Il potere e la censura

Uno studio ricostruisce il controllo sulla circolazione delle idee nel Regno di Napoli fra '700 e '800.

"Più si va avanti nel cammino alternativo [tra "vecchia storiografia politica" e "storia sociale"], più si scopre - per quanto riluttanti si possa essere ad ammetterlo - che il fondo delle "nuove" questioni e tematiche affrontate aveva molto a che fare con la politica. È il caso degli studi sull'amministrazione della giustizia, il sistema delle pene, la realtà carceraria e simili altre delizie della vita associata sotto i cieli e nei tempi più diversi. È il caso degli studi sull'alfabetizzazione, l'istruzione pubblica, i sistemi pedagogici o di quelli sull'organizzazione di accademie, istituti di ricerca, dotazioni tecniche della pubblica amministrazione, preparazione del relativo personale. Ed è anche il caso dei poteri censorii studiati da Milena Sabato come strategie disciplinari e in rapporto alla circolazione libraria. Nel corso della sua ampia e documentata ricerca si è tentati di rilevarlo innumerevoli volte, fino alla conclusione ultima circa la censura come «qualcosa di infinitamente più vasto di quanto non si pensi»; qualcosa che «va ben al di là delle leggi scritte e si fonda su un equilibrio, su una doppia funzione di repressione e di convincimento, di divieto e di propaganda, che di solito finiscono per coesistere e per costituire due facce della stessa medaglia». La censura, cioè, come strategia del potere, che nella società di ancien régime [...] non è mai un potere monolitico, e neppure un potere unico, perché accanto o contro il potere centrale del sovrano e del suo governo vi è almeno quello ecclesiastico, e né l'uno, né l'altro possono essere considerati come realtà semplici e indifferenziati (ammesso che possano poi esserlo in qualsiasi altro tipo di regime); e questo studio conferma pure come nel corso di un paio di secoli il potere ecclesiastico sia andato perdendo terreno dinanzi a quello dello Stato e come l'uno e l'altro abbiano dovuto, alla fine, fare i conti con un potere nuovo: il potere di quella che sarebbe poi stata definita come pubblica opinione" (dalla Prefazione di Giuseppe Galasso, Professore emerito dell'Università degli Studi di Napoli "Federico II" ed Accademico dei Lincei).
Come messo ben in risalto dalle autorevoli affermazioni del Galasso, il recente volume Poteri censori. Disciplina e circolazione libraria nel Regno di Napoli fra '700 e '800 (edito da Congedo editore, con Prefazione di Giuseppe Galasso), alla luce degli studi più recenti in materia e di una documentazione inedita, conservata in archivi e biblioteche vaticane (Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede, Archivio Segreto Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana), in archivi arcivescovili e diocesani (di Brindisi, Gallipoli, Lecce, Nardò, Oria, Ugento), negli archivi di Stato (Lecce e Napoli) e in biblioteche napoletane e locali (Biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria e Biblioteca Provinciale "N. Bernardini" di Lecce), ha inteso ripercorrere il complesso sistema delle tecniche e delle strategie del potere censorio, sia a livello delle istituzioni sociali coinvolte (Stato e Chiesa), sia per quanto concerne la loro fitta rete di controllo e le conseguenti pratiche repressive adottate. Parallelamente, illumina su un secondo aspetto attraverso cui si è manifestato, a partire dalla seconda metà del secolo XVIII, l'intervento delle istituzioni laiche ed ecclesiastiche: su come, cioè, esse siano passate da un'esigenza di controllo ad un'utilizzazione con finalità pedagogiche e politiche degli stessi strumenti prima "perseguitati".
Con uno sguardo privilegiato sul primo periodo borbonico, si è cercato, pertanto, da un lato, di individuare le estreme conseguenze del conflittuale rapporto tra poteri organizzati e voci e comportamenti avvertiti come dissidenti; dall'altro, ponendo come punto di osservazione principalmente la relazione editoria-cultura, di dimostrare come, in un secondo momento, controllo e censura abbiano in qualche modo convissuto con l'uso consapevole della stampa da parte delle istituzioni laiche ed ecclesiastiche, rendendola strumento di consenso, di propaganda, di educazione.
