La sommossa gallipolina del 23 gennaio 1898

Il fatto e le interpretazioni

Il contesto
La dolorosa vicenda che vide protagonista la città di Gallipoli nel gennaio del 1898 trova il suo naturale inserimento e la sua spiegazione nel più ampio contesto della crisi economico-sociale e politica che caratterizzò l’Italia di fine Ottocento e, in particolar modo, le regioni meridionali [1]. L’endemica povertà del Sud, connessa allo storico problema della mancata distribuzione delle terre del latifondo e del demanio ai contadini, venne ulteriormente aggravata, in quegli anni, da un’errata politica di commercio con l’estero. La guerra doganale con la Francia, ingaggiata da Crispi, ebbe infatti ripercussioni devastanti per la già fragile economia meridionale, basata quasi esclusivamente sulle attività agricole. La Francia, infatti, per ritorsione contro le scelte italiane in politica internazionale, interruppe le importazioni di vino italiano, provocando il crollo non solo dell’agricoltura, ma anche delle attività artigianali e commerciali ad essa collegate.
Gallipoli, centro di antica vocazione mercantile dei prodotti agricoli di Terra d’Otranto, specie del vino e dell’olio, si distingueva dai numerosi centri salentini per la composizione sociale della sua popolazione, costituita in gran parte, oltre che da pescatori, da artigiani (bottai) e da lavoranti nelle attività portuali di carico e scarico delle merci. Domenico De Rossi annota, in proposito, che in Gallipoli «si contavano, fino ai primi anni del 1900, ben 22 stabilimenti vinicoli e 26 fabbriche di botti [2].  Interessanti sono, inoltre, i dati che egli fornisce circa il movimento delle merci negli ultimi anni del 1800. Dai 63.000 ettolitri di vino, provenienti da quasi tutta la provincia e imbarcati da Gallipoli nell’anno 1896, con l’ottimo prezzo di 50 lire la salma, si passò nel 1897 ad una forte diminuzione delle richieste con ribasso del prezzo che, per le migliori partite, oscillò tra le le 31 e le 34 lire la salma; «calma, poco traffico e prezzi bassissimi si verificarono nel 1898» e le «poche partite che si riuscì ad esitare, quotarono dalle lire 25,28 a 32 la salma», con prezzo praticamente dimezzato rispetto al 1896 [3] . La città, quindi, divenne l’epicentro, nel Salento, di un malessere sociale che si radicava nella crescente crisi occupazionale e nel progressivo impoverimento di ampi strati della popolazione. In tale contesto, si erano sviluppate le prime organizzazioni sociali e politiche dei lavoratori, con la presenza di nuclei di forze politiche dell’Estrema Sinistra, tra le quali il Partito Socialista, il cui Circolo era stato inaugurato in Gallipoli il 10 gennaio 1897 dall’on. Enrico Ferri [4]. Non c’è dubbio che tale presenza sul territorio determinasse, sul piano politico locale, una vivace dialettica avente per oggetto i problemi sociali, con conseguente radicalizzazione dei rapporti con gli ambienti politici referenti dell’area governativa, che amministravano la città.
A questa già precaria situazione economico-sociale, si aggiunse la cosiddetta questione del pane, che interessò tutta la Penisola, ma che, per le ragioni su accennate, fece registrare terribili ripercussioni nel Sud. La scarsa produzione granaria, verificatasi in Italia e in tutta Europa nel 1897, provocò difficoltà oggettive nel reperimento delle farine, il cui prezzo, gravato dal dazio doganale sulle importazioni, frutto della scelta protezionistica della Sinistra, crebbe considerevolmente. Di conseguenza, il prezzo del pane, soggetto per di più a odiosi balzelli comunali, registrò un notevole e progressivo rialzo, dovuto anche alle immorali manovre speculative di operatori senza scrupoli, che ricorrevano all’imboscamento delle farine in vista di più lauti guadagni con il mercato nero o con l’acuirsi della crisi. Il governo dell’epoca, capeggiato dal conservatore siciliano Antonio Starabba marchese di Rudinì, si dimostrò piuttosto restìo a prendere provvedimenti per calmierare il costo del pane, nonostante le proteste popolari e degli esponenti dell’opposizione. A livello locale, la rabbia antigovernativa si esprimeva nella contestazione verso le autorità municipali – agli occhi delle folle riflesso del potere centrale – le quali cercavano di fronteggiare, sia pure precariamente, il problema della fame sostenendo gli interventi delle Opere di carità e delle Cucine economiche, che distribuivano frugali pasti ai più bisognosi.

