Le Veneri di Parabita

La sensazione di trovarsi di fronte ad una scoperta eccezionale fu immediata, quando, nel 1966 due statuine in osso di piccoli dimensioni (h: cm.9 e cm.6,1) furono rinvenute in una cavità alle pendici della Serra di Sant’Eleuterio, nei pressi di Parabita. L’emozione dell’evento mi fu trasmessa direttamente dallo scopritore, il preside prof. Giuseppe Piscopo, il giorno successivo all’importante momento, che egli aveva vissuto in prima persona da cultore ed appassionato di storia locale.
Le statuine rappresentanti due figure femminili erano state rinvenute all’interno della grotta, la cui stratigrafia risultava alquanto scomposta per la millenaria frequentazione umana e animale.
Ciò fu inizialmente causa di incertezza sull’origine e sulla datazione da attribuire ai due reperti, ma l’analisi delle tracce di terreno residuo aderente alla “scheggia ossea di diafisi di Bos primigenius o Equus caballus, dal colore biancastro e patina lucente” , su cui erano stati scolpiti i due manufatti, ne permise l’attribuzione ai livelli compresi tra il “gravettiano evoluto e l’epigravettiano antico” ( Radmilli 1966, Id. 1969, Cremonesi 1987 e La passione delle origini - Giuliano Cremonesi e la ricerca preistorica nel Salento-, a cura di Elettra Ingravallo, Conte Editore, Lecce 1997, pag. 165-).
Tale accertamento cronologico rese possibile inserire le due statuine nell’ambito di quella cultura che aveva prodotto in tutta l’area europea le cosiddette Veneri paleolitiche e fece risalire la frequentazione della grotta, denominata appunto delle Veneri, alla fase finale della Glaciazione Würmiana, quando l’alto Adriatico fino al Promontorio del Gargano formava un ponte ghiacciato che ampliava la superficie emersa del territorio italico e rendeva più agevole il collegamento tra le aree europee, estendendo fino al Salento la diffusione delle culture continentali e del culto della Grande Madre.
La più nota tra le Veneri steatopigiche, ossia dai caratteristici fianchi prominenti, è la Venere di Willendorf (Austria), risalente al ventimila a.C. le cui curve accentuate ne facevano il prototipo di donna feconda ispirata alla dea protettrice della fertilità.
Più longilinee, meno opulente e munifiche, ma altrettanto realistiche, le due Veneri rinvenute nella Grotta-santuario di Parabita, insieme a tutti gli esemplari di statuine simili dell’area continentale europea, attestano l’ampia diffusione di un culto riferito alla dea-madre, ritenuta, durante la fase finale del Paleolitico Superiore, la progenitrice dell’umanità, la cui figura si poteva delineare nel cielo collegando le costellazioni prossime alla Via Lattea, la lunga scia di stelle considerata come un fiume latteo che sgorgava dal suo seno.
Nell’XI millennio a.C., quando la deglaciazione segnò il passaggio dal Pleistocene all’Olocene, il ruolo della dea di segnatempo nel millenario ciclo precessionale della fase finale del Paleolitico Superiore si concluse e vi subentrò Orione -la costellazione che si stagliava nel cielo come una figura umana dai caratteri maschili-  eletto a protettore dell’ éra interglaciale che aveva decretato la rinascita.
Nell’arte figurativa l’antica dea dell’era glaciale subì da quel momento un processo di semplificazione della sue immagine, fino a divenire filiforme, come negli ideogrammi del Santuario meso-neolitico di Badisco, presso Otranto, denominato Grotta dei cervi e dedicato ad Orione, l’arciere celeste.
Non mancarono, tuttavia, le eccezioni di dee opulenti anche nel neolitico, come attesta la colossale statua di Malta risalente al III millennio a.C., affiancata, però, da statuine di dee dormienti, che indicavano il suo definitivo ruolo di dea protettrice delle anime dei morti.  Considerata oramai tramontata all’orizzonte dell’emisfero boreale, ritenuto “il cielo dei vivi” , ed essendo stata accolta nell’allora sconosciuto emisfero australe, ritenuto “l’oscuro cielo dei morti”, la dea aveva instaurato lì il suo nuovo regno millenario, in attesa della sua successiva, ciclica  rinascita nel luminoso cielo dei viventi.

Marisa GRANDE