Florio Santini e la sua Africa

Il 23 dicembre 2007 è scomparso nella sua città natale, Lucca, dov’era
ritornato dopo più di vent’anni vissuti nel Salento, il mio amico Florio
Santini. Lo conoscevo dall’inizio degli anni Ottanta e non poche volte le
nostre strade si erano incrociate, vuoi per motivi intellettuali vuoi per la
sincera amicizia che si era instaurata tra di noi. Indimenticabili le serate
passate con lui e “Piccola Nuvola” nelle scuderie dell’antico maniero dei De
Viti De Marco. Appena pochi mesi prima di partire per Lucca, nel 2006, aveva
finito l’ultima sua fatica letteraria, che io avevo pubblicato nella collana
gallipolina dei “Poeti de l’Uomo e il Mare”, fondata dal suo grande amico ed
estimatore Augusto Benemeglio, che nella nostra Gallipoli per decenni è
stato l’infaticabile produttore culturale di mille e mille iniziative.
“Mi ammalai di mal d’Africa”, questo è il titolo dell’ultimo suo libro,
ripreso da un capitolo di una sua non recente fatica letteraria,
“Ripensandoci” (Lecce 1994), nella quale egli scrive dei suoi due più grandi
amori geo-letterari: il Salento e l’Africa.
Conobbi Florio una sera di tanto tempo fa. Da poco aveva preso la decisione
di stabilirsi definitivamente nel Salento, precisamente ad Otranto, dove
aveva capito di essere giunto alla fine del suo "lunghissimo errabondare".
Accadde dopo essere entrato per la prima volta nella basilica-cattedrale di
Otranto laddove, trovandosi davanti alla figura dell’Asino Arpista,
stilizzata dal monaco Pantaleone sul mosaico pavimentale, capì che lì c’era
ancora una storia da vivere e tutt’ancora da scrivere.
Così ricorda Florio quel momento: "Improvvisamente iniziai a tremare come
una foglia ed uscii a cercare una casa da acquistare" (cfr. “Ripensandoci”,
Lecce 1994, p. 21). Sono sue parole, che egli carica di altri significati
quando, presentando “La solita storia”, primo capitolo della parte relativa
alla Terra d’Otranto, scrive: "Otranto è diversa. Ad Otranto ti ritrovi
abbronzato ed hai preso il sole nel vento... Ho imparato più cose da quando
mi aggiro sfaccendanto per le stradette di Otranto o seggo in faccia
all’onde, dietro gli archi e l’àncora in fondo al porto" (p. 25).
Questa è una delle tante motivazioni per le quali egli fece quella radicale
scelta di vita. Assieme alla sua inseparabile moglie “Siou-Wan” (Piccola
Nuvola, altrimenti da lui amorevolmente chiamata "Lydie, [sua] immeritata
fortuna"), decise di trapiantarsi in terra del Salento "dopo aver gettato
simboliche àncore in Via del Porto ad Otranto e gustato interessanti
cronache medievali" (p. 43). Il suo amore per questa terra lo esplicita
anche in una poesia, forse rimasta finora inedita e che io mi ritrovo fra le
sue carte. S’intitola Messapia e dice così: "Con caratteri di pietra
scrivesti la tua storia:/ eran lettere angolate come tombe,/ tombe che mai
lasciasti senza stele./ Dentro mettevi il sacro da riportar lontano:/
sbarcasti qui ignota da noi profani/ a fondarvi una repubblica di pace/
ch’enormi mura eresse per difesa dei campi/ arati nel culto del Dio sole./
Civiltà austera, contadina, ricca di cose vere/ come le chianche semplici
delle tue dimore,/ case-fortezza dove il pane e il vino/ più l’amore delle
tue donne belle/ insegnaron i segreti della felicità terrestre,/ prima che i
barbari ti cancellassero, Messapia dolce,/ dalle zolle feconde, dai tuoi
boschi, dalle tue colline./ Ma quando risorgi dotta dai sassi negli scavi,/
tu punisci noi, vani posteri orgogliosi,/ intatti conservando tesori
misteriori".  
