Un dialetto d'amare

da “campana” a “caniàtu”

Campana
“gioco infantile” prettamente femminile. Con il gesso si tracciavano per terra delle caselle concatenate e numerate da 1 a 10. Poi lanciando una piccola pietra o un frammento di vetro si cercava di centrare la casella con il numero 1. In caso di centro, saltando su di un piede solo, si doveva spingere la pietra con l’altro piede  senza farla uscire dalle linee che delimitavano il campo di gioco, fino alla casella 10 e si tornava indietro. Se il percorso non aveva subito intoppi (fuoriuscita della pietra, perdita d’equilibrio, mancato centro della casella numerata) si passava alla casella successiva, ripetendo lo stesso tragitto, altrimenti si cedeva il turno al concorrente successivo. Di questo gioco esiste anche un numero consistente di varianti

Campanaru
“campanaro, campanile”
mancu ci te Sant’Acata cate ‘u campanaru (neanche se cade il campanile di S. Agata)
passuru te campanaru (lett. passero di campanile): non avere paura di niente come gli uccelli svolazzanti nei pressi dei campanili che non hanno paura dei rintocchi delle campane perché abituati

Campaneddha
“bolla, pallina” che si fa con la gomma da masticare, con la saliva (soprattutto nei neonati) ma indica anche la “bolla d’acqua piovana a forma d’ombrellino” che si crea nelle  pozzanghere quando cade la goccia di pioggia

Campanieddhu
“campanello”
I campanelli di terracotta si vendevano il giorno di S. Giuseppe. La simbologia è forse da ricercare nell’approssimarsi della primavera: il festoso frastuono dei campanelli era un invito a risvegliarci dal torpore dell’inverno, per tuffarci in quella stagione in cui tutto si risveglia e si rinnova. Come non ricordare l’omino che percorreva con un carretto (traìnu) le stradine del centro storico, vendendo ai più piccoli i campanelli di terracotta?  Impresso nella memoria di tutti i fanciulli di qualche tempo fa è rimasto infatti il caratteristico ritornello usato dal venditore ambulante in questa circostanza:
chiangìti piccinnieddhi
su’ ‘rrivati ‘i campanieddhi
Proverbio:
‘u tiàulu prima te tenta
e poi sona ‘u campanieddhu

Campìsu
“cerchio con setaccio” che si metteva sul còfunu
sin. cennaraturu

Campusantu
“cimitero, camposanto”

Camurrìa
“prepotenza, abuso, sopruso, camorra, mafia”

Càmusu
“camice”
da “camisa (camicia)”
càmusu era anche il costume da bagno intero femminile. Quello maschile, consistente ovviamente nella sola mutandina, era chiamato con la forma plurale cazzonetti (pantaloncini)

Cancarena
“gangrena”, necrosi di un tessuto causata dalla cattiva circolazione del sangue, dal diabete, dalle infezioni ecc. Molto colorita l’espressione: ete bruttu te (comu ‘na) cancarena (è brutto come la gangrena)

Càncuru
“cancro”
bruttu te (comu ‘nu) càncuru (brutto come il cancro)
c’è anche una brutta bestemmia: cancuru ccu’ te rùsaca (lett. che ti rosicchi i cancro): detto quando ad una persona si augura tutto il male possibile

Candallinu
“piccolo confettino con dentro un filino di cannella (da cui il nome)”. Dalle nostre parti è tipico del periodo di Carnevale. Con candallinu s’intende anche una persona alta e magra
candallinu sucàtu (lett. cannellino succhiato): si dice invece ad una persona eccessivamente magra, smunta, emaciata, secca, scarnita come può essere un confettino succhiato

Canditina
“candeggina, sbiancante”

Candùscia
“vestito vecchio, lacero, straccio vecchio”
llevete ddha candùscia e ‘ggiustete ‘nu picca (togliti quel vestito lacero e aggiustati un po’, datti una sistemata)

Caneminchia
“scemo, fesso, credulone, idiota, stupido”

Canga
“molare”
plur. cànghe
me tole ‘a canga (mi fa male il molare)
cotùlare farci canga (lett. dondolare qualche molare): avere qualche desiderio inespresso, una voglia per cui si ha un certo ritegno ad esprimerla ritenendola forse eccessiva come richiesta
nc’è te tiri ‘e canghe (lett. c’è da tirarsi i molari), espressione usata  quando un siparietto, una scenetta, un lavoro teatrale ma anche una situazione curiosa è talmente comica che strappa risate a crepapelle
t’aggiu tirare ‘na canga (lett. ti devo tirar un molare): me la devi pagare
Filastrocca:
E ninù ninù
quandu si’ vecchiu
nu’ mbali cchiù!
Te càtene ‘e canghe
e ‘u setere fa ppuh, ppuh!
Proverbio:
‘u Signore tae ‘i piscotti
a ci nu’ tene canghe
ccu’ li cazza

Cangarieddhu
“mento”
sotta ‘llu cangarieddhu (sotto il mento)

Cangiare
“cambiare, scambiare”
cangiamu? (facciamo uno scambio?)
vau cangiu ‘i sordi allu bancu (vado a cambiare i soldi in banca)
fare cangia e scangia (lett. fare cambia e scambia): cambiare in continuazione abito, macchina, orologio, gioielli. Significa quindi ostentare un certo benessere ma anche essere indecisi
cangiare aria (cambiare abitudini, posto)

Cangiu
“cambio, scambio, permuta”
‘u cangiu nu’ m’ave cumbanutu filu (il cambio non mi è convenuto per niente)

Càngumu
“rete a forma di tasca” come lo strascico. Un tipo di pesca che non viene più praticato
dim.  cangamieddhu

Canìatu
“cognato”
caniàtu-ma (mio cognato)
caniàtu-ta (tuo cognato)
caniàtu-sa (suo cognato)
caniàta-ma (mia cognata)
caniàta-ta (tua cognata)
caniàta-sa (sua cognata)
Filastrocca:
O San Nicola
ci me l’ai tata
nu’ fare àcchia
né socra e nu’ caniàta,
ca ‘e spine
cchiù ‘mare e pungenti
suntu ‘e socre
e tutti ‘i parienti,
ca ‘e spine ci a meve
te m’ai tate
suntu ‘a socra e le caniàte
Proverbio:
‘a socra e ‘a caniàta
ppe’ sei misi triulàta

Luigi TRICARICO