Una vita non basta

Scriveva Vincenzo Cuoco nel 1801 meditando sui mestissimi casi del 1799 occorsi a Napoli:
di qualunque partito io mi sia, di qualunque partito sia il lettore, sempre gioverà osservare come i falsi consigli, i capricci del momento, l’ambizione dei privati, la debolezza dei magistrati, l’ignoranza dei propri doveri sieno egualmente funesti alle repubbliche e ai regni; ed i nostri posteri dagli esempi nostri vedranno che qualunque forza senza saviezza non fa che distruggere se stessa e che non vi è vera salvezza senza quella virtù che tutto consacra al bene universale.
Ebbene, questo assioma, intriso di amara e lucida coscienza politica, mi pare possa meglio riassumere il messaggio dell’opera storico-biografica di Giorgio De Giuseppe. Medesima la funzione paideutica che ne intride le pagine, medesimo l’intento che ne ha sollecitato la pubblicazione: non un pur legittimo autocompiacimento, non un processo di anamnesi destinato a pochi intimi, non un semplice recupero memoriale di stagioni della sua vita, ma un fitto tessuto di riflessioni sulla dorsale di una storia compresa in un quarantennio. La quale vide fasti e nefasti di una Età sortita dalle brume del fascismo e della guerra, dapprima incunabolo di eroici furori orientati verso una renovatio rerum democratica e libertaria, poi incagliata nelle secche dei giochi di potere interni ai partiti, infine naufragata fra i marosi dei conflitti intestini cui dettero la stura “l’ambizione dei privati” e la “forza (scil. il potere) senza saviezza”.
De Giuseppe sperimentò da vicino, ossia da osservatore intemerato ed interno a quel divenire, luci e ombre, aurora e crepuscolo della prima fase repubblicana (che per metafora definirei l’Età della DC) e avanti che la notte di “tangentopoli” ne chiudesse per sempre il bilancio, volle sallustianamente reliquam aetatem a re publica procul habendam, per dedicarsi, come i grandi del passato (da Tucidide a Sallustio a Machiavelli) o come i suoi “maggiori” nella storia della letteratura politica meridionale e nella fattispecie salentina (Arditi, Castromediano, Romano ed altri), a rileggere la sua esperienza all’interno delle istituzioni e vergarne un consuntivo. Non per sé (dicevo) ma per iuvare mortales, ossia per dare ai suoi lettori (ed elettori di una volta) un reportage, uno strumento atto a conoscere, a comprendere, a riflettere sugli errori da non compiere, onde allontanare lo spettro di una Storia che da severa maestra sa impartire vieppiù severe ripetizioni a chi non faccia tesoro dei suoi insegnamenti.
Eziologia ed autocoscienza,  dunque, a beneficio di quanti, distratti o ignari, fecero spallucce, un tempo, all’indirizzo di quegli eventi oppure ne hanno oggidì rimosso coscienza e memoria, ma anche di quanti li ignorano per ancor fausta giovinezza di tempi o per precoce silenzio dei padri.
Tutto il percorso narrativo si snoda dai primi anni Cinquanta (ambientati nello scenario politico e antropologico di una Provincia, all’epoca, remota e negletta, ma operosa e fervida di entusiasmi civili e di impegno sociale) fino alle soglie del nuovo corso che la caduta del muro di Berlino, il crollo della potenza sovietica, il sisma etnico dei balcani, la prima guerra del Golfo, la tempesta di “mani pulite”, la nuova costellazione degli Stati europei fattisi Unione produssero, ponendo fine non solo a un lungo e ‘freddo’ dopoguerra, ma anche a un intero secolo: il “secolo breve” (1914-1989 e dintorni).
De Giuseppe attraversò lucidamente e talora dolorosamente (caso Moro docet) tutta la corsia del suo ministero politico scrutando da vicino gli animi delle folle e quelli degli uomini che ressero i destini d’Italia dopo De Gasperi (da Fanfani a Nenni a Moro a Berlinguer a Craxi a Spadolini a Cossiga a Scalfaro…) vagliando criticamente il loro agire, ma più spesso ricercandone i moventi, riflettendo con distaccata saggezza sui loro disegni, sulla loro lungimiranza e, talora, sui loro errori.
Prima da giovanissimo neolaureato cattolico, poi da esponente di spicco del Movimento giovanile della DC, quindi da delegato regionale e da consigliere provinciale nonché da segretario del Partito in Terra d’Otranto, visse infatti la fase “eroica”, propositiva, costruttiva, propria di un impegno personale e collettivo finalizzato, come ho già detto, a ricostruire, a rifondare il nuovo ordine sociale sulle macerie dell’antico. Infine, da senatore, da esponente di vertice non solo nella DC nazionale, ma soprattutto nelle massime Istituzioni (vice-presidente vicario del Senato e candidato alla Presidenza della Repubblica nonché capodelegazione in vari Paesi del mondo) occupò distintissimo seggio, mantenendo sempre alto il senso del dovere, immune (qual fu ed è) dai “capricci del momento” (Cuoco), forte soltanto di quella virtù che tutto consacra al bene universale.

