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LE INNOVAZIONI NEI CONDOMINI

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I rapporti condominiali sono, senza ombra di dubbio, una fucina dalla quale nascono questioni di particolare conflittualità. Ciò accade principalmente perché, questo genere di relazioni “forzose”, toccano da vicino gli aspetti più intimi della propria vita domestica e dell’ambiente familiare, sempre tenendo in considerazione la naturale dose di insofferenza ed, a volte, di intolleranza che ogni persona ha dentro di sé.
Proprio con riferimento a questo genere di rapporti ed, in particolare, a ciò che il diritto consente o meno a ciascun condomino, mi è stato chiesto di mettere in evidenza alcune problematiche concernenti le c.d. innovazioni tecnologiche, intendendosi per tali tutti quegli interventi dettati dalla necessità di introdurre delle novità, sovente indispensabili, all’interno della abitazioni o nelle parti comuni di un condominio (ad. es. riscaldamento autonomo, climatizzazione, servizi telefonici, ecc.).
Occorre, anzitutto, ricordare che l’art. 1117 c.c. stabilisce una presunzione legale di condominialità per tutta una serie di elementi strutturali di un fabbricato (ad es. muri perimetrali, fondamenta, lastrici solari, cortili, locali per il riscaldamento, impianti elettrici ed idrici,  portoni di ingresso, ecc.), presunzione dalla quale si può fuggire esclusivamente allorquando dal titolo d’acquisto “si desumano elementi tali da escludere in maniera inequivocabile la comunione del bene” (Cass. n. 8152 del 15.06.2001).
Per quanto concerne le modifiche che possono essere apportate alle parti comuni, l’art. 1120 c.c. comma 1 dispone che qualsiasi innovazione diretta al “miglioramento o all’uso più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni”, possa essere disposta dai condomini con la maggioranza rafforzata di cui all’art. 1136 comma 5 (ovvero, la maggioranza assoluta dei partecipanti al condominio che costituisca contemporaneamente quella dei due terzi del valore dell’edificio, determinato sulla scorta delle tabelle millesimali). Tale disposizione sembrerebbe, a prima vista, piuttosto permissiva, se non fosse che il comma seguente dello stesso art. 1120 c.c. vieta una tutte le innovazioni che possano recare “pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato”, quelle che “ne alterino il decoro architettonico” ovvero, infine, quelle che rendano le parti comuni “inservibili all’uso od al godimento anche di un solo condomino”.
Orbene, la pregnanza di questi divieti assume grande valore in quanto, specialmente con riferimento alla seconda ed alla terza ipotesi, ci si trova di fronte a situazioni spesso di carattere strettamente soggettivo e di difficile valutazione.  
Le fattispecie in questione, peraltro, costituiscono il “freno a mano” di qualsiasi decisione assembleare relativa a modifiche e miglioramenti da apportare al condominio, poiché la presa di posizione anche di un solo condomino in ordine alla sussistenza delle ipotesi vietate, è in grado di porre nel nulla ogni sforzo teso all’introduzione di miglioramenti.
Riguardo al primo divieto, le considerazioni da farsi sono poche. E’ chiaro che, se un intervento è in grado di provocare danni strutturali o compromettere la sicurezza dello stabile condominiale, non può essere deliberato (sono noti, purtroppo, alcuni disastri determinati da scellerati interventi migliorativi o dalla loro cattiva esecuzione).
Ovviamente, il pregiudizio deve essere effettivo ed accertato, e non soltanto temuto.
Con riferimento al decoro architettonico di un edificio condominiale, le possibilità di contestare e, conseguentemente, di opporsi ad un intervento migliorativo da parte dei condomini sono molteplici.  La giurisprudenza, difatti, non ritiene che questo genere di tutela (attivabile su istanza del singolo condomino) sia da ricollegarsi al pregio artistico o storico di un edificio, essendo, viceversa, da riferirsi a parametri molto meno prestigiosi.
In linea di principio, dunque, secondo l’orientamento maggioritario della Corte di Cassazione, ciò che una modifica migliorativa non deve inficiare è “la linea armonica dello stabile” (Cass. n. 1304/1975), definendosi decoro architettonico di un fabbricato “l’estetica data dall’insieme delle linee e delle strutture che connotano il fabbricato stesso e gli imprimono una determinata, armonica, fisionomia” (Cass. n. 2313/1988;  Cass. 8731/1998).
