I Cappuccini a Nardò

Terra d'Otranto? interminabili uliveti tinteggiati di macchia bruna, calda di sole. Ciuffi di timo smeraldo spezzano il rosso vivo delle zolle. Ogni tanto casolari bianchi, addossati sullo sfondo del mare. Furnieddhi solitari. Avanzi di remote cripte bizantine. Grotte sommerse, abitate da miti. Niente città. Solo paesi, porti, pietra viva, sabbia. Inerpicate torri costiere, muretti a secco corrono tra giochi di fichi d'India. Soggetti esclusivi di un mondo mediterraneo. La gente va e viene dai campi e porta in processione il santo per la pioggia, davanti il prete con la reliquia. I pastori dormono in mezzo ai pascoli, con il gregge. La mattina i lattai svegliano le vie con il campanaccio. Le vecchie, ferme sugli usci, porgono il tegame. Dentro le case la solita miseria, le pareti scure di fumo, le fave, il domani. Fuori il solito padrone della vita altrui. La solita passeggiata tra i filari, fitti di disgraziati. Quando la chiesa suona, frotte di donne, nere come formiche, percorrono i vicoli. Siedono tra gli scanni, balbettano qualcosa a metà tra il dialetto e il latino, parole che comunque significano preghiera. E' qui che nel 1532 compaiono per la prima volta i Cappuccini. Nati ad Albacina, nelle Marche, nel 1528, si spingono pian piano verso altri paesi. Prima Camerino, Montemelone, Fossombrone, Fano, Renacavata, Reggio, Roma, Napoli. Eremi persi sui dirupi rocciosi, irraggiungibili o notevolmente sollevati rispetto ai centri abitati. Poi giù per lo stivale, fino allo scorcio azzurro dello Jonio e dell'Adriatico, tra le cui onde si incastona liscio il Salento.  La loro prima orma su questo pianeggiante universo porta il numero di piede di un mitico frate, caposquadra indiscutibile di uno stuolo di Cappuccini venuti  ad incontrare le remote popolazioni dei nostri paesi, incidendo grandi significati sulla nostra pagina storico-religiosa: Tullio da Potenza (1539-1540). Tre anni di predicazione e basta. Nessuna panchina di sosta. Nessun frutto effettivo per il proprio Ordine a parte conversioni, formazione religiosa, revisioni di vita, messaggi che scavano un'uscita alla luce. Ma, in seguito, accade che dove mette piede si incrementa, attraverso di lui, la conoscenza dello stile di vita dei Cappuccini.  Il loro "dolce aver niente" fa venire voglia di crederci, di sperare. Presto, alcune autorità cittadine, spinte dalla voce popolare, manifestano la volontà di fondare un convento di frati Cappuccini nella propria città. Tra le nostre di Terra d'Otranto, in cima alla lista, c'è Lecce(1533), poi è la volta di Taranto (1534?), Laterza (1537), Grottaglie (1538) e Mesagne (1539). Fondati i primi conventi, nasce la Provincia cappuccina che abbraccerà anche i nostri paesi. Essa è chiamata Provincia di S. Girolamo e comprende Terra d'Otranto, Basilicata e Bari.  E' a tale Provincia che in questi anni, nella mappa dei Cappuccini, appartiene anche Nardò. Per chi non la conosce, essa è una scheggia di Salento molto antica e ancora trasparente. L'ideale è scoprirla nel suo raggomitolato centro storico dove i vicoli e i balconi di pietra disegnano scorci suggestivi, quasi irreali, e catapultano in un mondo feudale, tra merli e archi nascosti. Barocchi portali  e pittagi infiorati. Pileddhe tinte di gerani e scale consumate. Ogni tanto sbuca una chiesa, muta, chiusa come una casa in vendita. Poi? la solita scoperta, inimmaginabile: una croce contro il cielo e il piccolo campanile.E' lì, nelle domeniche affollate, che i neretini se lo ripetono in un mistico passaparola: verranno i Cappuccini, i nuovi frati già approdati a Rugge, Taranto, Mesagne. Le voci corrono dalla piazza ai campi. Verranno e sarà un altro miracolo. Ormai il popolo non aspetta altro, non vuole altro anche se in quanto ad Ordini religiosi  ha davvero poco di che lamentarsi, soprattutto in materia di Francescani.  