'La cena di Emmaus' e Paolo Veronese

Una suggestiva iniziativa dell'estate salentina ricorda il noto artista veneto, perseguitato dall'Inquisizione.

“La cena di Emmaus” è il nome di un progetto culturale e visionario (realizzato da Josè Corvaglia e prodotto da Gianluca Arcopinto, in collaborazione con Associazione 17) che, rievocando un noto soggetto iconografico della modernità, attraverso un cortometraggio prima (insignito di vari riconoscimenti), ed un libro e una mostra poi, intende “tentare una nuova forma di distribuzione, un nuovo modo di fare cinema, di fare arte”. Ma vuole anche essere un'occasione per coinvolgere, anche con “cene conversazioni”, protagonisti del mondo del cinema e della cultura italiana in un confronto aperto con il pubblico durante il periodo della Mostra, allestita nel Palazzo Baronale di Vaste-Poggiardo (Lecce) dal 19 luglio al 19 ottobre. Il titolo del progetto, come chiarito dagli organizzatori, nasce dalla suggestione per l'omonima opera di Caravaggio, conservata alla National Gallery di Londra, in cui “ogni arto dei soggetti si racconta, in ogni segno, in ogni momento. Tutto in un attimo, lo spazio si anima continuamente. Le gambe, le mani sembrano urlare e poi fermarsi, mentre il Cristo con la sua mano ti grida in faccia. E tutto, anche se fermo in un istante, diventa movimento”.
In realtà, ad inaugurare un tipo di composizione a sviluppo orizzontale con una grande ricchezza di figure, includendo ritratti e scene di genere, era stata la Cena in Emmaus di Paolo Veronese (del 1560 circa), oggi nel Museo del Louvre a Parigi, preludio alle immense tele dipinte per alcuni refettori di comunità, rappresentanti fastosi banchetti inquadrati da architetture ispirate a Sansovino e Palladio (tra le sue Cene, oltre al Convito in casa Levi dell'Accademia di Venezia, quelle della Galleria Sabauda di Torino, di Brera e del Santuario di Monte Berico a Vicenza). Il noto dipinto dava avvio, pertanto, ad una serie di composizioni, le cosiddette “cene”, dove il soggetto sacro si traduceva in una spettacolare festa signorile.
Un'occasione, dunque, quella di Vaste, che consente, nella sua originalità, e solo ai più sensibili conoscitori dell'arte moderna, di ricordare l'opera del noto artista veneto vissuto nel secolo XVI, già al centro, lo scorso anno, di un'importante iniziativa del comune di Ostuni, che aveva visto la presentazione della mostra fotografica “Sulle tracce del Veronese”, relativa al restauro della “Deposizione dalla croce”, tela conservata nella Chiesa di Maria SS. Annunziata di quella città.
Carattere piacevole e sereno, Paolo Caliari detto il Veronese (1528-1588), con il quale, assieme a Tintoretto e Bassano, si giunse nel Veneto ad una propria affermazione del Manierismo, esprimeva, nella sua pittura, il gusto per il fasto mondano e la gioia di vivere, sia quando descriveva sontuosi banchetti incorniciati da monumentali ambienti architettonici (in cui si riconosce la più caratteristica espressione della sua arte), che quando si compiaceva nella formulazione di immagini allegoriche di classica bellezza. A differenza della pittura scura del Tintoretto, caratterizzata dai forti contrasti di luce, dal pathos e dalla drammaticità, quella del Veronese, meno tormentata ma fortemente teatrale, si esprimeva con colori chiari, luminosi dai toni freddi e trasparenti (particolarmente noto è quel verde brillante, ottenuto mescolando tre pigmenti applicati in due strati, utilizzato in alcune delle sue opere ed anche nella Cena in casa di Levi), pur partendo da analoghe premesse manieristiche espresse nella dinamica concezione compositiva e scenografica e nell'anticonformismo dell'ispirazione. Ma era proprio la sua cultura ad essere in parte diversa da quella di Tintoretto, in quanto la posizione strategica rendeva Verona molto aperta agli stimoli provenienti sia dall'Emilia (in particolare le opere di Correggio e Parmigianino), sia dalla Lombardia (il manierismo di Giulio Romano a Mantova), che sarebbero stati determinanti per il giovane Veronese. Egli in realtà non era manierista nel senso “tintorettiano” o toscano (cioè michelangiolesco), anzi era programmaticamente “classico”, e in questo senso era il miglior collaboratore di Palladio, l'ultimo grande architetto classicista del Cinquecento, e il miglior interprete pittorico dell'“ideologia” della villa veneta.