E’, dunque, logico immaginare quali possano essere le ripercussioni nella realtà concreta, data l’assoluta genericità dei concetti di “linea armonica” ed “insieme di linee e strutture”.   
Altrettanto malleabile si manifesta la problematica della inservibilità delle parti comuni dell’edificio all’uso od al godimento dei condomini.
Occorre, a tal uopo, evidenziare che l’art. 1118 c.c. sancisce il diritto di ciascun condomino sulle parti comuni di un edificio, attribuendolo a ciascuno in misura proporzionale al valore del piano o porzione di piano che gli appartiene. Tale articolo, va letto alla luce dell’art. 1102 c.c. in tema di “comunione”, il quale ammette che ogni partecipante possa servirsi della cosa comune, purché “non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri di farne parimenti uso secondo il loro diritto”
L’utilizzo delle parti comuni è, dunque, soggetto a due fondamentali limiti, ossia il divieto di non alterarne la destinazione e l’obbligo di consentirne l’uso paritetico agli altri condomini.  Come confermato anche dalla giurisprudenza (ad es. Cass. n. 12344/97), tali disposizioni legittimano il condomino, entro i suddetti limiti, a servirsi della parte comune anche per fini esclusivamente propri, sino a trarne ogni possibile utilità.  
Si comprende, pertanto, quale rilevanza possa assumere il terzo divieto di cui all’art. 1120 comma 2, qualora l’innovazione o modifica da eseguirsi sulla parte comune trovasse l’opposizione del condomino che sostiene di venirne menomato nell’uso o nel godimento.
Le considerazioni sin qui svolte inducono una serie di conclusioni.  
Anzitutto, con riferimento alle modificazioni ammesse, si può affermare che ogni innovazione può essere deliberata dall’assemblea con la maggioranza rafforzata ex art. 1136 comma 5, allorquando non arrechi alcun tipo di pregiudizio alla sicurezza, alla stabilità od all’estetica del fabbricato, ovvero al diritto di ciascun condomino di utilizzare le parti comuni:  appaiono pacificamente ammessi, pertanto, tutti gli interventi prettamente interni, quelli sostitutivi (per esempio di tubazioni, condutture, ascensori, ecc.) o quelli in qualche modo mascherabili (es. tracciature elettriche esterne rese invisibili con la ripitturazione).
Qualsiasi altro genere di innovazione o modifica, inoltre, risulta implicitamente consentita in caso di deliberazione all’unanimità.
Viceversa, la decisione assembleare eventualmente presa con la maggioranza di cui sopra, è sempre a rischio di essere impugnata con successo anche da un solo condomino, qualora ricorrano i presupposti di cui all’art. 1120 comma 2 c.c.
Conseguentemente, per molte problematiche fornite dalla casistica, come ad esempio quelle relative all’installazione di caldaie murali esterne, canne fumarie, unità esterne dei climatizzatori, antenne paraboliche, la situazione si appalesa estremamente delicata. Pertanto, volendo fare un esempio estremamente attuale nel nostro territorio, la modifica dell’impianto centralizzato di riscaldamento, in favore della creazione di più impianti autonomi, è soggetta all’art. 1120 comma 2 c.c., poiché si tratta di una radicale trasformazione della cosa comune che viene resa “inservibile all’uso od al godimento anche di un solo condomino dissenziente” (Cass. n. 1926/93).  Senza contare, poi, l’eventuale incidenza degli impianti autonomi (caldaie, canne fumerie, ecc.) sul “decoro architettonico”.
Risulta, dunque, evidente l’opportunità di decidere concordemente ed all’unanimità qualsiasi modifica tecnica od innovazione “a rischio”, anche se l’affiatamento tra condomini, la pacifica unione di intenti, appaiono oggi (anche alla luce degli esempi, spesso peculiari, forniti quotidianamente dalla pratica giudiziaria) estremamente difficili da riscontrare nella realtà.

Giuseppe VINCI