Salento Migrante

Con questo titolo lo scorso agosto ho pubblicato un volume per condensare cifre e dati dell’esperienza dell’Emigrazione Salentina, l’esodo dei cafoni dalle loro terre d’origine, e le loro incredibili sofferenze, a partire dall’anno della conseguita Unità politica dell’Italia, il 1861, fino al 1971; cento anni di storia e di storie da contendere all’oblio e da memorizzare per i venturi.
Quel libro nasce dalla esigenza di non lasciar disperdere l’umanità del nostro popolo, la sua dignità offesa più volte, le sue tenerezze sgrammaticate affidate a sdruciti foglietti di quaderno, le sue nostalgie insopportabili; affetti, lontananze, famiglia, amici, speranze, magari per ristabilire i vecchi rapporti nei luoghi di partenza, in un clima di rasserenata tranquillità e di fiducia in sé stessi.
Non era giusto che quella grande lezione sprofondasse nell’oblio, e per questo si è voluto cristallizzarla a beneficio di chi verrà dopo, in una perennità memoriale che è anche epopea di straccioni, ma dal cuore grande e dalla intelligenza aguzza e spumeggiante.
Il Museo Internazionale della Emigrazione Italiana, che verrà concentrato al Palazzo della Civiltà del Lavoro all’EUR - e verrà collegato ad una rete di musei periferici come il Museo del Minatore di Lucio Parlotto a Casarano - conserverà i crucci e i sospiri di milioni di persone che col loro sacrificio hanno consentito all’Italia di andare avanti e di non fermarsi.
Il Salentino (di Galatone) Sen.Franco Danieli Vice Ministro degli Affari Esteri, anzi degli Italiani all’Estero, giusto alla fine dell’estate 2006, respirandosi ancora la commozione cinquantenaria per il disastro minerario di Marcinelle, ispirava questa ricerca per un atto di deferenza ai morti sul lavoro, e di rispetto per l’immensa umanità migrante che non avendo altra scelta, aveva scelto di partire. Lasciando figli, genitori, coniugi. Per trasmettergli il senso del loro esistere.
Così ha avuto origine il mio Salento Migrante edito a Roma dal Centro Studi Emigrazione degli Scalabriniani.
Più di 27 milioni di italiani dopo il 1860 hanno abbandonato in modo definitivo il nostro Paese. E sono andati nel mondo, umiliandosi spesso, talvolta affermando il proprio talento. Come tanti altri infelici fuggiaschi da sempre dai propri luoghi d’origine, sradicati dalle guerre, dalla fame, dalle catastrofi, che ieri come oggi, si sono volti verso altri luoghi per non morire. Come il virgiliano Enea che col padre inabile Anchise sulle spalle, seguito dalla sposa e dal figlio Iulio, lasciò Troia distrutta e prese la via dell’esilio: Presto, padre mio, dunque:Sali sulle mie spalle,/ io voglio portarti, né questa sarà fatica per me./ Comunque vadan le cose, insieme un solo pericolo / una sola salvezza avrem l’uno e l’altro. Il piccolo / Iulio mi venga dietro, discosta segua i miei passi / la sposa.(Virgilio,Eneide).
E fu essa una delle primissime famiglie della storia a doversi incamminare verso l’esilio. Una famiglia migrante come tante altre che anche oggi, quando non annegano in mare, approdano sulle nostre coste:in Sicilia,in Puglia, a Bari,a Otranto.
Ma anche da qui, come racconto in Salento Migrante, in questo Salento affamato e dominato da biechi agrari, come in tutto il Mezzogiorno, disattesa la fame di terra dei contadini da Garibaldi e dai governi sabaudi, nonostante la ferma opposizione di Liborio Romano, repressa ogni jacquerie e debellato il brigantaggio con la famigerata Legge Pica, la normalizzazione piemontese tagliava ulteriormente a queste popolazioni ogni risorsa e speranza, spingendole ad abbandonare le loro case e i loro paesi, e a considerare l’emigrazione, il mezzo estremo per sfuggire alla miseria che le opprimeva e le umiliava. Così sgominati i vari Crocco, Ninco Nanco, Pizzichiccjo, Mazzeo, lo Sturno di Parabita, Quintino Venneri , e tanti altri illusi e ribelli che avevano infestato il Salento dal Capo di Leuca all’Arneo, ristabilita la legalità, venute meno le risorse del manutengolismo, ai disperati alla macchia non restò che dileguarsi e partire , inizialmente per regioni limitrofe, poi già a fine ‘800, per l’America ,il Brasile, l’Argentina, e perfino l’Australia. Stava nascendo il mito dell’America che, sia pure con lentezza, s’impose a poco a poco fra le nostre popolazioni stremate. A Tuglie, nell’immediato entroterra di Gallipoli, nel 1908 era stata aperta una filiale della compagnia di navigazione Fabre, e il suo legale rappresentante Cesare Imperiale si adoperava per arruolare emigranti e snellire in loco la documentazione occorrente; ben 188 tugliesi partirono da Tuglie e s’imbarcarono alla volta di Ellis Island in Pennsylvania.
Anche dal porto di Gallipoli salparono bastimenti di diseredati attratti dal mito dell’America, vi partirono, molto verosimilmente, molti salentini, perfino creativi in cerca di maggior fortuna, come i fratelli Cordella di Copertino, i quali cominciarono dal Venezuela la loro irresistibile ascesa di sartori e di stilisti, giunta oggi al culmine della notorietà internazionale col grande Pino Cordella.
Il poeta gallipolino Nicola Patitari fermò l’impressione di quei dolorosi distacchi in questi sofferti versi in vernacolo, scritti nel corso di laceranti addii cui ebbe modo di assistere di persona:

"L’ancura sarpa, fischia lu papore / e parte. A puppa ncete nu cristianu/ culle lagrame all’occhi de dolore /Ci guarda an terra e face baggiamanu; / E l’ urtimu suspiru de lu core / Ci manda alla mujere de luntanu / Suspiru maru ci si perde e more /mmienzu ll’ unde de mare chianu chianu."

Una turba di infelici, trattati come bestie, vomitati dai transatlantici e ben presto sfruttati, pestati da aguzzini, ridotti a semplici numeri, gente di cui vergognarsi, e della quale gli stessi governi si lavano volentieri le mani, facendo a fette quel rispetto nazionale che ci viene assicurato dalla tutela vigorosa dei nostri emigranti all’estero.
Eppure saranno quelle turbe di straccioni che con le loro rimesse sostenteranno un’Italia esausta, la arricchiranno di opere, dilateranno a dismisura le periferie dei paesi, daranno al mondo generazioni e generazioni di nuovi talenti.
Il boom degli esodi, che ci dicono di un Paese in ginocchio e di un Salento affamato, rimasto nel frattempo a dimensioni arcadiche, violentato dalle lotte dei contadini e dalle occupazioni abusive di terreni incolti, finite spesso in rappresaglie dei carabinieri e sparatorie, si verifica verso gli anni 50 del Novecento. Le masse meridionali, ancora lasciate sole con se stesse, partono verso il Nord del miracolo economico, i paesi dell’Europa centrale, lasciando il sud nelle mani di donne vecchi e bambini. Si tenta di sopravvivere, si accumula per realizzare una casetta, una botteguccia che consenta di stare al mondo con dignità.
I Censimenti dal 1951, 1961, 1971, offrono le dimensioni di questo enorme esodo che vede nel 1951 ben 22855 salentini lontano dalla propria casa, e di questi 2106 all’Estero. Ma già nel successivo decennio del 1961, le cifre sono triplicate, con 63607 espatriati, di cui 43.729 in paesi stranieri. Il ridimensionamento verrà nel 1971, con 47.996 usciti di casa, e 26928 emigrati all’Estero.
Intorno a queste cifre girano storie e realtà drammatiche, problemi di natura patologica, ansie e nostalgie, depressioni,ecc , problemi di miseria, di scolarizzazione, di disgregazione della famiglia.
Le provenienze di questi emigrati coincidono con i paesi poveri e con le strutture più deboli ; ed è facile identificarle nella zona rocciosa del Capo di Leuca, dove sono restati nonni e bambini , con gravissime ripercussioni sulla educazione dei ragazzi.
A voler fare il punto sul movimento migratorio di Gallipoli, si può tracciare questa tavoletta:


Censimento 1951

Censimento 1961

Censimento 1971

Pop. Resid.