Il fatto
I primi segni della tracimazione del malessere sociale nel Salento, con massicce proteste in piazza, risalgono ai giorni immediatamente precedenti i tumulti gallipolini. La Provincia di Lecce del 21 gennaio 1898 riporta, infatti, notizia di manifestazioni a Torre Santa Susanna per la mancanza di lavoro e per i prezzi del grano e degli altri cereali «saliti alle stelle». Analoga situazione si determinava a Copertino, dove si registravano dimostrazioni, proteste e disordini, e anche a Latiano, Mottola, Salice, San Vito [5].
Il pomeriggio del 23 gennaio, giorno di domenica, i tumulti esplosero, con particolare violenza, a Gallipoli. Si trattò dell’episodio di massima risonanza nel Salento e uno dei più clamorosi dell’intera Puglia. La stampa dell’epoca riferì sulla vicenda, dando “letture” diverse, a seconda del proprio orientamento ideologico-politico. È interessante, pertanto, confrontare le interpretazioni di due giornali provinciali, Il Risorgimento [6]  e La Provincia di Lecce [7], di orientamento moderato, e del foglio gallipolino Spartaco [8], di ispirazione  socialista, che risultano alquanto difformi, specie riguardo alle cause del tumulto e alle responsabilità.
Seguiamo i fatti, attingendo all’ampia cronaca de Il Risorgimento, che fu uno dei primi giornali della provincia a darne notizia, mediante il dettagliato resoconto   di un inviato speciale, incaricato di riferire «tutto minutamente» con una «cronaca completa dei fatti [...], frutto di colloqui [...] con persone di ogni sorta, senza distinzione di classe e di partiti» [9]. Il giornale dichiara, quindi, l’oggetività con cui vuole trattare la delicata vicenda, senza lasciarsi influenzare da posizioni di parte. La cronaca inizia con la registrazione delle prime avvisaglie del tumulto nel primo pomeriggio di domenica 23 gennaio («alle ore 2 e 1/2 pomeridiane»), quando giunge al Sindaco di Gallipoli, comm. Giovanni Ravenna, «la notizia che c’è difetto di pane in piazza. Il Sindaco, allarmato, si occupa subito dell’affare e trova che pane c’è a sufficienza. Allora egli redarguisce severamente coloro i quali spargono queste dicerie, e costoro rispondono di averlo inteso vociferare». Per Il Risorgimento, quindi, il Sindaco Ravenna, dagli accertamenti effettuati, ricavò che si trattava di una notizia falsa, fatta circolare strumentalmente. Alle ore «4 e 1/2» pomeridiane, durante la seduta del Consiglio Comunale, si registra uno spiacevole incidente: «Uno degli spettatori chiede ad alta voce: pane! pane! Il Sindaco lo richiama all’ordine, facendogli giustamente osservare che il pane non manca. L’individuo, avvinazzato, insiste e il Sindaco invita un assessore ad occuparsi della faccenda, in linea bonaria, senza compromettere il disturbatore. Non erano passati nemmeno dieci minuti da questo secondo incidente, che si sente un vocìo nella piazza». Il Sindaco tenta di proseguire la seduta, ma, per prudenza, la scioglie e, dal balcone del Municipio, «invita alla calma, dice che il pane non manca» Poi aggiunge, con una nota polemica che è anche una valutazione politica “a caldo” di quanto sta accadendo, di comprendere bene «che il grido: pane! pane! non può che essere un pretesto messo innanzi dai suoi nemici personali». Conclude con la promessa «che l’Amministrazione Comunale, quanto alla questione del pane, farà in modo perché qui non s’abbia a lamentare il rincaro e che anzi, per vieppiù giovare alla popolazione, pensa di sopprimere il dazio sulle farine, finché non sarà passato questo momento critico» [10]. Le parole del Sindaco sembrano aver raggiunto lo scopo sperato, ma – continua Il Risorgimento – «un’altra orda di dimostranti s’aggiunse alla prima la quale forse tendeva a dissiparsi. Lo schiamazzo cresce. Le grida si fanno più insistenti» e, quando, all’insaputa del Sindaco, «uno dei delegati di P. S., certamente credendo di far bene, volle arringare dal balcone del Municipio [...], subito cominciò una fitta sassaiola, accompagnata da urla e fischi». Gli eventi precipitano. «La folla cerca d’invadere il Municipio, la Pubblica Sicurezza, assolutamente sprovvista di mezzi adeguati alla repressione, cerca di far fronte [...] alla massa irrompente [....]