L’opera storico-memoriale di Giorgio De Giuseppe appare, dunque, idealmente divisa da una bisettrice che separa il primo scenario, quello per così dire della provincia e di Maglie (suo paese natale dove attualmente egli dimora), dal secondo, quello degli orizzonti slargati tanto da comprendervi in essi una geografia politica di spessore europeo. E se nella prima parte il lettore si imbatterà in figure ormai scialbate o rimosse dal tempo, non si dorrà (se non salentino) di dover attraversare i luoghi della memoria forse più cari all’autore sia per comprensibili ragioni anagrafiche, sia per il contributo offerto al restyling di un ambiente socio-politico le cui coordinate umane e culturali restavano, fino ad ora, sepolte sotto la polvere degli archivi.
Vibra, in ordine al ventennio 1953-1972, tutto l’entusiasmo del giovine neofita della politica che il caso (o piuttosto il destino speculare al carattere dell’io) volle proiettare fra i vertici più alti delle istituzioni, mentre echeggiano in codesta sua periferia le risonanze delle grandi dinamiche sottese al potere centrale: nei paesi, fra le piazze e fra gli uomini del Salento vocati, per mandato popolare, a rappresentare la loro terra nella grande assise del Parlamento italiano. Qui la scrittura ci appare più cordiale ed emotiva specialmente in prossimità di figure parentali (la madre) e di amici o Maestri che nei lontani anni Cinquanta educarono Giorgio ai valori e agli ideali cui rimase sempre fedele. Si coglie il suo sguardo attento e sagace nell’osservazione e nell’intelligenza dei problemi, dei rapporti interpersonali, dei dibattiti sottesi alle “aperture” e spesso indigesti per quanti erano ancora riottosi a recepire il “nuovo” che irrompeva travolgendo (dopo i fatti d’Ungheria e sul fare degli anni Sessanta) antiche mentalità quarantottesche e pregiudizi e nostalgie di ancor più antichi privilegi.
De Giuseppe intuisce lo snodo epocale, ancorché giovanissimo, attestandosi su posizioni progressiste e profondendo entusiasmo ed energie nei primi comizi, nei primi congressi, nei Direttivi, mai defezionando dal contatto con l’elettore verso il quale maturerà un costante sentimento di debito e di servizio. E se mi è lecito proiettarmi a ritroso nella vita e rivedere in un flash la mia adolescenza, dirò che i primi vent’anni del quarantennio tracciato dall’autore coincidono con le fasi più significative della mia educazione alla politica dalla quale tuttavia mi tenni sempre lontano, in termini di militanza, ma alla quale guardai con passione e trasporto. E questi sentimenti io nutrii (indossando ancora i pantaloni corti) ascoltando i comizi che, nella piazza del mio paese -allora non esisteva il salottiero educandato di “Porta a porta”- tenevano, a una folla sempre assiepata e spesso murmure fra fioche luci, i maggiori esponenti dei partiti di allora. Fra costoro spiccava Giorgio De Giuseppe per la sua lucida analisi, per l’efficace sintesi, per la pacata ed elegante eloquenza.
Caratteri, questi, che ora tutti si ritrovano nell’ordito ideologico e stilistico della sua scrittura, ai quali si aggiungono serenità e distacco, anche quando lo sguardo indagatore, il rovello critico, penetrante di Giorgio affronta il punctum dolens delle crisi, delle rivalità, delle discordie interne ai partiti e al suo partito, tanto nello spazio angusto e periferico della rappresentanza comunale e provinciale, quanto in quello vertiginoso e illimitato della platea nazionale. Qui il secondo tempo: qui, sotto la lente dell’anamnesi, i nodi e gli snodi della politica italiana per gli anni 1972-1994. Ora siamo di fronte ad un vero trattato di politologia sia per la minuziosa cronotassi dei fatti narrati, sia per le valutazioni, per gli interrogativi che non restano mai senza risposta, sia per i grandi scorci di politica estera, sia per la sallustiana, spesso amara e oggi delusa lettura degli eventi, sia per lo scavo psicologico nella prassi dei personaggi (Fanfani, Craxi, Andreotti, Moro, Spadolini ed altri esponenti di ogni partito) sia, infine, per la diagnosi dei mali: brigatismo, correntismo, partitismo, malumori verniciati di ambizioni segrete, di personalismi, di superficiali approcci a problemi gravissimi, come la questione morale o lo scollamento fra vertice e base della DC cui si aggiunse la lontananza delle istituzioni dal Paese reale fattasi carne nelle ricorrenti crisi di governo le quali, esplose dall’irrequietezza e talora dall’ambiguità di alcuni leaders, perorarono il vero de profundis di tutto il sistema.