Certamente, nel Settecento l'interesse sia dello Stato che della Chiesa si rivolse a tutti i settori della vita associata (attraverso, ad esempio, disposizioni e provvedimenti prescritti dalle prammatiche sanzioni l'uno, e con costituzioni pontificie, prescrizioni delle Congregazioni romane, Statuti, editti dei vescovi e disposizioni sinodali l'altra), invadendo progressivamente tutti gli spazi della società civile, al fine di controllarli e guidarli nella realizzazione di propri fini generali. È sufficiente, tuttavia, scorrere alcune delle voci enciclopediche dedicate a definire il termine censura per constatare subito l'ampio spazio riservato ad essa in quanto esplicazione di un controllo pubblico sulla stampa. Effettivamente, la censura preventiva e repressiva sui libri, quale controllo generalizzato sulla produzione, circolazione e "uso" del sapere, occupa fra tutte (la dottrinale o teologica e la penale medicinale) un posto di particolare importanza, avendo esercitato per un arco plurisecolare un peso determinante su forme e contenuti della diffusione delle idee. Ad essa, sia sul piano bibliografico quanto su quello della ricerca archivistica, è stata pertanto dedicata la parte più cospicua del lavoro. Sulla base di un ricco materiale bibliografico e documentario, e considerato quanto, per il Settecento, la "prospettiva ecclesiastica" sia stata poco tenuta nel debito conto dagli studiosi (essendosi la loro attenzione concentrata soprattutto sui mutamenti intervenuti in seguito alla nascita di una censura di Stato nei vari contesti della penisola), si è dunque cercato di capire l'effettivo funzionamento delle Congregazioni preposte al controllo librario (quelle cioè dell'Indice e del Sant'Uffizio) e dei tribunali ecclesiastici locali (nello specifico, quelli di Terra d'Otranto) nel corso del Sette-Ottocento, talvolta analizzando qualche testo censurato di provenienza otrantina (è il caso, ad esempio, dell'Apologia sopra l'autore della Istoria del concilio tridentino di Damiano Romano, avvocato fiscale nella Regia Udienza di Lecce, opera pubblicata a Lecce nel 1741 e proibita dal Sant'Uffizio l'anno dopo) ed affrontando pure l'insondata problematica del controllo sulla circolazione in loco dei libri manoscritti di magia; non senza, tuttavia, trascurare l'aspetto politico dei conflitti giurisdizionali accesi dalle pretese di applicazione degli Indici nel Regno di Napoli.
Le riflessioni del gallipolino Tommaso Briganti ben si inserivano, a questo punto, con le loro peculiarità, nel più generale dibattito culturale settecentesco sulle proibizioni dei libri, incentrato su discussioni relative tanto alle libertà di stampa e di circolazione dei testi, quanto, e soprattutto, sui limiti delle competenze, e che, specie nel mondo napoletano degli anni Sessanta (dunque, alla morte, ormai, dell'illustre gallipolino), si sarebbe caratterizzato per un'ottica giurisdizionale volta a sottrarre alla Chiesa il potere sul mondo dei libri. Il Briganti, nel "dolersi del diluvio di tanti libri legali", finiva per auspicare un ampliamento della censura, specie di quella statale, sui testi giuridici, certo dell'indispensabilità di un esame preventivo delle dottrine in essi contenute. Sull'esempio delle procedure e dei provvedimenti censori in atto sulla produzione libraria per le "cose della religione, e dello Stato" (come testimoniato dalla ricca normativa napoletana raccolta, fra il Cinque e il Settecento, sotto il titolo  De impressione librorum e De libris auctoritate Regia proscriptis), il giureconsulto gallipolino sollecitava così i sovrani, ma anche i pontefici, a "riprovar [...] quei libri, i quali non contengono, se non accozzamenti disordinati di dottrine allo spesso erronee".