E' il 1569. Nardò è uno dei tanti abissi del Salento dove la gente vive dei frutti della terra, uegghiu e granu. Tassello di un Regno detto di Napoli, ma che di napoletano ha soltanto il nome perché tutto il resto porta l'etichetta spagnola. A troneggiare sulla città infatti ci sono gli illustri duchi Acquaviva d'Aragona. Il popolo neretino ha voce nella vita della città attraverso il sindaco del popolo, ma è soprattutto  il ceto nobiliare ad avere un gran vocione in capitolo con il proprio sindaco dei nobili. Sono questi autorevoli cittadini che, per diritto, prendono parte alle scelte decisive per la popolazione  e che, insieme ad un governatore, costituiscono l'universitas, ossia l'organismo municipale dell'antica Nardò. Agricoltura e allevamento rappresentano i settori salva-vita. Insomma furisi e picurari direbbero i nostri nonni. Terra rossa e macchia mediterranea tutta da vivere. Chi lavora non è certo il proprietario terriero, ma i suoi impiegati delle zolle, li coloni, che zappano senza mai alzare lo sguardo. Molti contadini tra i solchi, molti nomi di nobili casati nella mappa storica neretina. Pezze e scialli fruscianti. Pelle arsa dal sole e cipria. In questa Nardò, spaccata in due, nella seconda metà del Cinquecento, arriva una frotta di frati.  Li scapuccini, così li chiamano. Una povera bisaccia, la sporta, e una lunga barba. Un saio ti pannu ecchiu, strazzatu, il crocifisso, le figurine dei santi e Lei, la Madonna. Il viso basso e il cappuccio lungo, aguzzo, sulle spalle. Nardò se li vede spuntare così, per le vie e per le vite. Fanno la spola ogni giorno tra il centro e la periferia, a piedi. Passano per la cerca. Prendono ciò che la generosità della gente offre.  In cambio "pace e bene" sussurrano, come una promessa. Il popolo li conosce già per sentito dire e perché sono già approdati in alcuni luoghi della Provincia d'Otranto. Infatti in questo momento storico, 1530-1570, i Cappuccini sono sulla cresta dell'onda e il fermento che essi stanno provocando nella Chiesa della Controriforma mette in subbuglio le universitas, accende di entusiasmo le speranze del popolo, interpella i signori locali, movimenta i vescovi che devono rilasciare consensi per i loro insediamenti. Il documento storico che certifica la venuta dei Cappuccini a Nardò è un atto notarile di straordinaria importanza. Esso è datato 6 agosto1569 ed è stato scritto dal notaio neretino Cornelio Tollemeto. Come una mappa sbiadita, ma autentica, esso ci aiuta a ripercorrere le tappe di una vicenda rimasta buia per secoli e ci svela tutti i passaggi riguardanti  l'insediamento dei frati con il cappuccio in territorio neretino. Il protagonista numero uno è il cuore del popolo che sogna di avere sotto il tetto della propria città i Cappuccini.  Ma i sogni del popolo, spesso, rimangono solo sogni se non arrivano agli orecchi dei potenti. Infatti è proprio lui, un illustrissimo signore, il duca Giovan Bernardino II Acquaviva d'Aragona (1559-1596), il gancio per l'arrivo dei Cappuccini a Nardò. Lui e il suo ardente desiderio di fondare detta religione dei Cappuccini nella sua città. Forse anche per beneficio della sua anima, vista la paura per la perdizione eterna che attanaglia le menti e i cuori in questi anni, forse anche l'ambizione per il prestigio del proprio casato o magari perché davvero dictam religionem Capuccinorum diversam est, comunque sia Giovan Bernardino non solo desidera anche lui i Cappuccini a Nardò, ma si dichiara perfino pronto a pagare l'affitto di un terreno per la costruzione del  loro convento. Del