Le prose di Sumanac

Nebulosa e “ingannevole”, come si evince dal sottotitolo, è questa prima opera narrativa di Brana Sumanac che procede a rimorchio di una tetralogia poetica (lingua originale è il tedesco) già da tempo somministrata al lettore non accidioso in piccole dosi, per attirarlo nei labirinti di una scrittura creativa la quale, prima ancora di essere espressione letteraria, si declinava come percorso della mente nei meandri di una mappa filosofica, teologica, antropocentrica polarizzata nel rapporto verticale dell’Io con il Sacro e in quello orizzontale fra l’Io e il Mondo. Basti qui ricordare solo alcuni titoli: Fra il detto e l’indicibile (2002), Crocevia della parola (2004).
Ora queste prose. Esse, nella loro testura complessiva, sembrano collocarsi lungo il solco già tracciato da Leopardi con le Operette morali, ma, di fatto, fioriscono sul terreno della psicoanalisi, assumendo l’inconscio come enzima del loro ordito kafkiano.
Si rassegni, dunque, il lettore: la sua dovrà essere una lettura paziente e interattiva nel senso che dovrà fare ricorso a molte energie per districarsi fra le spire di un testo surreale, “ingannevole”, volutamente ‘disordinato’, al limite del non-senso, patinato di assurdo, discronico, insomma tutt’altro che riposante, come dovrebbero essere le favole.
Ma proprio la parola-chiave, ossia il filo d’Arianna fornito di soppiatto al lettore scaltro e agguerrito, è già sul limitare (il titolo) di questa raccolta: sogno. Ed allora? Diciamo subito che la scrittura di Sumanac si inscrive nell’emiciclo di quella letteratura europea del Novecento i cui grandi Maestri possiamo individuare in ambito latamente surrealista, espressionista, metafisico, psicologico: da Kafka a Joyce al nostro Landolfi, senza dimenticare le ossessioni di Dostoevskij e Andreev nonché le trasversali influenze di Freud e Joung. Si aggiunga (e non poteva essere diversamente, date queste premesse) una visione tutt’altro che utopica della realtà, una visione certamente distopica che convoca tanta parte del Novecento planetario da Svevo a Orwell.
Ciò si offre a segno della vasta coscienza letteraria di Sumanac, della sua poliedrica formazione, le cui coordinate più significative si precisano in termini di psicoanalisi (egli medico, neuropsichiatra, transita poi nell’imbelle e sedentario continente della letteratura), di misticismo, di religiosità, di filosofia, di consapevolezza tecnica e formale, di educazione, insomma, a un umanesimo tragico il quale sembra dissolversi in spietata ironia.
Questa categoria, psichica e culturale insieme, gli consente di straniare la realtà essendo essa alla base di ogni suo interesse. E straniare (Sklowskij) vuol dire “rendere strano ciò che è normale e normale ciò che è strano”, sicché il non avvertito destinatario potrebbe scambiare queste favole per fantasticherie, per ingorghi della parola che perde la bussola della razionalità e si libera da ogni logica di tempo, di spazio, di storia deragliando gratuitamente sulla scia del “battello ebbro” di Rimbaud.  Invece la storia nel suo essere presente e recente passato (il Novecento con i mostri del potere, i signori della guerra, le libertà conculcate o coartate, le dittature, gli olocausti, i fanatismi riesplosi e globalizzati) è paradossalmente il crinale dove si inerpica questa scrittura.
A fare da bussola nell’osservazione della realtà, che, come in Joyce appare minuziosamente descritta, mentre, di fatto, funge da intonaco alla spietata analisi delle componenti sociologiche e individualistiche, è la centralità dell’Io ossia l’esperienza biografica dell’autore, la sua immersione nella vicenda del secondo Novecento, il suo cosmopolitismo, la sua poliglossia da viaggiatore universale qual è: nato e formato in Serbia, quindi medico psichiatra in Inghilterra, poi primario di neuropsichiatria infantile a Berna, infine, greco di adozione nel buen retiro di Skopelos, isoletta dell’Egeo dove tuttora vive monasticamente separato dal mondo, ma in perenne rapporto mentale con esso.
Centralità dell’Io, dicevo, senza la quale queste prosette non ambiziose, queste chimere fiabesche gettate sulla carta come per caso o per sollazzo, surreali e inquietanti, fastidiose nella loro sfida alla coscienza, allegoriche, quasi carte da gioco truccate nella partita fra autore e lettore, non si potrebbero comprendere. Né si intenderebbe quel solco tragico-quotidiano da cui sono percorse. Sormonta, però, questa sensazione tragica, questa coscienza negativa dell’esistenza e della Storia, questa implosa sconfitta di ogni umanismo la saggezza dell’autore. Essa gli consente il dovuto distacco dalla realtà, perora il suo farsi estraneo osservatore pur facendone parte. Ciò che feconda il suo humus ideologico è un respiro segreto, un afflato di pietas, che confligge con  la disillusione e il disincanto, poi si rassegna e si placa nell’esercizio letterario destinato «a chi non guarda la televisione» (mi disse con agrodolce sorriso), a chi sa trovare, nell’ironia, la leggerezza dell’essere, a dispetto del boia, dei tanti boia dei quali capostipite è la Morte.