. Il Sottoprefetto cav. De Pieri, giunto da pochi giorni, cerca colla parola, esponendo la sua persona alle violenze, di calmare gli animi eccitati, ma non riesce ad ottenere nessun pratico risultato. I funzionari di P. S. e i carabinieri subiscono oltraggi senza numero. Con sforzi immensi si riesce ad impedire alla folla l’accesso nei locali del Municipio. Non essendo riuscita a questo scopo, essa si riversa nelle sale del Circolo Gallipolino, presieduto dallo stesso Sindaco, comm. Ravenna, e quivi tutto distrugge. Le donne aizzano gli uomini, i quali rompono tutto, incendiano, con vandalismo tutto nuovo. Dal Circolo passano all’attiguo Ristorante, condotto dalla ditta Gaetano D’Elia e figlio e frantumano bottiglie, servizi da tavola e quanto capita loro sottomano. Si capisce facilmente che fanno anche bottino di tutti i generi alimentari di cui era provvisto il Ristorante. Dopo la devastazione compiuta, una parte della folla si dirigeva al Teatro Comunale Garibaldi, con gli stessi intendimenti, ma fu fermata da varii cittadini, i quali con buone parole ottennero che i dimostranti smettessero l’idea. E così la folla, dopo aver rotto parecchi lampioni, si dileguò» [11].

L’epilogo e le valutazioni
Il cronista riferisce poi sull’intervento dell’esercito, sollecitato dal  Sottoprefetto di Gallipoli, e sui provvedimenti adottati. «Con treno speciale alle ore 11 partirono da Lecce trenta carabinieri, guidati dal capitano Generoso Fusco, e la 1a compagnia dell’84o Fanteria con il capitano Caracciolo Vito e i tenenti Maresca Baldassarre e Somma Donato. Partì anche il cav. Giuseppe Sennoner ispettore di P.S. Tutti i rinforzi giunsero alle 3 antimeridiane del lunedì, quando la calma era rientrata nella città» [12]. La forza pubblica, assunto il pieno controllo della città, dal 24 al 26, eseguì numerosissimi arresti, secondo Il Risorgimento «in base a dei convincimenti della P. S» e alle confessioni dei primi arrestati che «dichiarano il nome degli altri compromessi e quindi le file si ingrossano»; secondo altre versioni, invece, sulla base di delazioni di confidenti del Delegato di Polizia e del Pretore [13].
Quanto alle cause dell’accaduto, per Il Risorgimento non c’è alcun dubbio. «I fatti delittuosi accaduti a Gallipoli si debbono attribuire veramente alla mancanza di pane? Noi, da pubblicisti leali, onesti e coraggiosi, diciamo francamente no! Il pane comune a Gallipoli va a 32 centesimi il kilo, mentre in tutti i paesi della provincia va a prezzo non minore di centesimi 35. Va esclusa quindi assolutamente l’idea che la dimostrazione possa essere stata causata dal prezzo del pane, che da un mese a questa parte non rincarò. Noi crediamo che la ragione vera debba trovarsi nella lotta di classe. A Gallipoli ci sono molti illusi e molti credentoni [sic] messi su da gente che al momento per coloro si squaglia. Quest’ultimi che si chiamano socialisti formavano il maggior numero della dimostrazione. Il resto era formato da avversari dell’attuale Amministrazione Comunale». Il giornale, quindi, dava una lettura esclusivamente politica della sommossa, attribuendone la responsabilità ai socialisti, in sintonia con quanto, sia pure velatamente, traspariva dal manifesto, a firma della Giunta Municipale, affisso in Gallipoli la mattina del 24, nel quale si condannava l’accaduto e si ufficializzava l’interpretazione dell’Amministrazione Comunale riguardo alle cause che lo avevano scatenato. «Municipio di Gallipoli. Gli atti di violenza e di devastazione che sonosi iersera compiuti, furono tanto più deplorevoli in quanto non vennero cagionati da pretese di fitto o rincaro del pane, ma dal mal animo di un numero di facinorosi dei quali sono noti gli intendimenti ed i fini. Ci conforta tuttavia in questi tristi momenti il pensiero che è massimo per costoro il vostro disprezzo e che voi non vedete che con dolore che siasi voluta oscurare la fama che ha sempre goduta la nostra Gallipoli, di città eminentemente civile, amante dell’ordine e degna di libere istituzioni».