Nel Salento, Santini scrisse di aver trovato "un’umanità genuina e
patriarcale; [...] un’umanità come quella d'una magnifica famiglia [...];
[in particolare scrive poi di vedere] a Otranto [...] Madonnine dappertutto
e quella simpatica celebrazione dei Beati Martiri, mista di conferenze e
luminarie con Sindaco in tricolore e Prelati e Amministratori, uno più
attivo e gentile dell'altro; [...] A Otranto [...] il tono allegro della
gente, tuttavia, non concede arrabbiature; se vuoi non importa cosa, vai con
fiducia al mercato e [...] tra scalini, scale, scalette e scalinate, puoi
persino trovare chi t'incornincia i quadri come sempre avevi sperato [...];
ad Otranto non ti senti turista plagiato, sei solo un amante della costa,
dunque un uomo libero. In definitiva, gli otrantini non vogliono perdere
l'antica dignità di abitanti di un'antica terra, per certi viandanti
stagionali [...] Di cappelle ne ho viste in tutta la Cristianità, ma quelle
ossa, quelle tibie, quei teschi sottovetro in Cattedrale sono un insolito,
formidabile martirologio; e quella consunta gradinata in pietra secolare,
con a lato la moderna, in marmo per i visitatori, che discendono e risalgono
verso e dal cuore profondo di Otranto eroica, sembra l'allegoria leggendaria
e reale assieme di questa terra bivalente, non abbastanza nota, i cui testi,
le cui municipalistiche ricerche meriterebbero d'esser presenti nelle grandi
biblioteche italiane" (cfr. "Etnologia Antropologia Culturale/ Studi e
Ricerche", rivista pubblicata sotto gli auspici del Consiglio Nazionale
delle Ricerche, anno XI, Napoli, gennaio-dicembre 1983, pp. 76-82). Credo
che questa di Florio Santini, un non salentino d’origine, sia la più bella
dichiarazione d’affetto scritta in tempi moderni.
Il nostro primo incontro, dunque, avvenne a Lecce intorno ai primi anni ‘80.
L’occasione: un’iniziativa dedicata alla poesia; il luogo: la Società
Operaia “Eugenio Maccagnani”. Florio intervenne fra i primi, declamò alcuni
versi di una sua poesia, che canta la bellezza del luogo e rimotiva il
perché del suo “buon ritiro” qui: "Torre del serpe// Se cadrà quella pietra
resistente/ in bilico dov’è la finestrella/ della Torre non rimarrà più
niente/ a testimonio di quanto fosse bella// [...] Forse per lei mi fermai
un giorno/ quando volli definire il mio ritorno:/ quella pietra, Otranto
benedetta,/ significò il destino che m’aspetta" (p. 27).
Otranto, dunque, prima di tutto, e poi Uggiano La Chiesa, e di questo antico
e solare paesello, la minuscola frazione di Casamassella, e le persone e le
cose, e gli alberi e gli animali, soprattutto i suoi più cari amici, gli
amatissimi cani, e il sole e le pietre, e altro ancora di questa terra
magica e di luce. Santini ha scritto: "Fu, poi la volta di Uggiano La
Chiesa. Qui, scoprivo porte e portali, portoni e portelle, cornici e
cornicioni, terrazze e terrazzini, finestre e finestrelle, quasi a
sottolineare l’importanza che la gente “rurale” dà alla casa, intesa come
piccolo, gelosissimo regno. E fu la volta di Casamassella... Passavo, a
piedi, per strade alternanti vecchie facciate e segni vistosi di benessere
conquistato, scale consunte e invitanti ingressi, senza possibilità di noia.
Era una specie di “lettura completa” dove gli opposti coesistevano, creando
una simpatica armonia discorde. Qualcuno mi salutava, senza che io lo
conoscessi e non potevo non rispondere, grato e felice di quella ormai
introvabile “materia prima” che è la comunicazione umana. Da queste parti,
ne sono insoliti custodi e fornitori [...] Gente con la quale puoi fermarti
a parlare di tutto, specie se di politica, senza bisogno di presentarti;
tanto, loro sapranno sempre chi sei: tu no" (cfr. “Ripensandoci”, pp.
43-44).