Sumanac, dunque, metaforizza il mondo, la Storia, la vita. Il reale si rifrange e si sfaccetta nell’allegoria letteraria. Assume le parvenze del sogno, dell’allucinazione, del non-senso. Ma illusorio, onirico, fatuo, assurdo, ingannevole è proprio ciò che appare nella sua ordinata, convenzionale, oggettiva misura quotidiana, nella sua routine, sensata e logica (per i più), insomma, nei linguaggi inautentici, nello scorrere meccanico e ordinato del tempo, il quale qui si frantuma spesso per ricomporsi in un caotico coacervo di passato, presente, futuro.
Questi testi hanno, in realtà, una matrice psicologica, autobiografica, esistenziale che rinvia all’interiorizzata esperienza della dittatura subita dall’autore negli anni della sua giovinezza. La fuga per il mondo, anzi l’approdo nell’Europa liberale e democratica (Inghilterra, Francia, Svizzera, Italia), avviene nel segno della sconfitta, dell’umiliazione patita, della nullificazione della dignità soggettiva. In codesto suo essere vittima di Volontà inoppugnabili, mostruose, proprie dei carnefici, avviene il suo ‘incontro’ con il Kafka del Processo e del Castello.
Il vero oggetto ideologico di questo libro è un j’accuse all’indirizzo di una ormai estinta dittatura storica, ma anche di ogni dittatura vissuta dai più come annientamento dello slancio vitale, come condizione servile, come accettazione supina di un’esistenza senza amore, senza libertà, senza speranza. E in nome dell’amore, della libertà, della speranza si consuma la rivolta di Sumanac, il suo autoesilio, fino all’attuale antologia che, apparentemente slegata dalla vita, dalla storia, dalla realtà è il metaforico racconto di quante lacrime grondi (e di quanto sangue) la dignità espropriata, l’umanità negata!
A fronte di chi scelse di non amare, di restare schiavo, di ubbidire, Sumanac scelse di varcare il Rubicone che lo separava dall’essere se stesso. Questa sofferta materia autobiografica è, ora, universalizzata e dissolta nell’immaginario onirico delle favole, nell’innocuo inganno (simbolismo-allegoria) dell’arte, nel profetico illusionismo della letteratura, nel messaggio paideutico e propositivo (v. infra: Il truciolo): farsi umile truciolo per scoprire (come il Candido di Voltaire) nell’orto concluso dell’Io il migliore dei mondi possibili.

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1.    Il sogno del boia. Si simbolizza la parte umana di lui nel violino schiacciato che egli, durante il sogno, cerca di restaurare. Questa dimensione onirica lo trasporta in un mondo fatto di normalità, ma al risveglio non gli resta che la ricetta-testamento di un defunto, nella quale trionfa un bisogno di amore. Tale bisogno rimane, senza frutto, nella veglia che lo restituisce al suo mestiere: uccidere, a dispetto di ogni umana aspirazione verso un cielo di umana pietà imprigionato … nel sogno. Egli ha scelto di essere boia per farsi servo del potere, strumento di esso, perinde ac cadaver. Nel sogno si libera il suo inconsapevole bisogno di purificazione (ritornare ad essere ‘uomo’, riappropriarsi della sua umanità): il violino è simbolo della sua parte umana priva di ogni aggressività. Il tentativo (onirico) di trovare chi possa restaurarlo fallisce, si consuma così la sconfitta della dimensione ‘umana’ e della sottesa pulsione libertaria. Fuor di metafora, nel boia si configurano quanti hanno collaborato, collaborano o collaboreranno con il Potere assoluto, qualunque sia la loro veste, la loro funzione.
2.    La chiaroveggente. Si simbolizzano le dinamiche del Potere che vegeta rigogliosamente sulla superstizione, sull’ignoranza, sul fanatismo: meccanica, questa, universale ed endemica, propria di ogni cultura, anche di quella apparentemente più avanzata. Attraverso imbonitori, demagoghi, retori, falsi profeti, stregoni (ora mediatici) si consuma la frode del Potere. La scomparsa (qui la morte) di uno di loro non allontana il rischio di ricadute. La libertà e la verità sono la posta in gioco.
3.    Il tappeto volante. Prosetta metafisica, esistenziale. Tema: il Destino (simbolizzato dalla tessitrice) disegna al proprio telaio un tappeto variopinto per ogni uomo. A ciascuno il suo! Ma gli uomini non vogliono accettarlo e lottano per realizzare se stessi al di fuori di un ordine metafisico che li trascende. E allora il “destino” se ne va … verso il cielo, lasciando privi di senso quanti non lo hanno assecondato e non hanno cooperato (come dovrebbero) nel rispetto di un superiore ordine cosmico. Questa favola riprende un tema di antica matrice grecoclassica e, precisamente, eschilea.