“Tangentopoli” fu, dunque, la causa apparente, ma (a dirla con Tucidide) molteplici furono le cause remote e ingravescenti. Da tutto il lucido esame di sì complessa fenomenologia, lo studioso di letterature classiche vede inverarsi alcune teorie di Platone e di Polibio relative a nascita, vita e morte di una Democrazia. La quale, dopo un lungo ordine d’anni si avvita su se stessa, avvizzisce, cede il passo alla demagogia e all’interesse dei privati, quindi, degenera in oclocrazia, in un potere convulso e disordinato della “massa” che ha perso la sua dignità di demos, né si distinguono da essa i suoi governanti per inopia di saggezza, di moderazione, di autocritica, di autocoscienza. Infine si trasforma nel primato di Uno solo.
E qui, negli snodi più oscuri e parossistici della politica italiana e della DC in particolare, emerge la statura dell’uomo-De Giuseppe, oltre che del legislatore e, ora, dello storiografo. Vibra una nuova corda in queste ‘seconde’ pagine: quella del risentimento morale di fronte alla coscienza di aver fatto tutto il possibile non solo nel preconizzare ad alta voce la “gaia apocalisse” del sistema, ma anche nell’aver profuso ogni energia (nei convegni nazionali, nella segreteria nazionale del partito, nelle riunioni al Senato dove egli fu capogruppo) per stigmatizzare i mali da cui erano afflitti il Parlamento, la DC, lo Stato!
Esemplari, in tal senso, il dissidio con Fanfani, il crollo del centrosinistra (“non rinacque il [suo] spirito originario perché il primo socialista alla guida del governo del Paese scelse semplicemente di presiedere un qualunque esecutivo pentapartito”), le strategie e le ‘evoluzioni’ di Craxi nel suo secondo governo con conseguente deterioramento di rapporti fra i partiti egemoni o fenomeni come quello dei “franchi tiratori”. Ma, soprattutto, si impose la necessità di rendere incompatibile il “doppio mandato” (ministro e parlamentare) del quale De Giuseppe fu estremo oppositore fino a proporne l’abolizione assai in anticipo rispetto ai tempi in cui essa si realizzò.
Altrettanto lucide e cospicue di riferimenti le pagine sulla politica estera italiana e sulle relazioni internazionali che ne costituirono il tessuto. Costante è il procedimento di scavo eziologico supportato assai spesso dalla citazione di documenti (discorsi parlamentari e interventi ai Consigli nazionali della DC sia dell’autore sia di autorevoli suoi colleghi e leaders) talché il volume si candida ad una lettura nelle scuole e nelle università tanto per la natura schiettamente storiografica, per la didascalica presenza di utili appendici, per il glossario di un lessico politico (morotei, dorotei ecc.) oggi desueto e incomprensibile ai più, quanto per la clarté geometrica del pensiero e della forma, ancorché intrisa, talora, di toni affabulanti.
Splendide le pagine conclusive su Tangentopoli e la crisi del sistema politico per acutezza di analisi e originalità di apporti. Un solo esempio:
Salendo le scale del Palazzo Cenci-Bolognini in Piazza del Gesù, fui assalito dal ricordo di tanti episodi, ma anche dal rimpianto per le cose che avrei voluto o potuto fare e che, ora, non potevo più realizzare. Provai la stessa sensazione avvertita da ragazzo, quando di notte, mi svegliavo di soprassalto […]. Avvertivo, allora, una magica energia che mi avrebbe consentito di superare qualunque difficoltà e tutto mi sembrava facile e possibile. Adesso, come per altro allora, era soltanto un illusione, aggravata dalla enormità dei problemi e dal tempo. […] Varcata la soglia del Palazzo di Piazza del Gesù, l’insolito silenzio mi riportò alla realtà. Nelle stanze, prima piene di animazione tanto chiassosa da infastidire, i telefoni ora erano muti ed i corridoi vuoti. Molti impiegati erano stati licenziati ed i pochi in servizio prevedevano sorte eguale per loro. Nell’anticamera, rividi una segretaria che conoscevo da quarant’anni: rispondeva alla rare telefonate ed attendeva gli improbabili visitatori. Non c’era alcuno ed entrai subito nell’ufficio di Martinazzoli. Accecato dal fumo che ammorbava la stanza, ebbi difficoltà a scovare Mino, sprofondato in una poltrona […]. Ora sembrava che nulla stesse per accadere. C’era la sensazione che tutto fosse stato predisposto per un lungo periodo di ferie: infatti, sui tavoli e sulle sedie erano state stese lenzuola per proteggerle dalla polvere. In quella sala […] erano state prese decisioni che avevano cambiato in pochi anni l’Italia inserendola nel consesso internazionale […] consolidando la democrazia, assicurando un prodigioso sviluppo […] che aveva trasformato il Paese.
Ma, lasciando gli addii, come direbbe Manzoni il “sugo” di tutta la storia è forse un altro e si esprime con queste parole: “Si vive una sola volta, anche se una vita non basta a completare l’opera e a rimediare agli errori”. Ed anche con quelle di Vincenzo Cuoco che, in incipit, abbiamo ricordato!
L’Autore, attraverso la sua vita, ha storicizzato, dunque, quarant’anni di vita nazionale e di questo dobbiamo essergli grati.

Gino PISANÒ