Una scelta di vita, dunque, un luogo cercato e ritrovato dopo aver
girovagato in lungo e in largo per molti mari, per molti porti, per terre
assai lontane, per ambienti diversissimi l’uno dall’altro, con colori che
non si dimenticano mai, come quelli dell’Africa, appunto. E Florio Santini
proprio qui, in questa Finubusterra italiana, trova la pace, il silenzio, il
ristoro della mente e della carne, il profumo dell’esistenza, l’incanto
della tenerezza. Scrive: "Il petroso Salento, e soprattutto una città
d’insolita bellezza come Otranto, bisogna dimenticare, oggi, quanto su essa
è stato scritto e riscritto, senza nulla aggiungere di nuovo alle sue pur
suggestive storie. Di questo mare idruntino, invece, bisogna conoscere
correnti e approdi, esplorare caverne e scogliere; insomma, bisogna
giungervi dal largo, non da terra. Baie, canaloni, grotte, insenature dai
suggestivi toponimi, allora, spiegheranno cose non dette, civiltà
dimenticate, portandoci spesso fino alle soglie del mito, giusto quello che
dal mare approdò, là dove la costa si apriva, calda e sicura, ai marinai. In
verità Otranto, terra di sole e di vento, mi conquistò del tutto quando,
dopo averla studiata in cronache avare, la vidi dal suo limpidissmo azzurro,
come la videro i Greci. La costa si avvicinava azzurra nel mattino,
rosseggiante di sera; e gli antichi lutti, le mistiche storie sparivano
nella fiducia chiara ch’essa trasmetteva" (cfr. “Anche la vita ha i suoi
scavi”, Otranto 2004, pp. 60-61).
Questa di Florio è una pagina dalla forza poetica straordinaria,
dall’afflato ampio di un innamorato per la sua sposa, dall’abbraccio
appassionante di un amante inebriato dal profumo del seno dell’amata.
Amata/amante che è Otranto, i suoi dintorni, Uggiano La Chiesa,
Casamassella, il Salento tutto. Come si fa a non rimanere incantati davanti
a tanto sentimento per una terra non tua ma che tu senti tua quanto la tua
originaria?
L’amore di Florio per l’antica Terra d’Otranto è tale anche per l’Africa,
per il grande, docile, sofferente continente nero, là dove un giorno egli si
ammalò di quel suo “male” ancestrale, per cui "decise di conoscerla a fondo,
nei suoi particolari men noti [...] per scoprire in che cosa consiste la
realtà artistica negro-africana" (cfr. “E trovai lo spirito del mondo”,
Galatina 1998, pp. 77).
Santini, come addetto culturale e direttore dell’Istituto Italiano di
cultura presso le ambasciate italiane del continente nero studiò seriamente
la realtà africana. Su di essa ha scritto pagine altamente suggestive che
toccano il cuore. E questo non lo nascondeva, anzi. Quando a Lecce avvenne
il nostro primo incontro, Florio indossava un completo blu con dei bottoni
dorati. I capelli sfolgoravano di un bianco di calce viva, la pelle scura di
chi il sole sapeva sopportarlo, nel vento appunto, il corpo forte e
atletico. Mi diede subito l’impressione di un uomo di mare, non di un
professore. Non conoscendolo, nel mio intervento, azzardai ad indovinare, e
dissi che egli era sicuramente un ufficiale della Marina, o comunque un uomo
che sull’acqua salata aveva passato giorni mesi ed anni. Con la sua voce
precisa come l’asta di una bilancia, mi riprese precisandomi che era quello
che effettivamente era: un professore di Storia e Filosofia che aveva
insegnato e diretto le scuole degli italiani all’estero.
Quella serata del nostro primo incontro passò, e passò pure qualche tempo
relativo alle nostre scorrerie letterarie salentine. Allora c’era ancora
Salvatore Toma con la sua poesia della liberazione a Maglie; e Antonio L.
Verri con le sue grandi falcate letterarie in tutto il Salento ma un po’
anche fuori provincia; e il mite cantore d’Otranto Antonio Corchia; e poi
Nicola G. De Donno con la sua poesia vernacolare a Maglie; e il mio amico
Mimì De Rossi, storico ambulante, ed Edoardo De Candia con le sue tempere e
il suo vino, e la dolce evanescente Claudia Ruggeri con la sua tragica
poesia a Lecce; e il mio amico angelico Norman Mommens con la sua mitica
compagna Patience Gray a Spigolizzi, in quel di Presicce; e ancora il mio
sfortunato amico pittore gallipolino Italo Tricarico e i suoi colori gialli,
rossi, e azzurri come il nostro jonico mare, e Carmine Scigliuzzo, pescatore
dolcissimo e pittore della sua amata città, Gallipoli, e il mio povero
fratello Silvio, che a Florio Santini donò una sua bellissima incisione
colorata a mano.
Con questi e con altri autori si stampavano giornali e giornaletti, riviste
e rivistine, si oganizzavano convegni, punti di incontri, mostre
fotografiche (con Fernando Bevilacqua, di Muro Leccese, che non finiva mai
di stupire), mostre di pittura di Lucio Conversano, Antonio Massari,
Raffaele Spada, mostre di "Caffè Greco", che fu la nostra prima rivista
letteraria diretta da Antonio L. Verri il quale, poi, fondò e diresse pure
"Pensionante de’ Saraceni", "Qutidiano dei Poeti", "Ballyhoo" e "On Board".