4.    L’indice. Sotto il velo surreale dell’allucinazione e del sogno da cui questa prosa sembra sortita, si stigmatizza l’etica del dittatore che lotta sempre per tutelare il proprio potere. Egli ha paura di tutti e soprattutto di quanti potrebbero essere suoi antagonisti nell’aspirare alla dittatura. Non gli resta che ‘reciderli’ come qui avviene per l’indice!
5.    Il banditore. Egli è il portavoce, l’araldo, l’emittente mediatica (oggi) del Potere. E, tuttavia, inconsciamente vorrebbe riappropriarsi della libertà di pensiero e parola, per correggere o interpolare il messaggio del quale si professa supino latore. Tale tentativo, destinato alla sconfitta, qui si allegorizza nella saliva che, al di là delle intenzioni del banditore, offusca in qualche sua parte il testo da divulgare. Dimensione psicologica, questa, forse molto diffusa, condivisa, ancorché frustrata, da funzionari e servili rappresentanti del Potere, anche in una democrazia come la nostra.
6.    La donna strana. Frammento narrativo di carattere lirico. Esula dallo schema ideologico dominante. Qui il sole è allegoria della vita. Il fiore strano (potente e fragile) è la tenerezza, linfa di ogni forma di amore. In esso, l’unica via di salvezza.
7.    Il coltivatore di piante. Si ritorna al tema dominante: la mostruosità del Potere. Il protagonista, grande sciamano di massa, falso profeta, con le sue erbe magiche assicura a tutti salute e benessere, ma di fatto cattura le menti, le seduce, le plagia assicurando, con parole fraudolente, la panacea di ogni male. È una variante del ben noto Pifferaio. Egli, in realtà, vuole scalzare il Potere costituito. Si scontra con esso perché è l’alter ego del tiranno che ha pianificato le intelligenze derubricando il popolo al rango di gregge. Dunque insorge per sostituirsi a lui e vestirne i panni. Nell’attrito fra queste due forze (facce della stessa medaglia: la volontà di potenza) si compie la reciproca sconfitta. Dal reciproco soccombere delle forze del male l’auspicata rinascita delle coscienze!
8.    Il truciolo. È una bellissima rivisitazione in chiave fortemente metaforica (e forse autobiografica) della vicenda di Joseph K., protagonista nel Processo (Kafka), ma è anche la consegna di un messaggio salvifico. Finalmente, la formula del dover essere! Truciolo (alter ego dell’autore?), chiuso nel suo recinto esistenziale (l’isola di Skopelos?) cerca di attingere da una donna il senso del mondo. Essa lo spinge ad avere un piccolo ruolo nel teatro (la letteratura?), metafora della vita, dove la sua ‘parte’ è molto umile, discreta, marginale. Accettare questo ruolo, accettare il quotidiano, la ‘piccola’ vita fedele a se stessa, questo è quanto rimane da cogliere per chi voglia comprendere il Mondo. Questo è della vita l’unico senso possibile.
9.    L’estintore di tracce. Quando una ideologia totalitaria si afferma, il suo vangelo è la revisione critica del passato e della storia. Così l’individuo cerca di annientare tutta la sua storia personale, ma senza frutto, perché la storia è incancellabile, è la nostra vita, sicché bisogna accettare non solo le luci, ma anche le ombre trascorse. Il nostro passato è similabile alle radici di un albero: si radica nel profondo e dura in noi come il tempo di proustiana memoria. Talvolta, in ambito generale, si assiste al tentativo di soffocare la verità e la forza della storia in nome di un messianismo fallace e fraudolento.
10.    La solitaria. Protagonista una donna che cerca il senso della vita nell’amore e diventa capace di dialogare e incontrare l’altro. L’ amore non solo ideale, ma anche sensuale, è l’unico mezzo di salvezza, l’unica via che porta al significato della vita. Il dialogo e l’incontro con gli altri rappresentano una soluzione al problema esistenziale direi alternativa a quella emersa nel Truciolo.
11.    Il mendicante. Il protagonista assolutizza nella sua figura chi a tutti i costi vuole diventare popolare, avere potenza, essere ammirato dal mondo perché narcisista. Col tempo, il successo, come sempre accade, non fa più effetto e declina; allora il mendicante torna all’inizio della sua vita e ridiventa oscuro. Il tema, dunque, è nel carattere effimero del successo cui segue un ritorno nella palude, ossia una regressione alla condizione primeva.
12.    Dal diario. Storia di un cavallo sottoposto al cocchiere sicché non può vivere senza di esso come uno schiavo non può vivere senza padrone. Mendica l’amore del cocchiere, si regge su di lui e lo regge. Qui si metaforizzano la simbiosi e l’osmosi fra il Dittatore e un popolo prono e servile.    

Gino PISANO’