Raimondo Vinella

La mattina del 16 agosto 1822, a Lecce, il professore di medicina don Raimondo Vinella di Galatina, ammanettato come un volgare malfattore, veniva accompagnato da due gendarmi dal carcere di S. Francesco al Tribunale, per essere processato. Nei suoi confronti pendeva l'accusa di “materialismo” ed oltraggio alla religione per le idee contenute nel Quadro politico in cui trattasi la causa dell'umanità, della cui pubblicazione, avvenuta nel 1821 a Lecce presso la tipografia Agianese, lo stesso autore si pentiva amaramente. Nella difesa che egli chiese di pronunciare prima dell'arringa del suo avvocato, affermò “di adorare un Dio, di non aver offeso l'umanità [...], di amare la bellezza della religione cristiana” e, soprattutto, sottolineò che “il concetto di Natura che lì espongo non deve essere preso in senso opposto alla nostra religione”. La Gran Corte, all'unanimità, condannò il medico ad un anno di reclusione, a cinquanta ducati di multa, al pagamento delle spese processuali e, soprattutto, all'immediato sequestro di tutte le copie dell'opuscolo incriminato, che dovevano essere bruciate.
L'amara vicenda censoria di un'opera di carattere scientifico, all'indomani della ventata rivoluzionaria dei moti del 1820-21 (una congiuntura, questa, che, assieme alla successiva del quarantotto, avrebbe rappresentato l'unica breve occasione di “libertà”, di immissione sul mercato di libri altrimenti ritenuti “proibiti”), si rivela interessante perché dimostra che il rapporto tra fede e scienza non era stato ancora risolto, persistendo il rifiuto di quella libertas philosophandi che pure era stato uno dei cavalli di battaglia dei novatori dei secoli precedenti. Qualche anno più tardi, nel 1846, un Trattato di astronomia di Gerardo Faucher, pur se giudicato “un ammasso di assurdità e sciocchezze tali, che chiaramente si scorge che è lavoro di un vero mentecatto che nulla conosce d'astronomia, né d'altra scienza” (dalla relazione del revisore Visconti, in Archivio di Stato di Napoli), tuttavia non si ritenne di doverlo per questo proibire. Nello stesso anno, invece, venne vietata la Geografia storica di Marmocchi perché nel parlare “della genesi del mondo, non solo discorre per modo come mai esistessero le Divine scritture ma talvolta emette opinioni, le quali (per quanto vogliansi adattare i più larghi sentimenti della moderna geologia) discordano dalla ispirata narrazione di Mosé” (così i revisori Pirozzi ed Aprea). Tre anni prima, nel 1843, era stato vietato un libro, I benefattori dell'umanità, perché si ritennero “oltremodo ingiuriose, alla religione e alla fede Cattolica” le affermazioni secondo le quali le scoperte di Galilei “rovesciavano ed abbattevano gli errori ed i pregiudizi dell'antichità sacra, che in Roma si fosse dichiarato esser formalmente eretica l'opinione che il sole fosse immobile, e perlomeno erronea in fede l'opinione che la terra si muova” (revisori Aprea, Quadrari e Guida).
In effetti, dopo la restaurazione borbonica del 1815, la censura libraria (forte, ancora una volta, del binomio trono-altare) non presentava molti elementi di rottura rispetto l'immediato passato, presentandosi ora come controllo poliziesco finalizzato al mantenimento dell'ordine pubblico. Fu di Giuseppe Bonaparte il primo importante decreto che spostò le attribuzioni della settecentesca Segreteria dell'Ecclesiastico e del Cappellano Maggiore, che determinava la “politica ideologica” del regno, al Ministero di Polizia che (lavorando d'intesa con la giunta di Pubblica Istruzione e con il Ministero delle Finanze) curava invece le politiche repressive e di sorveglianza dell'ordine pubblico. Giustificandolo con la contingenza di un paese che doveva trovare ancora il suo assetto definitivo, il re francese aveva dato al Ministro di Polizia “il diritto di fare de' regolamenti sulla stampa” e l'ordine che nessun libro potesse pubblicarsi o introdursi senza il permesso di tale Ministro. Ferdinando I, quando nel 1815 fece definitivo ritorno a Napoli, si limitò a richiamarsi alle norme del periodo napoleonico.
