La coscienza cosmica dell'uomo

L’originaria coscienza di sé ed il rapporto con l’universo ha indotto l’uomo a sviluppare il concetto di “possesso del mondo” come conseguenza della presa di coscienza di poter disporre di facoltà fondamentali superiori alle altre specie. Sin dalle epoche più remote tale obiettivo si è andato delineando nella mente dell’uomo come forma collaterale della pur legittima aspirazione al superamento di una mera condizione esistenziale terrena per tendere al potenziamento della sua sfera spirituale e delle sue facoltà peculiari. L’esperienza sensoriale, la più immediata per la presa di coscienza della realtà ai fini della relativa conoscenza, ha permesso all’uomo di relazionarsi con la natura in termini fisici di tipo spazio-temporale, con l’aspirazione a voler risalire all’archè, alle origini delle cose.

Ha aperto, così, una via di ricerca che ha condotto anche alla scoperta di una propria condizione interiore, distinta da quella fisica. Le facoltà peculiari dell’uomo, possedute sin dai primordi, hanno favorito l’estensione dell’io, della sua coscienza e delle sue capacità percettive, entro dimensioni che oggi appaiono invalicabili. Furono le stesse facoltà che permisero all’uomo, impropriamente definito primitivo, il superamento della condizione prettamente esistenziale, per pervenire in ambiti specificamente adatti alla dimensione dello spirito.
Tale presa di coscienza, implicante una capacità sensoriale molto acuta, ha favorito il costituirsi, sin dall’origine, di una forma di religione espressa con rituali magico-sacrali praticati sotto la protezione di uno spirito-guida o nume tutelare. Ad entità superiori era riconosciuto il potere di “possedere” l’essere umano e di consentirgli, tramite una “connessione archetipica”, l’estensione delle sue facoltà psichiche entro le dimensioni extra-sensoriali, fino all’immissione nel mondo delle essenze, ai fini di partecipare a condizioni di vita assoluta, dalla “durata perenne”.

L’incontro dei due sistemi di conoscenza dell’universo, razionale e spirituale, apparentemente antitetici, avviene sul piano in cui l’originarsi della propria coscienza e poter risalire alle origini del tutto coincidono in un unico atto, poiché entrambi fanno leva su di un unico centro psichico, il kerenyiano “luogo d’irruzione interiore”, dal quale diparte l’essere per espandere la propria coscienza nel mondo, ma nel quale anche si ritrova in condizioni di maturata consapevolezza delle cose e del sé.

Pratiche di connessioni archetipiche furono preposte, in tempi molto remoti, ad eliminare i confini esistenti tra caos e cosmo, per farli coesistere armonicamente nella coscienza dell’uomo, nel suo equilibrante centro d’irruzione.
Agire su tale centro interiore, risalire alle origini voleva dire liberare magicamente la coscienza dall’horror, che poteva far soccombere l’essere umano di fronte alle difficoltà, e favorire la metamorfosi dell’horror in aurora, voleva dire trasformare il caos primigenio in cosmo ordinato,
tramutare l’apocalisse in creazione perenne, l’oscurità della morte nella solarità della rinascita.
Al solo sacerdote-astronomo, però, era concesso di estendere la propria percezione sensoriale nei luoghi delle essenze e della cristallizzazione perenne delle cose, quella dimensione superiore presente in tutti i miti e le religioni e nella quale vigeva la conoscenza del tutto, espressa con il linguaggio dei simboli cosmici. Si aspirava ad accedere a tale conoscenza per avere una visione ordinata dell’universo e riuscire a penetrare nei misteri delle leggi che lo governano, che ne regolano i cicli, in una continuità spazio-temporale che assimila anche il divenire esistenziale dell’essere umano nella perennità delle dimensioni cosmiche.

Visione relativa dell’Universo
Nella relatività delle conoscenze, in natura, si manifestano invece condizioni caotiche destabilizzanti per l’uomo, per le sue certezze basate su modelli di riferimento assoluti, elaborati mentalmente ed universalmente acquisiti. Di fronte ad intensificate macro turbolenze l’umanità si ritrova ad essere impotente e privata del suo apparente potere del “possesso del mondo”, incapace di orientare a proprio vantaggio gli andamenti della natura. Particolari eventi caotici devastano ciclicamente il pianeta Terra all’interno di un universo in continua trasformazione, richiamando le misteriose forze catastrofiche del caos primigenio, i processi cosmogonici che furono all’origine di ogni cosa.



Situazioni distruttive, che rimandano al Caos originario o al diluvio universale, per le loro caratteristiche di tipo apocalittico, sono narrate nelle scritture sacre delle più antiche religioni del mondo. In esse si è ricorso spesso al linguaggio proprio del mito e ci si è serviti di simbologie quali forme archetipiche per stabilire rapporti di connessione tra la dimensione spazio/temporale dell’esistenza terrena e quella universale, luogo delle essenze in durata perenne.
Le narrazioni a-spaziali ed a-temporali del mito assumono, così, significato di verità mistiche dal valore universale, necessarie per annullare la distanza che separa l’uomo e tutte le forme di vita dell’ambiente sensibile dal luogo dell’origine.

Tale principium corrisponde all’incipit primordiale ed è riferito all’atto creativo, al biblico fiat-lux, nel quale fu possibile la scissione da una Singolarità in dualità giustamente complementari, poiché unite in un connubio equilibrante dei loro opposti principi: il femminile e il maschile, lo yang e lo yng, la notte e il giorno, il buio e la luce, l’horror e l’aurora, il male e il bene, la catastrofe e la creazione, il caos e il cosmo.
(fine I parte)

Marisa GRANDE