resto, i frati sono troppo poveri e troppo rigidi nell'osservanza della propria Regola per mettere su casa da soli. Intanto in città nessun luogo materiale già esistente è disponibile per accogliere una famiglia religiosa e tuttavia, i Cappuccini, con difficoltà accetterebbero una residenza fuori dai propri ideali di vita. Qualunque luogo, per quanto adattato alle loro nude esigenze e ritoccato negli elementi architettonici, risulterebbe lontano dal loro originale modo di intendere e concepire un convento. Così il duca, per la costruzione ex novo di un convento cappuccino a Nardò, punta l'occhio su un terreno di cui è proprietario il vescovo di Nardò Giovan Battista Acquaviva d'Aragona (1536- 1569), suo stretto parente. E' perfetto per l'occasione e risponde a tutti requisiti richiesti dai gusti cappuccini: esteso quanto basta per ricavare un orticello e delle funzionali officine ; a metà strada tra il centro e la periferia; situato nei pressi di una falda acquifera; abbastanza vicino alle case dei contadini e dei pastori; a due passi per assicurarsi la sopravvivenza, a due passi per far sopravvivere. Il duca è determinato ed esplicito: vuole che il vescovo gli affitti quei quattro orti (circa un ettaro) situati in Pheudo Imperiali, sulla strada pubblica che da Porta Vaccarella procede verso il mare e conduce fino a Gallipoli. Il prezzo è di quattro ducati di carlini d'argento da versare, ogni anno il 6 di agosto, nella cassa del vescovo a cominciare dal futuro 1570. Dopo la morte del duca i suoi successori avrebbero assolto a tale dovere in eterno, a favore dei Cappuccini. Si realizza così la concessio, ossia la prima tappa per la realizzazione del sogno cappuccino a Nardò.  La seconda parte è denominata donatio, proprio perché è una donazione che il duca fa, di tale bene terriero, ai Cappuccini. A riceverlo sono le mani del loro vicario Provinciale, padre Andrea da Laterza che, riconoscente e soddisfatto, raccomanda solo di stare attenti affinché l'edificio non offenda la povertà altissima, amata sposa di Francesco. Ogni passo è fatto secondo la tradizione cappuccina. Una processione e la posa della  prima pietra!  I frati piantano nei pressi del luogo dove sorgerà il convento  una croce, gesto che significa il "possesso" esclusivamente religioso del luogo, nient'altro, che i Cappuccini usano fare ovunque si insediano, come per dire "ce l'abbiamo fatta, siamo qui!" Il convento è costruito fuori le mura della città e rappresenta il primo insediamento fratesco e francescano spuntato alla periferia neretina. Il primo ad uscire fuori dagli schemi, dalle viuzze riparate. Lontano dal circolo chiuso dove batte la vita della città, con le abitazioni più raffinate, la piazza, le botteghe, il brulichio delle famiglie più illustri. Il primo mondo di cuzzetti  troppo poco elegante per essere una casa religiosa, piantato lì, dove c'è solo qualche caseddha sparsa, viali in terra battuta e le impronte dei fuori da tutto quel ben di Dio. Un sasso controcorrente dunque, ma soprattutto un approdo sicuro. Una presenza non immediatamente nella città (pensiamo ai Conventuali o agli Osservanti prima e ai Riformati poi), ma non eccessivamente lontano dalle sue mura (pensiamo al convento dell'Incoronata degli Agostiniani). Fuori, ma dentro. Incrocio. Sintesi fra l'urbano e il divino. Il complesso, tutto, è costruito con materiali poveri. Niente pietra leccese, solo tufi e legna. Il tetto ricoperto di coppi. Niente fregi di potenti famiglie neretine. Niente giochi rinascimentali. Nessuna vasta dimensione. Tutto è ridotto al minimo: esso è piuttosto piccolo come ogni altro convento di quell'Ordine, così raccontano i verbali. Ventisette cellette, nude e crude, disadorne. Dentro solo l'essenziale. Un pagliericcio, una croce, un tavolino, una lucerna. Il soffitto a botte e il pavimento in lastricato. Tutte corrono lungo quattro corridoi stretti, situate al piano superiore, e costituiscono il settore-dormitorio, intimo e riservato. Giù, al piano terra, c'è invece il settore più attivo del convento, con le officine, il refettorio, il forno, la cucina. Il tutto è circondato da un giardino o orto. Qui i frati sono più indaffarati: raccolgono, zappano, affastellano la legna, coltivano.  