Come messo ben in evidenza, specie in questi ultimi anni, da ricercatori particolarmente sensibili alle dinamiche della censura sui libri (e principalmente alla luce di meticolose ricerche condotte in archivi solo di recente aperti all’indagine), dopo il fallimento del progetto rivoluzionario, a richiesta del re, fu instaurata una censura molto più severa sui libri, furono nominate le giunte di scrutinio e si rafforzò il controllo sulla stampa. Così il 7 maggio: “Sono vietati tutti i libri velenosi che trattano ex professo contro la religione la morale ed i rispettivi Governi”. Fu proibito anche il catechismo di Bossuet stampato nel 1816 a cura dello stesso Governo, vennero innalzati roghi per Voltaire e D'Alembert, si diede alla polizia facoltà di perquisire negozi di libri e pubblici gabinetti di lettura. Nel ventidue, con il ministero Ruffo-Medici, ricevettero impulso le giunte di scrutinio e, con una notevole ondata di epurazioni, vennero respinti, perché “indenni”, quegli stessi libri che in precedenza erano stati, sia pure con qualche difficoltà, tollerati. Tanto è vero che autori come Filangieri, Botta e Gibbon, che, in un primo momento sembrava potessero essere introdotti, non furono più permessi.
Vediamo ora chi era il protagonista della vicenda di censura libraria qui presa in esame. Egli stesso, nel volume Le amarezze e lagrime del prigioniero dottor Raimondo Vinella, autobiografia edita nel 1846 e preceduta da alcune lettere indirizzate alla moglie e ad alcuni “amici fraterni”, descrisse i tratti salienti della sua vicenda umana e professionale, oggetto di studio, in anni a noi più vicini, di N. Vacca, G. Jacovelli, A. Vallone e P. Sisto. Più recente è poi l'inserimento della sua biografia in Scienziati di Puglia, secoli V a. C - XXI d. C (a cura di Francesco Paolo de Ceglia, Bari 2007), opera a carattere bio bibliografico dedicata a scienziati pugliesi, con caratteristiche di completezza sia per respiro temporale sia per origine geografica dei personaggi, che ha esibito, contemporaneamente, “una metodologia della ricerca che, utilizzando una serie di voci di collegamento tra autori censiti ed istituzioni scientifiche e culturali ad esse correlate, è riuscita a costruire un affresco, completo e corale, di quello che è stato lo sviluppo della scienza e della tecnologia ad opera di uomini nati e/o vissuti in questa regione (dalla Prefazione di M. Di Giandomenico). Tra i protagonisti dell'opera, che analizza, parallelamente, in modo transdisciplinare alcuni temi di fondo del dibattito e delle problematiche culturali e sociali della Puglia – tra quei virtuosi del sapere, “scienziati di provincia”, sovente medici, che in epoche in cui le paratie disciplinari erano meno rigide delle attuali, cercavano il perché e il come dei fenomeni naturali, contribuendo alla creazione di una élite scientifica – figurano anche i gallipolini Giovanni Presta (“una vita tra gli ulivi”), Emanuele Barba (“l'operaio della scienza”), Bonaventura Mazzarella (“il critico della scienza”) e Leonida Tonelli (noto per “il calcolo delle variazioni”).