Nessuna rsponsabilità, dunque, era da addebitarsi, secondo Il Risorgimento, al Sindaco Ravenna e a tutte le autorità, che anzi andavano elogiate «per avere colla loro condotta prudente e nello stesso tempo coraggiosa evitato guai peggiori» [14].
Sostanzialmente identica la cronaca de La Provincia di Lecce, ma molto più  scarna e distaccata rispetto a quella del Il Risorgimento, perfettamente coerente con la linea di un foglio indipendente, scevro da valutazioni di carattere politico. Quanto all’origine del tumulto, anch’essa informava che «Domenica a sera il Consiglio Comunale era riunito e si discuteva il progetto di riforma del Corpo delle Guardie Municipali [...]. Ad un tratto un individuo grida: “Mentre voi discutete di tasse, noi moriamo di fame: dateci pane”» [15]. L’uomo, però, viene definito «brillo», concordando con Il Risorgimento, per il quale era «avvinazzato». Con questo giudizio, entrambi i giornali leccesi lasciano implicitamente intendere che l’uomo fosse stato adeguatamente “preparato” e appositamente inviato per creare i presupposti per la sommossa e che, quindi, alle spalle vi fosse un piano prestabilito. Interpretazione, questa, contrastante con la versione secondo cui il “disturbatore” era una persona che semplicemente sollecitava l’Amministrazione a intervenire perché in città si imboscava il pane e che, mostrando i soldi, aggiungeva: «ho qui i soldi, e i miei figli non debbono andare a letto digiuni» [16].
Anche per La Provincia di Lecce, il Sindaco aveva fatto il possibile per evitare che la protesta degenerasse, assicurando che «il Municipio avrebbe provveduto perché non mancasse né il pane né il lavoro, ma furono parole sprecate» [17].
Di opposto parere invece era Spartaco, che nei mesi precedenti aveva più volte lanciato l’allarme per la grave situazione occupazionale in città e per il pane, che scarseggiava e rincarava. «La mancanza di lavoro e il rincaro del pane, il non trovare nelle botteghe per più sere il pane da sfamare il povero, perché tenuto nascosto per ingordigia dal bottegaio allo scopo di darlo non misurato a credenza al proprio cliente (quella sera – precisava il foglio – se n’erano imboscati più di 3 quintali), le vessazioni del fisco più terribili della scortesia dei due funzionari governativi, l’Agente delle tasse, l’Ispettore del Demanio, il niun provvedimento per far cessare questo stato deplorevole, acutizzato dalla indifferenza di chi ha il dovere di provvedere: ecco che cosa ha stillato da tempo, e man mano addensato nel cuore del gallipolino il malumore, l’odio» [18]. Questo «il fondo vero della sommossa della sera del 23 corrente», secondo il giornale, che respingeva sdegnosamente le accuse mosse al Partito Socialista di aver ordito le trame della rivolta, rivendicando invece il merito ad alcuni esponenti socialisti, stimati dal popolo, come Stanislao e Luigi Senape-De Pace, Nicola Patitari, Tullio Foscarini  ed altri di aver dissuaso i manifestanti dal continuare i saccheggi [19].
