1740 Giuseppe Mirone

Ricostruzione storica sulle inferriate delle Cappelle in S. Francesco d’Assisi di Gallipoli

Ci sono momenti in cui un po’ tutti ci sentiamo “folgorati” come Saulo sulla via per Damasco. Vi sono opere indimenticabili nella storia dell’arte e l’incontro con il capolavoro diventa anche un momento importante per mettere a fuoco la nostra stessa percezione dell’arte e la capacità che abbiamo di comprenderla, anche nei suoi risvolti più misteriosi. Eppure molti di questi segni della memoria subiscono le dissennate offese dell'uomo e del suo ambiente di vita.
Ciò accadde alla nostra chiesa di San Francesco d’Assisi di Gallipoli che, dopo lunghi e travagliati anni di restauro e a due anni dall’apertura al culto, la vediamo nella sua originaria bellezza.
Una piena informazione storica sull’originario assetto architettonico e decorativo della chiesa [1] ci viene data dallo studioso e amico Elio Pindinelli, grazie ad un’attenta ricostruzione storiografica, di storia e arte, che con grande passione ha voluto tracciare nel suo libro “Francescani a Gallipoli”, offrendo a noi lettori diversi spunti notevoli di riflessione [2].
Da alcune mie recenti indagini presso l’Archivio Storico del Banco di Napoli e, precisamente, consultando alcuni documenti del 1740, concernenti il Banco del Salvatore, è emersa una polizza con la “causale” riconducibile al tempio francescano di Gallipoli. Da quanto ci riferisce Pindinelli, per la chiesa di San Francesco d’Assisi iniziò un lungo e lento calvario [3], dagli anni critici del Risorgimento [4] con la soppressione generale degli ordini religiosi possidenti, fino agli anni cinquanta. In quest’ultimo periodo si vide uno “smembramento” totale di tutte le opere d’arte da parte del Genio Civile che ritenne opportuno, nonostante il divieto imposto dalla Sovrintendenza di Bari, rimuovere gli stucchi settecenteschi della volta, gli altari lignei di San Pasquale e di Sant’Anna, il pulpito in pietra [5] e sicuramente anche le varie ringhiere in ferro battuto.
Proprio a queste ultime, il documento ritrovato presso l’Archivio Storico del Banco di Napoli fa riferimento, in particolar modo con la menzione «di quattro ferriate fatte per servizio delle 4 balaustrate della Venerabile chiesa di S. Francesco dei R.R. P.P. Riformati della città di Gallipoli» [6].  Ma vediamo più nel dettaglio. Trattasi di una polizza, matricola n. 3704, estinta l’8 agosto 1740, dal Banco del Salvatore, di ducati 46, «a Gennaro Cimafonte, per esso a Giuseppe Mirone, Capo Mastro Ferraro». Dunque, per la prima volta, emerge il nome, a noi finora sconosciuto, dell’artefice delle 4 ferriate: il mastro Giuseppe Mirone e, per lui, il marmoraro Gennaro Cimafonte (famosa famiglia di marmorari, scultori, originaria di Napoli), che curò i contatti con il committente, in questo caso i R.R.P.P. Francescani e l’artista [7]. Proseguiamo nella descrizione: «a compimento di ducati 101 atteso gli altri ducati 55 per detto compimento l’ave il medesimo ricevuto in questo modo cioè ducati 50 con fede di Credito per mezzo de Banchi, e ducati 5 dalli magnifici affittatori dell’arrendamento del ferro, che al medesimo Mirone furono dati per carità a beneficio del Convento di S. Francesco, e tutti detti ducati 101 sono per saldo, e final pagamento di quattro ferriate…».
Ma continuiamo a vedere le modalità di pagamento e la consegna delle inferriate, «di peso Cantara cinque e rotola 5, giusto il prezzo stabilito e convenuto a ragione di ducati 20 il cantaro, le quali sono state fatte e consegnate dal medesimo Mirone nel caduto mese di luglio 1740. Onde con il pagamento suddetto resta il medesimo intieramente soddisfatto, ne altro resta a conseguire, tanto da esso quanto dalli R.R.P.P. suddetti, così per questo come per ogni altra causa sino al 20 luglio, e non altrimenti, e per esso Andrea Remo per altri».
A questo punto, ci resta di individuare la loro collocazione. Probabilmente, le quattro inferriate potrebbero essere quelle che sormontavano le balaustrate di marmo bianco e che  impedivano l’ingresso, senza nascondere la veduta [8] di quattro delle cinque Cappelle della navata destra (dell’Assunta, di Santa Francesca Romana, del Presepe e dell’Annunciazione), non intercomunicanti fra loro [9]. Infatti, entrando a man destra, dalla porta maggiore, troviamo il Cappellone del Santo Sepolcro che, appartenuto al castellano Giuseppe Della Cueva, fu fatto da lui ingrandire e completare nel 1681, rispetto alla preesistente Cappella, appartenuta alla famiglia Gorgoni. Il Della Cueva  fece realizzare una scenografia teatralizzante, con statue, sulla morte di Cristo e il tutto protetto da balaustra e inferriata che, dopo essere stata trafugata, fu rimpiazzata con quella appartenente alla Cappella dell’Immacolata [10], unica superstite oltre  quella della Cappella di San Pasquale.
Escludendo la preesistente inferriata del Cappellone del Santo Sepolcro, antecedente al 1740, le quattro inferriate delle quattro Cappelle potrebbero segnare l’inizio della realizzazione di  una serie di inferriate che proteggevano, oltre il Presbiterio, anche le altre rimanenti Cappelle della navata sinistra, fino al completamento nel 1743, grazie ai Castriota-Margiotta, della Cappella dell’Immacolata [11]  che, a differenza delle altre, come ci riferisce il Vernole, era chiusa anche dai lati, da «più ricca balaustrata di marmi policromi e da ricca ringhiera di ferro battuto con ornati di ottone» [12].
Tutte le altre inferriate, riscontrabili anche da alcune foto d’epoca, erano uniformemente semplici con, all’estremità di ogni sbarra, due spirali avvolgenti e punta acuminata a forma di lancia e che Mirone, presumibilmente, realizzò su disegno di Cimafonte, visto che, proprio in quegli anni, dal 1738 al 1752, il noto marmoraro eseguiva alcuni lavori in Puglia: a Campi Salentina, Gallipoli, Molfetta e Martano [13].

Antonio FAITA