Proprio per conto di quest’ultimo periodico, pubblicato a Lecce, mi accadde
di incontrare ancora Florio Santini e di chiedergli un articolo. Era
l’ottobre 1990, Santini aveva definitivamente abbandonato la sua casa di
Otranto, sulla via del Porto, e da qualche anno abitava – felicissimo – le
scuderie del castello di Antonio De Viti De Marco, a Casamassella.
Non mi fece attendere molto e mi spedì un  “pezzo” straordinario sulla vita
e l’opera del marchese salentino De Viti De Marco, maestro di scienza della
finanza, che il nostro amico salentino d’adozione definì "un illuminista
alla Verri, alla Cesare Beccaria, alla Melchiorre Gioia, coinvolto in un
empirismo fondato sopra quelli ch’egli definiva “specialismi”, nemico della
cultura generale di quei grandi del passato, che non avevano agito
sperimentalmente nei settori esatti di discipline perfettamente configurate"
(cfr. "On Board", Lecce, nov.-dic. 1990, p. 12). In quello scritto, Santini
ebbe modo di illustrarci il "bel castello di Casamassella", inviandoci, come
allegato, uno  “schizzo” a inchiostro, un bel piccolo capolavoro del poeta
cantore d’Otranto Antonio Corchia, la cui immagine, disegnata sopra un
semplice cartoncino in bianco e nero, "prese dimora stabile nelle [sue] più
care memorie affettive". Come felice “inquilino” di quel Castello, scrisse
che egli viveva "in grandi e solenni stanze, dove non mancano volte
profonde, né un sole rosso che tramonta tra due vecchie querce dell’interno,
aventi nomi di nobildonne". Aggiunse pure l’elenco degli antichi proprietari
succedutisi nei secoli, e si dichiarò "”felicemente insabbiato” in un angolo
di quel palazzotto duramente colpito dai secoli impietosi [...] avendo fatto
bene a scegliere quel [suo] angolo privato, quel [suo] comodo pensatoio,
quel [suo] finale modo di vivere in penombra, nelle stanze d’uno storico
palazzo, sperduto nel profondo Sud".
È stato per me strabiliante il girovagare poetico-letterario di Florio
Santini, questo suo perdersi in una terra, il Salento, dove si nasconde
un’infinità di anfratti, di coste marine che somigliano a isole sperdute
nell’oceano, che è salubre confondersi in boschi di ulivi secolari e serre
di fiori profumati. Lui, uomo originario del nord (Lucca), autore di storie
di vita d’altri luoghi (Africa, Medio Oriente, Asia, Indonesia), che però
s’innamorò dell’antica Terra d’Otranto, e ne scrisse tanto e con tanto
affetto. Fu il pavimento della basilica-cattedrale di Otranto che, come
l’oistros di una tarantula lycosa, punse il nostro amico salentino
d’adozione; fu quel magico e alchemico mosaico del monaco Pantaleone che lo
portò alla prima iniziazione idruntina. Di ciò scrisse subito sulla rivista
"Etnologia, antropologia culturale/ Studi e Ricerche", pubblicata sotto gli
auspici del Consiglio Nazionale delle Ricerche, anno XII, Napoli, gen.-dic.
1985), in una “Nota idruntina” al volume del compianto scrittore e
monsignore don Grazio Gianfreda, “Suggestioni e analogie tra il mosaico
pavimentale della Basilica Cattedrale di Otranto e la Divina Commedia”. Ha
lasciato scritto: "Ora che Pantaleone e Dante, pur se italo-greco l'uno e
fiorentino l'altro, amassero e possedessero rispettivamente la barbara, in
senso vichiano, evidenza rude del segno e del verso, ma anche una
sottostante emblematicità teologica o significato metafisico di fondo,
nessuno potrà negarlo. Che, poi, l'amore del reale e del trascendente in
essi coesistessero, trasformandosi in forza creativa del canto e della
figura, fino a renderli capaci di grandi sincresi religiose, per dotti e
analfabeti in una, ancora una volta, questo, nessuno potrà negarlo. [...] E
‘La Divina Commedia’ non è forse, anch'essa, una specie di mosaico-omelia? E
il pavimento parlante di Pantaleone non è forse una colorata lezione di
Conoscenza, condotta con metodo allegorico sopra un ordito di gesta e
personaggi storici? Niente di più dantesco, quindi./ Nel mosaico troviamo la
biblica punizione terribile del Male che non si pente, ma anche la figura
pietosamente cristiana del buon ladrone. Nel mosaico, come nella Commedia,
troviamo un attualissimo ammonimento esemplificato ai potenti del mondo,
quelli che costruiscono l'effimera e inutile Torre di Babele, non per caso
collocata da Pantaleone al lato opposto dell’Albero primigenio./ Tutto il
mosaico idruntino, al pari della ‘Commedia’, si svolge e si svela al
servizio del simbolismo mistico. Si pensi ai due elefanti indiani, asiatica
allusione [...] alla Sapienza Divina. Pantaleone e Dante sono artisti
caleidoscopici: non manca il gusto dell'orribile, del grottesco, del
gigantismo, del composto e del frammentario, messi però al servizio dell'
incantesimo cristiano, anziché della magia pagana./" (p. 97).