In generale, l'azione ecclesiastica nel Regno, come pure gli interventi statali, motivata principalmente dalla presenza del libro clandestino specie nella capitale, si caratterizzò in un primo momento, da un lato, per un progressivo aumento della pressione sullo Stato, dall'altro, per i numerosi interventi e richieste di maggiori controlli e di normative più rigorose da parte delle sue autorità sia napoletane che romane. In generale, motivi delle condanne furono l'attacco alla gerarchia ecclesiastica, l'irrisione di cose e persone sacre, l'oscenità di alcune narrazioni, la spinta a legittimare comportamenti riprovevoli, l'eterodossia. In particolare, e riferendoci ai testi partenopei proibiti dalla Congregazione dell'Indice, si condannarono opere relative alla nota e cruciale questione della polemica beneficiaria, al problema degli immobili ecclesiastici e all'opposizione all'introduzione dell'Inquisizione a Napoli.
Solo con l'avvento dei Borbone, lo scontro tra Stato e Chiesa si spostò fondamentalmente dalla proibizione della singola opera al controllo sull'intero apparato editoriale del Regno, registrando, accanto a episodi di violento antagonismo, momenti di apparente intesa cordiale tra i due poteri (il riferimento è ovviamente al Concordato del 1741, il cui articolo VII su L'Introduzione de' libri forestieri, molto più limitato e generico rispetto alla reale portata del problema, stabiliva il controllo tanto regio quanto ecclesiastico sulla stampa prodotta nel Regno ovvero extra-regnicola).
Gli anni successivi avrebbero visto un certo "ammorbidimento" della censura romana nei confronti della produzione tipografica napoletana, che si può spiegare, in primo luogo, con la parziale convergenza di interessi tra Regno e curia nella persecuzione contro i "cattivi libri", con le effettive difficoltà di applicazione dell'Indice e con un certo lassismo delle autorità arcivescovili; in secondo luogo, si spiega con la moderazione di Benedetto XIV e le nuove regole stabilite dal pontefice in materia di libri proibiti, confluite poi nella bolla Sollicita ac provvida del 1753 e nell'Indice del 1758.
La morte di Benedetto XIV avrebbe tuttavia comportato un brusco "richiamo all'ordine", con un ritorno alle precedenti posizioni di rigore e con un nuovo ed inevitabile inasprimento dei rapporti tra Roma e Napoli. La stessa "guerra cartacea" tra Papato e Regno avrebbe così ripreso vigore soprattutto dai primi anni Settanta, anche nel quadro della polemica antigesuitica, registrando un maggiore incremento nel decennio 1780-90. Gli interdetti censori sarebbero caduti sugli scritti incentrati sull'interpretazione anticurialista del pensiero del Genovesi, sugli "sconfinamenti" della potestà ecclesiastica, sulle degenerazioni della costituzione ecclesiastica, sulla necessità di una limitazione nel numero dei conventi, fino a colpire, nel 1784, il più maturo lavoro della cultura settecentesca, La scienza della legislazione del Filangieri.
Proprio a partire dagli anni immediatamente successivi alla condanna del Filangieri, la stretta censoria della Curia romana si sarebbe tuttavia allentata per motivi non facili da stabilire, ma che molto probabilmente andrebbero anche ricercati, è stato scritto, "in una nuova tattica [...] che si sforzava di sostituire all'antica prassi della censura e dei divieti la ricerca di un'egemonia culturale in grado di coinvolgere attivamente il nuovo pubblico dei lettori" (E. Di Rienzo). Alla Chiesa, già da tempo consapevole circa la capacità della stampa di influenzare in modo complesso chi leggeva, risultava pertanto evidente che per favorire la sua azione di controllo sulle idee e sulle coscienze non era più sufficiente proibire, ma occorreva anche agire "in senso positivo", avvertendo sempre più vivamente l'esigenza di una certa propaganda cattolica.
Ritornando ora al piano della politica proibizionistica, negli ultimi due decenni del secolo XVIII, gli interventi censori della Chiesa, se non proprio rari, apparvero, dunque, maggiormente circostanziati e intenzionati a colpire solo le opere di polemica anticurialista, in particolare quelle maggiormente eversive dei diritti ecclesiastici e del potere spirituale.