L’epilogo fu molto amaro. Gli arrestati furono tradotti nel carcere di Lecce, dove il 29 gennaio si aprì a loro carico il processo per direttissima. Spartaco, che esprimeva il proprio disappunto per le «nere tinte» con cui il Pubblico Ministero Pappagallo aveva esposto «la storia dei fatti della sommossa, facendo tralucere che la medesima ebbe luogo per i subillamenti e i tenebrosi incitamenti del Partito Socialista» [20], alla fine manifestava compiacimento per l’esito del processo. Dei 71 imputati, 47 vennero prosciolti e 24 condannati per incendio, oltraggio e danneggiamenti a pene varianti da 4 anni e 6 mesi a qualche mese di detenzione, oltre a pene pecuniarie. Per il foglio gallipolino, giustizia era stata fatta, perché il magistrato giudicante aveva operato bene «bandendosi il preconcetto di manifestazioni socialistiche là dove deve riconoscersi la esplosione subitanea dei dolori compresi per lo spasimo della fame» [21], individuando così l’unica vera causa del tumulto e dimostrando l’assoluta estraneità dei socialisti alla sommossa, col pieno proscioglimento di quei militanti che erano stati ingiustamente arrestati.
A questo punto, però, Spartaco riteneva che qualcuno dovesse pagare per aver agito in malafede nella vicenda, operando contro i socialisti. «A ragione la coscienza della cittadinanza aspetta una più singolare riparazione» – scriveva il giornale socialista – essendo stata «superlativamente improba la condotta di alcuni funzionari e ne considera come incompatibile la dimora in Gallipoli poiché si son procurati con quel che hanno fatto la disistima universale, vuoi che appartengano alla Pubblica Sicurezza, vuoi che appartengano al Potere giudiziario», in quanto «la più potente malafede, la cattiveria più sfrontata è stata adoperata da questi signori» [22]. Accuse esplicite e pesanti che rivelano il grado di tensione che esisteva in città e che gettavano un’ombra sul comportamento della pubblica autorità nella vicenda. Di fatto, il Delegato Tommaso Gabellone fu trasferito da Gallipoli a Reggio Calabria, nel mese di aprile, e il Pretore Carpinone De Riso nel beneventano, nel maggio del 1898 [23].
Va comunque detto che, nonostante l’appassionata difesa della propria parte politica operata da Spartaco, risulta difficile pensare che, in una questione socialmente tanto grave e anche così significativa sul piano dell’identità politica, come appunto quella relativa al rincaro del pane, i socialisti non abbiano avuto un ruolo di primo piano nella polemica con gli amministratori comunali di opposto schieramento, come del resto emerge dai rilievi e dalle critiche in precedenza mosse dallo stesso Spartaco. È legittimo, quindi, supporre che il Partito Socialista gallipolino abbia fatto della questione, com’era naturale, un “cavallo di battaglia” del suo impegno a difesa dei più deboli, senza per questo scadere in estremizzazioni o incoraggiare degenerazioni di alcun genere. Tuttavia, il malcontento popolare, dal piano della protesta energica ma civile, sarebbe degenerato, per la naturale animosità di chi si sente vessato e anche per l’irresponsabile opera di facinorosi, sfociando in violenza pura. Questo spiegherebbe l’intervento di personalità socialiste per sedare la sommossa.  
I drammatici fatti di Gallipoli furono i primi, ma non gli unici nella Puglia. Ad essi fecero triste seguito numerose sommosse come quella di Grottaglie, del 18 marzo 1898, con duemila dimostranti che assalirono il Municipio chiedendo la quotizzazione delle terre demaniali [24], quella di Bari, del 28 aprile, con violenze che richiesero l’intervento dell’esercito, e poi di Monopoli, di Molfetta, di Foggia, quella tragica di Minervino Murge, con numerosi morti e feriti, e di tante altre località pugliesi e dell’intera Penisola. «Tutto si riassume in una sola parola: anarchia»! Era questo il desolato commento de La Provincia di Lecce [25].
È noto che il culmine di questa ondata di contestazione popolare si registrò a Milano tra il 7 e il 10 maggio, quando fu proclamato lo stato d’assedio e il generale Bava Beccaris – assurdamente, poi, insignito dal Re – fece sparare dall’esercito sui dimostranti, provocando oltre 80 morti e diverse centinaia di feriti. Il secolo del Risorgimento, delle speranze degli Italiani, delle promesse a “larga mano” sparse sulle aspettative meridionali, celebrava tragicamente il suo tramonto!

Salvatore MARRA