15734

15275

16455

Totale Assenti

776

1442

1454

Estero

110

736

901

Italia

666

706

553


Ma le interviste e le testimonianze, le lettere accorate e zoppe di numerosi emigrati, i loro sogni di rimpatrio, i problemi della crescita dei figli, della integrazione in andata e al ritorno, delle speranze spesso troncate e lacerate, costruiscono una grande rete di casi e di sofferenze, mai messa nella giusta luce, e di cui sarà bene avere il quadro. La salute economica dell’Italia fu merito degli emigrati, della loro pazienza e parsimonia, della loro resistenza.
Pagina meravigliosa, affresco umano e verace, di questi ultimi 60 anni che narra la storia di questo grande, infelice, controverso Paese.
Emigrati furono, solitamente, i disperati privi di ogni forma di sostentamento, che nell’indifferenza di un notabilato pigro, immobilista e avaro, dovettero farsi carico di un terribile dramma sociale, ma furono anche tanti spiriti liberi ed insofferenti delle tirannidi che si videro necessitati ad espatriare, per poter operare in libertà, per lottare per liberare la patria dagli oppressori, con le proprie idee e in forza della loro “immensa carità culturale”, dai grandi esuli dell’età risorgimentale, Mazzarella, Castromediano, Pisanelli, Libertini, ai fuoriusciti perseguitati dal regime fascista, Egidio Reale di Lecce, Giuseppe Giurgola di Nardò, Renato Leopizzi di Parabita.
La fame come la libertà furono motivi tali da giustificare ogni fuga dalla patria.
Un’esperienza condivisa da molti comprovinciali che traspare dai versi sempre dolenti dei nostri migliori poeti che, evidentemente, non hanno mai trovato motivi tali da giustificare una prolungata permanenza all’estero. Come quella dei tanti che vi risiedono ancora, e di quelli che hanno saputo costruire una fortuna.
Spesso i nostri emigrati, dopo aver dovuto confrontarsi con problemi di integrazione, di adattamento, di lingua, e d’altro, hanno anche dovuto offrirsi allo stillicidio della nostalgia, all’ansia divorante di un ritorno sempre sognato, alla probabilità del disastro minerario come quello indimenticato dell’ 8 agosto 1956 avvenuto a Marcinelle, che si prese ben 16 giovani e robuste vite di salentini. Lo strazio dei famigliari e gli urli disumani delle donne che gridavano il nome degli amati, vivrà lungamente nella memoria di quel disastro, attraverso i versi di Cesare Distante: Grappoli di donne alle sbarre dei cancelli / urlano il nome degli amati / Bestemmiano strappandosi i capelli. Ma anche nell’ossessione di salentini sradicati a metà che non hanno mai accettato di vivere fuori dagli affetti e dal mondo delle radici, valga per tutti la penosa esperienza del poeta Pino Mariano il quale ci avrebbe detto senza indugi: Me ne fusciu stanotte culinutu /, lassu lu sordu e cce ssia sia/, oju ccampu e mmoriu a ccasa mia.
Fin qui il mio Salento Migrante che ha inteso indagare cento e più anni di emigrazione salentina e approntare materiali e - come si afferma nel sottotitolo – raccogliere appunti per una storia nell’arco temporale che va dal 1861 al 1971. Con numerosi altri spunti su svariati altri temi.
Ed ora vengo al presente. Per aggiungere qualche riflessione con Vincenzo Consolo il quale ha scritto: “dissoltesi idolatrie e utopie, crollati i colonialismi, abbattute le mura, recisi i fili spinati, sono arrivati i tempi delle fughe, degli esodi, da paesi di malasorte e mala storia, verso vagheggiati approdi di salvezza, di speranza. Ed è il presente,(…)un atroce tempo di espatri, di fughe drammatiche, di pressioni alle frontiere del dorato nostro “primo” mondo, di movimento di masse di diseredati, di offesi, di oltraggiati”.
Da ogni Est e da ogni Sud del mondo, da afriche tenebrose e da “sudameriche di crudeltà pinochettiane”, si muovono oggi i popoli dei battelli,dei gommoni, delle navi-carrette, dei containers, delle autocisterne, carovane di scampati a guerre, pulizie etniche, genocidi, fame, malattie. Fugge tutta questa umanità dolente, ed è ancora preda dei criminali del traffico(…)e finisce anche qui sulle coste del nostro Salento dove i migranti albanesi, algerini, marocchini, tunisini, sbarcano su questa millenaria riva degli approdi, dove migliaia di anni fa erano approdati i loro antenati messapi, greci, cretesi, i nostri progenitori.
Vengono in massa a raccogliere pomodori o a fare cento altri umili mestieri, a farsi imprigionare nei centri di Permanenza Temporanea, a lavare vetri d’auto ai semafori, ad assistere i nostri anziani, ma anche a insidiare, a rapinare, a violentare le nostre donne, a scontrarsi con le forze dell’ordine.
Forse non è fuor di luogo ripetere quel che Fernando Braudel ha detto sia pure in riferimento ai secoli scorsi:”In tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto,torturato, e vi conosce tutte le miserie, gli orrori e le santità degli universi concentrazionari”.
Frattanto anche dal Salento, dove l’ondata migratoria proveniente dall’Est e dall’Africa garantisce manodopera per i lavori più umili che non ci piacciono più, è ripartita, quasi con i ritmi di 40 anni fa, la nuova migrazione dei professori e dei dottori che salgono al Nord per rimpiazzare i padani che si sono più convenientemente accomodati nel settore industriale.
Senza dire dei cervelli più freschi – circa trecentomila per restare in Puglia – che sono espatriati loro malgrado e lavorano per rendere più ricchi i paesi concorrenti dell’Italia. Come negli anni’ 60 del secolo scorso: Germania, Francia, Belgio, Gran Bretagna, Svizzera. Ma anche negli Stati Uniti dove lavorano ben 13mila ricercatori, come di recente ha dichiarato il Nobel d’origine italiana Mario Capecchi. Così l’Italia pezzente(e il Salento) seguita a migrare e a colonizzare il mondo.
Secondo il recente Rapporto della Fondazione Migrantes, l’Italia fuori d’Italia è tre volte più grande rispetto ai 56 milioni di italiani residenti;tre milioni e mezzo di italiani hanno conservato la cittadinanza pur vivendo all’estero, e vi sono inoltre circa 60-70 milioni di oriundi tra figli, nipoti, pronipoti. Cosa ci resta? Forse, come ha cantato il poeta Donato Moro,

    qui restano cumuli di spine
    sopra gemme appassite.

Vittorio ZACCHINO