Ritornando ora al Vinella, sappiamo che nacque a Putignano il 14 maggio 1779, mostrando un temperamento “sensitivo, irritabile, immaginoso, appassionato”. Fu affidato dai genitori alla “direzione del sacerdote D. Giuseppe Campanella” ed entrò, nel 1794, nel Seminario di Conversano per approfondire lo studio delle belle lettere e ricevere i quattro ordini minori. L'invasione del Regno da parte dell'esercito francese lo costrinse, nel 1799, ad arruolarsi, vivendo anch'egli, in prima persona, la “suprema sventura” della leva militare forzosa che tanto aveva sorpreso e commosso i gallipolini (mi permetto di rinviare, a tal proposito, ad un mio precedente articolo apparso, su questa rivista, nel settembre 2004, relativo alle vicissitudini gallipoline alla vigilia della rivoluzione napoletana del 1799). Fu proprio in tale occasione che, “sedotto da giovani immorali corruttori, aspidi i più velenosi del cuore umano, che cercano di abbattere le antiche istituzioni stabilite da leggi eterne della ragione e della morale”, abbandonò l'abito talare e iniziò a studiare filosofia. Così, seguendo l'esempio di alcuni suoi concittadini, si recò a Napoli per applicarsi nello studio della fisica, della matematica, dell'anatomia e della medicina teorico-pratica sotto la guida di illustri professori tra cui l'insigne massafrese Nicola Andria. Si dedicò anche alla chirurgia, all'ostetricia nonché alla filosofia morale e alla botanica. Nominato, nel 1805, chirurgo dell'Ospedale militare di San Giovanni a Carbonara, vi rimase per poco tempo a causa di forti dissensi con i colleghi. Scelse di recarsi a Salerno, dove conseguì la laurea in Chirurgia il 20 settembre del 1807, facendo in seguito rientro nella sua Putignano, per esercitarvi la professione di medico.
Anni fecondi quelli che seguirono: dapprima l'incontro con la vedova Marina Calichiopulo, conosciuta a Napoli e divenuta sua moglie nel 1809. Con lei si trasferì a Taranto, dove rimase per otto anni e pubblicò, in seguito a lunghe osservazioni, un'importante monografia dal titolo Febbre sporadica contagiosa di Taranto, sul tifo petecchiale che aveva colpito la città tra il 1814 e il 1817. L'opera si poneva, non senza originalità, nel solco tracciato dal collega lombardo Giovanni Rasori (1763-1837), il quale aveva pubblicato un accurato resoconto sulla medesima epidemia di tifo petecchiale, che aveva flagellato la città di Genova tra il 1799 e il 1800. Studi analoghi sarebbero stati compiuti, successivamente, da illustri colleghi quali Pasquale Manni, che aveva pubblicato un volume sulla febbre petecchiale di Lecce, e Giovanni Carelli, che, nella Clinica delle febbri perniciose per le osservazioni di quindici anni, aveva descritto alcuni casi osservati in provincia di Bari, dal 1819 al 1833, e curati, per lo più, con l'uso del solfato di chinino.
Fu ancora una volta l'invidia di “alcuni mediconzoli tarantini”, in seguito alle lodi ricevute dall'Intendente della Provincia, Domenico Acclavio, per l'opuscolo sul tifo petecchiale, a spingere Raimondo Vinella ad accettare l'invito di un fraterno amico di Galatina, don Pietro Cadura, a trasferirsi definitivamente in quella città, dove ottenne “una lieta e cordiale accoglienza”, un assegno annuo, nonché la nomina a medico-cerusico dell'ospedale civile e di altri stabilimenti. Eccezion fatta per le avversità del 1822-23, egli vi rimase sino al 1858 anno della sua morte.
Notevole la sua produzione medico-letteraria, pubblicata a partire dal 1807. Tra le opere più importanti i Principi di chirurgia medica, fondati sull'esperienza, e sul sistema di Brown (1807), il Quadro di cognizioni fisiologiche adatte all'intelligenza di tutti (1806), L'Epidemia contagiosa di Taranto 1816-17 (1818), il Saggio di direzione e di cura fisico-morale dell'uomo (1833). Lo storico Raffaele D'Addosio affermò che tutte le opere di Raimondo Vinella furono pubblicate in 10 volumi dalla tipografia del Filiatre-Sebezio di Napoli; molte di esse furono composte in collaborazione con l'eruditissima moglie Maria Calichiopulo.