Fu il decoratore ufficiale della repubblica di Venezia, città in cui si era trasferito ancora molto giovane e in cui sarebbe rimasto per tutta la vita (eseguì, tra l'altro, numerose tele celebrative dei fasti veneziani per Palazzo Ducale), capace di cogliere soprattutto il dato narrativo e di costume come parte fondamentale dell'avvenimento e più in generale della storia; e fu pittore di rara intelligenza nel saper raccordare le proprie scene all'ambiente architettonico in cui dovevano essere collocate. Proprio per queste sue grandi qualità decorative, sarebbe stato l'artista veneziano prediletto nel Settecento, il secolo che amò, più di ogni altro, la decorazione degli ambienti, e sarebbe stato preso a modello da Tiepolo e da tanti altri artisti, molto vicini, duecento anni dopo, alla sua sensibilità.
La sua pittura si caratterizzava per figure dai nitidi contorni e dalle superfici dilatate, realizzate con audaci scorci prospettici e sapientemente composte a gruppi contrapposti fra complesse strutture architettoniche; la tendenza a comprimere i piani prospettici, gli permetteva, inoltre, di collocare le figure in primo piano, stagliandole su tersi sfondi atmosferici (come nei soffitti di S. Sebastiano o del Palazzo Ducale). Ma l'aspetto più caratteristico dell'arte del Veronese era, dunque, nel suo particolare “classicismo cromatico” dalle tonalità fredde e chiare, cioè nel colorismo antinaturalistico e timbrico in cui ogni singolo, purissimo colore era nitidamente staccato dagli altri ed usato nel suo timbro più luminoso: il tocco della pennellata faceva emergere i toni più puri e brillanti dalla base più scura e l'intensità tonale era esaltata dall'accostamento a colori complementari e dall'uso di ombre colorate e ricche di riflessi luminosi. Il Veronese si distaccava così, in modo evidente, dalla tradizione della pittura tonale veneziana, coi suoi toni caldi e le sue velature atmosferiche.
“Finzione”, illusionismo e coinvolgimento dello spettatore sono le caratteristiche principali di molti suoi affreschi, le stesse delle rappresentazioni teatrali, che sarebbero state fondamentali in epoca barocca: la vera poesia di Veronese stava proprio nel valore di pura “immagine” che egli riusciva a dare ai soggetti narrati e alle sue figurazioni. Sono, dunque, appropriate le parole del critico Giulio Carlo Argan, per il quale Veronese “trasforma la decorazione in uno spettacolo vario e brillante, quasi in un concerto visivo che accompagni il convito o la festa con il diverso ritmo, scherzoso, solenne o pastorale, dei suoi tempi”. Uomo dall'indole serena e di piacevole compagnia, il Veronese diventava, così, l'interprete ideale del modo di vivere intellettualmente libero e civile della società veneziana del suo tempo. La sua descrizione dei Conviti, in particolare, si allontanava in modo evidente dal soggetto storico rappresentato, compiacendosi, invece, della fastosa rappresentazione di una società mondana e raffinata all'interno di sontuose scenografie architettoniche.
Questa sua visione libera e spregiudicata – come si vedrà a breve – gli valse un processo dell'Inquisizione in quanto la sua versione dell'Ultima Cena, eseguita per i Domenicani di San Zanipolo, venne giudicata irriverente e sconveniente con i suoi “buffoni, imbriachi thodeschi, nani e altre scurrilità”.