Cuore pulsante di questo insieme è il chiostro, piccolo, lindo come al solito, ben illuminato dal sole, con un pozzo al centro. Più in là, appartata, c'è la foresteria, una cella pronta per accogliere chi arriva stanco o è povero e affamato. Quindi un piccolo mondo cappuccino tutto in regola il convento di Nardò, compresa la librarìa (biblioteca). Infatti, pur piccolo e sobrio, il convento di Nardò è sede di noviziato e di studio per i giovani che desiderano diventare frati. Accanto al convento, i Cappuccini costruiscono la chiesa. La prima edificazione risale al 1569, ma ne seguirà un'altra dalle fondamenta, come ricorda l'epigrafe posta all'interno, nel 1653.  Nella cornice di un verde viale di querce sbuca quasi inaspettata, piccolissima et avuta dal popolo in molta venerazione. Una facciata ruvida, liscia, la presenta immediata, senza preamboli, sulla strada. Niente di lavorato, scolpito. Nessun abbellimento e, a voler essere sinceri, qualche amante dell'arte, girando l'angolo e trovandosela davanti, corre davvero il rischio di rimanere deluso. Ha, infatti, il difetto di far pensare a tutto tranne che a monumento religioso. Ogni elemento richiama quel filone artistico noto tra gli studiosi come "stile cappuccino". Due navate si dividono lo spazio interno, una centrale e una laterale minore. Una volta a spigoli e sei altari laterali scorrono tra il lato destro e quello sinistro. Anticamente essi erano così dedicati: Natività, San Lorenzo da Brindisi, Addolorata, San Felice da Cantalice, San Fedele da Sigmaringa, San Giuseppe da Leonessa.
 L'altare maggiore è invece noto per i colori delle tre tele che lo sovrastano. Una, centrale, che racconta il Perdono di Assisi (opera di frate Angelo da Copertino) e due laterali, minori, raffiguranti gli arcangeli Michele e Raffaele. Inconfondibile gioiello rimane il tabernacolo ligneo, espressione unica dell'amore di Francesco e dei Cappuccini verso l'Eucarestia. Costruito in legno di noce è diviso in tre piani sui quali scorrono piccole balaustre e poggiano colonnine a torciglione. E' inoltre corredato da 22 tavolette ad olio raffiguranti santi noti nell'Ordine francescano o amati in modo particolare dai Cappuccini.  I frati abitano il convento e la chiesa dal 1569 al 1866. Vivono in questi luoghi non da eremiti, ma come "frati del popolo", come ama chiamarli la gente.  Vivono giornate e strade. Aprono la porta di battere del proprio convento ai poveri della città, bussano alle porte della città per ricevere la questua. Vivono di elemosina e dispensano il pane che raccolgono nella bisaccia. Si scontrano con le gravi ingiustizie sociali del tempo e accanto al popolo trascorrono gioie e dolori, accendendo prospettive e comunicando la forza della fede. Basta pensare agli eventi che li coinvolsero durante la burrascosa tirannia del Guercio di Puglia. Come non  ricordare quando p. Giuseppe da Galatone, armato di coraggio, va ad incontrare il conte di Conversanosuggerendogli di essere più giusto e meno duro con il popolo? E' il 1647. Che brutti tempi per Nardò! Come dimenticare i Cappuccini "illustri" vissuti nel convento di Nardo? Padre Tommaso da Lecce (1575), frate Pietro da Martina Franca(1595), padre Giacomo da Castellaneta(1596), frate Egidio da Laterza(1614), padre Cipriano da Monteroni (1630)?  