Successivamente, escludendo gli anni della Repubblica romana (che avrebbero visto la brusca interruzione dell'attività della censura pontificia), le proibizioni dei testi napoletani sarebbero proseguite nel 1804, con la condanna di un'opera probabilmente dello stesso Conforti, per poi essere riprese nel primo periodo della Restaurazione borbonica ed oltre (si ricordi, nel 1834, la condanna tardiva delle Lettere dell'oritano e trasgressivo Francesco Milizia). Nel complesso, ai fini del nostro lavoro hanno fornito una chiave di lettura preziosa nello studio delle tecniche e delle strategie messe in atto dalla Chiesa per controllare la diffusione del prodotto a stampa.
In realtà, studi recenti hanno dimostrato come quel lento indebolimento della censura ecclesiastica, di cui si diceva, fosse dovuto, oltre che ai "ritardi [...] legati ai tempi di comunicazione tra centro e periferia e a procedure certamente farraginose" (P. Delpiano), soprattutto al parallelo rafforzamento della censura statale, oggetto, nel volume qui considerato, di un'indagine specifica, inquadrata nella più ampia problematica relativa all'intervento dello Stato sull'attività editoriale.
Solo un brevissimo accenno, per concludere, all'altro grande settore a cui la censura ecclesiastica, nel corso del Settecento (ma è un discorso estendibile all'intera età moderna), venne deputata: quello della difesa della "morale", di un sistema, cioè, di valori e di sensibilità alla base dei comportamenti della vita quotidiana. In questo caso, la sua azione - combinata con gli orientamenti del clero e i dettami della chiesa cattolica, ma urtante sempre con le prerogative statali - si rivolse, ad esempio, contro coloro che affiggevano libelli diffamatori o diffondevano canzoni satiriche, che rappresentavano o assistevano, non autorizzati, ad una commedia profana (in questo caso erano soprattutto ecclesiastici), che predicavano senza licenza (numerosi, al proposito, gli episodi registrati per la rappresentativa diocesi di Gallipoli).
In generale, comunque, le numerose vicende censorie esaminate nel volume inducono a riflettere sul grande sforzo attuato dalla Chiesa nella regolamentazione della vita dei fedeli, e delle letture, in particolare: uno sforzo, quest'ultimo, lento certo e dagli effetti apparentemente limitati, ma anche implacabile, che sul lungo periodo giunse a condannare intere tradizioni culturali, e quella dei Lumi in particolare. Poco convincenti e bisognose di ulteriori precisazioni sono ritenute, difatti, alcune considerazioni espresse, di recente, da certa storiografia tendente a minimizzare e a sottovalutare l'incidenza della repressione, desunta sulla base della scarsa rilevanza di documenti che l'attestino senza equivoco. E ciò dal momento che, spesso, molto più dei divieti dell'Indice o dei processi dell'Inquisizione, agirono sulla società e sulla cultura una serie di atteggiamenti determinati dalla notevole funzione preventiva o dissuasoria che ebbe la sola presenza di simili istituzioni censorie.
"L'abbondante e ordinata serie di dati di fatto e documentari presentati dall'autrice portano, così, a delineare un aspetto della vicenda di una società civile - quella del Mezzogiorno d'Italia, e della Terra d'Otranto in particolare - che non era quella francese o inglese del tempo, ma non mancava affatto di fermenti e di voci non solo vivi e vitali, ma anche più che apprezzabili nel panorama europeo, e specialmente italiano; una società che i poteri dell'epoca cercano di disciplinare e, comunque, di controllare, in una concezione e in una pratica del potere che sono certamente alquanto pervasive, pur se molto distanti da ciò che, in materia, si sarebbe visto un paio di secoli dopo. L'alta e bassa cultura, quella delle élites e delle avanguardie intellettuali e quella delle masse più legate alla tradizione, risentono ugualmente di questo sforzo di disciplinamento, che per forza di cose non può che tradursi fin troppo spesso, e fin troppo, in un'opera attiva di repressione, di coercizione punitiva e oppressiva" (dalla Prefazione).

Milena SABATO