In realtà, tutta l'arte italiana della seconda metà del Cinquecento risentì delle rigide direttive emanate, con una laboriosa codificazione, dal Concilio di Trento (1545-1563) e diffuse dai trattatisti del tempo; e ciò dal momento che, come nel mondo tedesco, anche in Italia la propaganda eterodossa fece spesso ricorso a strumenti iconografici, portando le autorità ecclesiastiche a ribadire il legittimo uso delle arti figurative. L'assise tridentina, posta l'attenzione sull'arte quale potente strumento di propaganda e sulle immagini quale testo potenziale di una “bibbia degli analfabeti”, aveva, difatti, decretato che l'arte religiosa doveva raffigurare le cose in modo inequivocabile: tutti gli angeli dovevano avere le ali, tutti i santi le aureole; se la loro identità non era esplicita, dovevano avere etichette, a dispetto di qualunque esigenza di realismo o di estetica. La nudità veniva malvista, anche nei casi in cui sembrava avere una giustificazione biblica. Aveva, dunque, dettato norme anche per la produzione artistica commissionata dalla Chiesa: maggior rispetto delle fonti, bando alle invenzioni gratuite,  alle scene profane e mitologiche. Per i trattatisti della Controriforma, come il cardinale Carlo Borromeo, l'arte doveva avere, pertanto, un compito didattico, essere semplice e chiara in modo da “commuovere il fedele” e condurlo senza dubbi verso la fede. Per questa ragione, gli artisti dovevano occuparsi esclusivamente di soggetti religiosi, attenendosi fedelmente ai testi sacri, eliminando, dunque, quei soggetti e quelle scene “pericolose” che tanto avevano caratterizzato la seconda metà del Quattrocento e il primo Cinquecento. A seguito di tali dettami, nel 1557, il letterato Ludovico Dolce biasimava Michelangelo e i suoi seguaci, la cui arte era considerata troppo complessa, intellettuale, ricercata e innaturale, esaltando invece la dolcezza e la semplicità di Raffaello. A subire forti limitazioni era, dunque, la libertà degli artisti, se si pensi che il pontefice Paolo IV, nel 1564, ordinava al pittore Daniele da Volterra di coprire i nudi di Michelangelo nel Giudizio Universale. Nasceva, così, una vera e propria “arte della Controriforma” di carattere religioso, di semplice lettura, che recuperava la tradizione precedente a Michelangelo. Ciò non toglie, naturalmente, che in questo periodo vi siano stati episodi di arte profana o intellettuale o ancora capricciosa e bizzarra, ma restano, appunto momenti relativamente isolati in un contesto che, nella seconda metà del secolo, va omogeneizzandosi in un linguaggio comune a tutta l'Italia e agli altri paesi cattolici, sotto l'egida della Chiesa di Roma.  
Una tale atmosfera fu vissuta pure in prima persona da Paolo Veronese, processato dall'Inquisizione per certe eccessive licenze nella rappresentazione degli eventi sacri. Al centro della disquisizione, la vastissima e spettacolare tela raffigurante la Cena in casa di Levi, di quasi tredici metri di larghezza, originariamente dipinta per il refettorio del convento domenicano dei Santi Giovanni e Paolo, a Venezia, e oggi conservata presso le Gallerie dell'Accademia. È uno dei capolavori della maturità del Veronese, eseguito nel 1573 e raffigurante l'episodio evangelico dell'Ultima Cena. Accusato dal tribunale dell'Inquisizione di aver introdotto nel dipinto alcuni particolari sacrileghi, non menzionati nella Bibbia, Veronese, che si difese confessando ingenuamente che quelle figure erano lì per riempire lo spazio, cambiò il titolo dell'opera in Cena in casa di Levi, facendo riferimento a un episodio narrato nei Vangeli.
II pittore immaginava che la scena sacra avvenisse sotto un grande loggiato ad arcate di tipo palladiano, conoscendo molto bene l'architetto veneto per aver affrescato, una quindicina di anni prima, alcune pareti di Villa Barbaro a Maser. Le grandi arcate, disposte in senso orizzontale da sinistra a destra, sovrastavano le figure con la loro ampiezza e monumentalità e costituivano la struttura portante dell'immagine. Su di esse convergevano due scalinate laterali affollate di persone che andavano e venivano: il pittore trasferiva audacemente gli avvenimenti sacri in un'ambientazione contemporanea, cioè cinquecentesca, sia dal punto di vista architettonico sia da quello degli abiti dei protagonisti. Gesù era al centro, attorniato da numerosi personaggi, invitati, camerieri che portavano vassoi carichi di cibo, cuochi, notabili riccamente abbigliati, alcuni impegnati in vivaci conversazioni, tutti vestiti con gli abiti del tempo del pittore: un'umanità varia, multicolore, gesticolante e schiamazzante che rendeva la scena affollata, concitata e decisamente profana. Dalle terrazze e dalle finestre retrostanti, inoltre, si affacciavano diverse persone ad osservare il singolare avvenimento, una vera e propria festa mondana che non aveva nulla della sacralità e dell'intimità dell'ultima cena descritta nei Vangeli e limitata ai soli apostoli.
Per realizzare questo, Veronese utilizzò tutte le possibilità espressive della sua tavolozza, non solo i rossi, i gialli e i rosa che ammantano vistosamente alcuni personaggi, ma tutte le tonalità dei grigi e degli azzurri (per esempio nel cielo), dei bianchi (nei palazzi dello sfondo), degli avorio (nelle colonne e nelle altre parti marmoree) e degli ocra (nelle decorazioni sopra le arcate).