E tanti brillati come stelle nel cielo neretino? Sono loro che riescono ad operare "miracoli" a Nardò, dentro la storia del popolo, dentro le pieghe di un'esistenza dove mancano le risposte, nel nulla ti li purieddhi, dove manca il pane e la famiglia è numerosa. Dove il sole sorge e tramonta in mezzo ai campi degli altri per poter portare a casa un sacco di grano. Forse, a Nardò, con i piedi dei Cappuccini, Francesco fa davvero il cammino sperato, sognato, inverso: dal convento alla città, da me a te, da noi a loro, ti li monaci alli cristiani?finalmente! Eppure? , c'è da non crederci, ciò che i Cappuccini costruiscono, pietra dopo pietra, in terra neretina, è cancellato con un colpo di spugna. Secoli di presenza e pagine di storia crollano e scompaiono in un baleno. E' il 1959. I frati mancano da Nardò dal 1866, anno in cui a causa delle leggi di Soppressione hanno dovuto abbandonare la città. Ma lì, testimone silenzioso del loro passaggio, c'è ancora il convento. E' come un diario in muratura. Sulle sue pareti è scritta la storia e le sue pietre raccontano i giorni dei Cappuccini a Nardò. E' disabitato, ma parla, da solo. La gente passa, lo vede e ascolta. Solo la giunta comunale dell'epoca è sorda perché assordata dai propri interessi. Accetta così la richiesta del vescovo Corrado Ursi  di poter demolire il convento per costruire un nuovo Seminario diocesano. Accetta e decreta la distruzione di quel luogo, unico e insostituibile documento che un gruppo di frati, rappezzati e veri, scrisse per noi. Inoltre, ironia della sorte, il suolo rimasto libero con la demolizione del convento cappuccino non è stato mai occupato ( il seminario è sorto molto più in là) e ancora oggi lì vegeta un agrumeto.  Per impegno di un duca e di un vescovo, in collaborazione con il popolo, in pieno Cinquecento, quel convento era apparso alla periferia di Nardò come crudo emblema di un ritorno alle origini francescane. Per volontà di un'amministrazione comunale e di un vescovo, in pieno Novecento, quel convento scompare per sempre dal territorio neretino di tutti i secoli. "Se mi chiedessero con chi ho camminato, io risponderei  senza ombra di dubbio: con i giganti!"  Mi è rimasta negli occhi questa frase. E' comparsa sullo schermo buio, dopo i titoli di coda, al cinema.  Avevo visto un film lungo circa tre ore. Di tutta la storia, in un secondo, mi portavo a casa quel rigo solo. Ho lavorato sulla presenza dei Cappuccini a Nardò per lunghi anni. Prima la mia tesi di laurea, poi la pubblicazione. Ho girato, insieme al mio parroco, per i conventi da loro abitati nella Provincia d'Otranto, raccolto materiale fotografico.  Ne ho conosciuti tanti di persona e tanti altri leggendo svariati documenti.  Non è stato un film. I Cappuccini sono stati per me  i giganti  con cui ho camminato.Sul grande schermo della Storia ho avuto la fortuna di vedere le loro piccole storie, vere, antiche e coraggiose. Mi sono servite tutte per conoscere meglio la realtà in cui vivo e per poter ereditare più degnamente la memoria della mia città, Nardò. Mi hanno svelato un segreto. Quale?Forse non ci abbiamo mai pensato: ci sono "giganti" che hanno camminato con noi, che hanno percorso le strade che noi percorriamo oggi. Uomini giganti per le orme che hanno lasciato, per la scia tracciata semplicemente vivendo, profondamente vivendo. A me, per fortuna, è capitato di scorgere una di queste impronte proprio nella mia città, a due passi da casa, per farla breve, tra le mura della mia parrocchia. Ed è stata una scoperta di straordinaria bellezza e ricchezza per me!

Rosi FRACELLA