Vinella svolse la sua professione in quell'estremo lembo del Regno di Napoli, quale fu il Salento, in un contesto medico-culturale che aveva recepito i profondi mutamenti della medicina di inizio Ottocento. Tra le idee innovatrici che determinarono tale rinnovamento, ottennero un notevole successo le teorie del medico scozzese John Brown (1735-1788), affermatesi in Europa dopo la pubblicazione, nel 1780, dell'opera Elementa medicinae. Singolare si manifestò la posizione di Vinella, il quale, facendo propri i concetti di “eccitabilità”, “stimolo” e “forze eccitanti” enunciati da Brown, pubblicava nel 1807 i Principi di chirurgia medica, fondati sull'esperienza, e sul sistema di Brown (“Eccitabilità un sol termine la disposizione che hanno le parti del corpo a risentire l'azione di qualunque agente. Dall'osservarsi che uno stimolo agendo su di una parte macchinale la sua azione si propaga per tutto il sistema; ciò ci fa ancora conchiudere che l'eccitabilità è unica ed indivisibile [...]. La vita è il prodotto delle potenze eccitanti che agiscono sull'eccitabilità. La morte sarà inevitabile quando la macchina non è più eccitabile o quando mancano di agire i stimoli sull'eccitabilità. Potenze eccitanti si intendono da Brown gli esterni influssi che agendo sull'eccitabilità ravvivano l'organismo. Le forze eccitanti che ravvivano la natura sono il calore e l'aria, quelle necessarie alla produzione della vita sono il cibo i liquidi spiritosi”). Egli si riconosceva debitore all'“immortale Brown della scoperta che i stimoli tutti agiscono nella stessa maniera eccitando l'economia animale” e asseriva che la “la chirurgia-medica [...], figlia dei bisogni dell'uomo” dovesse avere come oggetto “innanzi tutto la conservazione della salute o il riparo tostoché sia sconcertata [...]. Proprio perché un medico-chirurgo abbia un'idea generale dei rimedi [...] fa d'uopo che sia anatomico, fisiologo, chimico, botanico, patologico”.
Sulla scia dell'innovazione introdotta dal sistema brunoniano nella classificazione delle malattie, Vinella presentava nei Principi una attenta e minuziosa distinzione di queste ultime, che venivano classificate in asteniche, iperasteniche, universali e locali. Pur riconoscendo l'originalità di Brown nel respingere le tassonomie degli antichi, Vinella affermava, tuttavia, che il medico scozzese era caduto in alcuni errori, i quali “verificheremo coi fatti”. Laddove ad esempio Brown designava con il nome di “febbre le malattie nelle quali il polso non è alterato in maniera turbolenta” e “pyrexiae quelle in cui, al contrario, il polso è alterato in modo turbolento”, Vinella confutava che, “se il vocabolo febbre in italiano vale lo stesso che piressia in greco, ossia stato infiammatorio [...], dobbiamo conseguentemente conchiudere di non avere il precitato Autore [Brown] ben definito la febbre [...]. Saremo obbligati di ritrovare due termini della stessa lingua, uno che risvegliasse l'idea della febbre dipendente dallo stato di debolezza generale, l'altro della febbre infiammatoria [...]. La surriferita classificazione merita di essere del tutto ribaltata. Si riterrà che le febbri intermittenti possano essere prodotte sia dalla debolezza che dall'eccessivo vigore”.
La vicenda descritta, ma soprattutto i non numerosi studi relativi all'impatto della censura ecclesiastica sullo sviluppo scientifico (si rinvia ai lavori di A. L. Caillet, G. Sarton, M. B. Stillwell, J. Pardo Tomás, R. J. Backwell e, in tempi più recenti, agli originali contributi di Ugo Baldini, che, approdati a quella che è ritenuta oggi tra le più originali piste di ricerca percorse dalla storiografia sulla censura libraria, quella, cioè, relativa all'esame delle licenze di lettura dei libri proibiti, indagando nella sfera della coscienza individuale, hanno mostrato come la pratica di concedere quei permessi, dalla Cum inter crimina di Pio IV in poi, fu molto ampia e coinvolse non solo gli ecclesiastici, ma anche i laici) hanno evidenziato quanto questo non sia lineare, quanto la scienza sia prodotto delle epoche, degli uomini, dei condizionamenti politici, religiosi e sociali: in una parola quanto la scienza abbia una storia e sia esplorabile con metodi storico-critici molteplici e multiformi.

Milena SABATO