II Tribunale dell'Inquisizione, un'istituzione rinvigorita dalla Controriforma, contestò il soggetto e sottopose Veronese a un lungo interrogatorio. Si sono conservate le carte del processo (avvenuto nel 1573), che rappresentano un interessante spaccato della vita del tempo, in cui Veronese difendeva se stesso e la libertà creativa del pittore. Con le sue risposte il pittore affermava il diritto alla libertà espressiva, paragonando l'artista non solo ai poeti ma addirittura ai matti, in un'epoca in cui le rigide regole imposte dalla Controriforma intendevano imbrigliare la fantasia degli artisti e limitarne il respiro poetico. Il pittore fu condannato a “correggere et emendare” il dipinto entro il termine di tre mesi; non fu necessario eliminare o cambiare qualche figura, ma semplicemente attribuire all'opera un altro titolo: Cena in casa di Levi. Si trattava, infatti, di una scena di tutt'altro genere, e di significato assai diverso. Levi era l'apostolo Matteo, di professione esattore delle tasse, fin quando un giorno fu chiamato da Cristo: organizzò per lui un grande banchetto nella sua sontuosa casa, cui parteciparono numerosi amici suoi e altri peccatori (che è l'evento narrato in questo quadro da Veronese). La presenza di Cristo in un luogo simile generò scandalo, ma Gesù rispose che “non sono i sani ad aver bisogno del dottore, ma gli ammalati”, cioè i peccatori. Questa visione molto teatrale e profana della pittura è una delle caratteristiche peculiari di Veronese, proprio perché in questo modo egli poteva esaltare tutte le potenzialità del colore e della luce come mezzo espressivo delle sue fantastiche invenzioni, parallelamente, ma in maniera e con esiti diversi, a Tintoretto e a Jacopo Bassano, e si diffuse poi in tutta la pittura veneziana della seconda metà del Cinquecento, sopravvivendo addirittura nel secolo successivo.
A subire una sua influenza sarebbe stato pure il gallipolino Giovanni Andrea Coppola (1597-1659), secondo quanto rilevato, in occasione di uno dei suoi numerosi viaggi, dal critico tedesco Hermann Riendesel, che individuò “nella casa dei di Lui discendenti ed eredi del suo nome [...] una 'Venere' del genere di Paolo Veronese”, come puntualmente riportato dal Ravenna.
Per concludere, riprendo quanto scritto da Fabrizio Magani su L'“Avvenire” del 13 febbraio 2005, in occasione della straordinaria mostra dedicata al Veronese, curata da Giandomenico Romanelli e Claudio Strinati ed approdata a Venezia dopo il successo a Parigi: “Paolo Veronese è oramai un valore consacrato nel panorama artistico veneto del Cinquecento e si dedica agli scenari grandiosi delle sue Cene: soggetti religiosi si dirà, quindi fuori dal tema in questione, ma in realtà il potenziale profano insito in tali immagini permette di accostarle alla rappresentazione teatrale urbana che richiama l'afflusso di un pubblico indiscriminato, desideroso di assaporare il piacere del divertimento in forma interclassista. Anche Veronese, il teatrante Veronese, chiamava una moltitudine di attori e comparse alle sue Cene dipinte. Troppi per la censura, che trovò l'illecito nell'Ultima Cena dipinta dal maestro per il convento domenicano dei Santi Giovanni e Paolo. Fu la censura di uno Stato laico a colpire, ma ciò non toglie che la percezione del proibito in materia religiosa, all'indomani della conclusione del Concilio di Trento, fosse meno sentita dai dignitari veneziani garanti delle disposizioni della Chiesa con la quale la Repubblica non sempre aveva avuto rapporti morbidi. Veronese aveva inscenato un banchetto piuttosto movimentato, al punto di non rendere riconoscibili gli Apostoli soffermandosi, piuttosto, sugli aspetti mondani della festa. Gli si rimproverò di aver ecceduto in una pittura 'piena di scurrilità', di aver fatto 'scherno delle cose della Santa Chiesa Cattolica'. E allora Veronese dovette adattare con qualche accorgimento il soggetto del quadro che divenne il Convito in casa di Levi, in cui pubblicani e peccatori si dedicano ai piaceri della tavola. Ma rimane indimenticabile la difesa del maestro: 'Nui pittori si pigliamo licenzia che si pigliano i poeti e i matti'”.

Milena SABATO