuoco. Li defraudai. Non fui felice”. Egli la
pronunzia anche a nome nostro, di gallipolini che, nonostante tutto, vorrebbero “ripassare” o im    parare di nuovo quella lingua unica, vibrante e suggestiva che permette di ascoltare e di “parlare alle pietre”.
    Lingua che non si può abbandonare e lasciare estinguere nella polvere del passato.
    Concludendo, mi piace dedicare a Maurizio e ai suoi lettori, si spera numerosi, alcune “intime, consone riflessioni” prese in prestito da personalità sensibili quanto lui, provenienti da varie parti dello stivale. Potrebbero considerarsi valide e stimolanti a contributi e inviti per quanti sentono, condividono e si sforzano di recuperare valori che non passano e non si estinguono, quale splendida cerniera vivente di ogni civiltà.
    Ecco tre voci particolari qui di seguito allineate, non secondo importanza, ma secondo un minimo ordine logico.

1.
“In questa periferia infinita” , nell’atmosfera sonnolenta di una provincia stregata del suo passato, una provincia che non aveva nulla da mostrare oltre ai muretti a secco, le pagghiare, le Cento pietre, i bastioni otrantini dalle palle turche, il barocco delle sue chiese che si sfarinano al sole, con la scrittura abbiamo acquistato la capacità di turbare l’universo per mezzo delle parole e di ipnotizzare l’interlocutore. E’ finito il tempo di circoli culturali, ma qui nel Salento, abbiamo sperimentato un modo nuovo di rapportarci, come scrittori, alla realtà circostante. Si analizza questa realtà, la si interroga, ci si confronta e si decide di agire a seconda delle risposte. Un paese ha la sua storia e deve tenersela stretta, altrimenti perde la sua identità, che non può ridursi solo al dato etnico. La pizzica, il tamburello, i colori del dialetto e delle usanze connotano l’uomo folklorico, cioè quello che erroneamente viene considerato individuo astorico, una sorta di buon selvaggio. Ma questa concezione, ancorché sbagliata, è riduttiva perché non tiene conto della storia che tutto macina, anche il povero Cristo senza potere e speranza di riscatto, e lo investe, lo coinvolge, lo trasforma. Bisogna allora andarseli a cercare questi momenti di presa di coscienza, in cui il buon selvaggio alza la testa, scende in piazza ed entra nella storia (Rina Durante, La scrittura delle radici, Bari 2008 p.68).
    E’ quanto ha fatto l’autore Maurizio Marzo, con “L’uomo che parlava alle pietre”.

2.
“Vedi, il tempo che si concentra
qui dentro questa stanza,
amico mio che t’invento,
comprime i giorni fino a soffocarli.
Questa è la mia vita
e da essa io ti sto scrivendo.
Io non ho altro
da me non parte nient’altro.
Leggimi quindi. Rimani e siedi.
In fondo non chiedo nient’altro
che essere guardata in faccia
e negli occhi spalancati”.
(Roberta Dapunt,  La terra più del paradiso, Einaudi, 2008, p.4)

3.
“So che un amore
può diventare bianco
come quando si vede un’alba
che si credeva perduta”.
(Alda Merini,  Clinica dell’abbandono Einaudi, 2004, p.83)

Nulla mai è perduto davvero quando è riscattato dalla memoria del cuore.


don Giuseppe LEOPIZZI