Questa lunga citazione solo per dire della sua scelta di vita fondamentale,
quella di voler vivere in un luogo come il Salento, dove poter pensare con
serenità all’altra vita vissuta sulle contrade dell’intero mondo,
soprattutto in quell’Africa da cui gli venne poi lo strano male, male di
scrivere. Egli venne conquistato dalla magica figurina disegnata dal monaco
Pantalone sul mosaico del pavimento della basilica-cattedrale d’Otranto,
l’Asino Arpista. Ha lasciato scritto: "Qualcosa m’aveva spinto a ritirarmi
ad Otranto, dopo aver vissuto, per molti anni, ai quattro angoli della
Terra, quando chiedevano il perché di tale scelta, davo risposte che
convincevano gli altri, non me stesso: la gente semplice, la vita non cara,
il mare pulito, la quiete tra dotte memorie./ Ora, invece so. La spiegazione
l’ho trovata sul pavimento della basilica-cattedrale di Otranto che, come
troppi pseudo-informati professori, non conoscevo... Uno specialissimo
prete, di nome Pantaleone, aveva ricordato l’epifonema di Terenzio “Penso
che niente di umano mi sia estraneo”./ Entrai in chiesa, guardai per terra./
Erano i tempi delle Crociate, dei Cavalieri, delle turbe pellegrine; eppure,
in quel mosaico-sinfonia, corale e plenario, convergevano l’Occidente e
l’Oriente. Un emblematico disegno, intitolabile ‘Teologia della storia’,
sussumeva grandi e piccole cose, bestie e fiori, artigiani e profeti, miti
pagani e rivelazione cristiana. In breve, una specie di mistico fumetto
sulla fenomenologia del creato. Fu così che [...]inventando, a forza e furia
di pietruzze e di marmo, la prima enciclopedia per immagini, vera Bibbia dei
poveri, mi fece vedere, ripeto “vedere” che dovevo dimenticar subito quanto
stava dietro di me, se avessi voluto progredire un po’. Forse, avrei fatto
in tempo. E mi riconobbi, con gioia, nell’asino arpista del mosaico: il
mosaico pavimentale del non abbastanza noto “duomo di Otranto”, costruito
tra il 1080 e 1088 [...] Grande era stata […] l’emozione del ritrovamento
sul pavimento d’una cattedrale pugliese, quel discorso ideografico che tante
volte, in scala ridotta, avevo ammirato nei tappeti da preghiera del Medio
Oriente e d’Asia; grandioso, ora, il significato, lì, sul pavimento
idruntino, di quei tre alberi della vita [...] che attestano la singolare
potenza del segno di Pantaleone. Mistico paziente aveva composto sotto
quelle tre navate, tessera dietro tessera, dall’ingresso al presbitero, un
gran libro che tutti, di ogni fede o civiltà, potessero leggere,
presentandosi a noi, oggi, come un Teilhard de Chardin del 1163./ Mi
sorpresi a pensare che l’ecumenismo fosse nato ad Otranto e che, non per
caso, io vi fossi approdato da popoli lontani e diversi" (pp. 107-110).
Da questa presa di coscienza, dal riconoscersi nella figurina pantaleoniana
del mosaico di Otranto, Santini cominciò quel suo percorso, bello e felice,
che gli ha fatto scrivere non pochi libri sul Salento a noi tanto cari, ad
iniziare da quel suo “Diario dell’Asino Arpista”, i cui significati
reconditi sono tutt’ancora da scoprire.

Maurizio NOCERA