Illustrazione sugli stemmi di Vicenzo Dolce

Appresso all’accennato scudo evvi quello di

BONIFAZIO VENNERI
Antichissima ben anche fu la famiglia Venneri, che Camaldari annovera fra quelle quì esistenti nel secolo 13° e legata in nobili parentele co’ Signori Palmieri, e co’ Signori d’Ospina, i quali poscia furono eredi della medesima. Potente e ricca era la Casa Venneri. Abitava in un sontuoso palazzo costruito con solidissime mura a somiglianza di Castello, in dove, come la tradizione popolare ci fa noto, vi erano de’ trabocchetti destinati per vittime da sagrificarsi al suo orgoglio. Ma chi mai potrà confirmare siffatte voci? Vero è d’altronde, che quando il palazzo passò in altre mani non si videro ombre di trabocchetti. Forse il volgo prestava fede a tali cose, perché talvolta qualche signore di questo casato avrà impunemente fatto prendere a colpi di scudiscio chi non abbia usato ver lui buone maniere, e la debita creanza.
Molti Sindaci ebbe la Città da questa famiglia: Bonifacio nel 1523, Niccolò nel 1531, Paolo nel 1556 e 1559, altro Bonifacio nel 1600, 1611, 1618, Giovanni nel 1632, Giuseppe nel 1648, 1665, 1676. Altro Bonifacio nel 1662, Giacomo nel 1692, Andrea nel 1698, Agostino nel 1711, Giuseppe nel 1723, Onofrio nel 1736. Altro Giuseppe in fine del 1757. Doviziosi in beni urbani e rustici i Venneri vivevano nell’età loro in agiatezza assai rimarchevole. Ora non sono più.
Guai in quei tempi, se qualche persona volgare osasse oltraggiare anche lievemente uno de’ signori della Città, pagherebbe a caro prezzo il fio del suo ardimento. La plebe dunque temeva i gentiluomini, da’ quali poteva ricevere e molti beneficii, e molti danni. Manda Onofrio Venneri un servo al macellaio per compra di carni, l’acquista e non piacciono, son ritornate: ne prende altre e neppur piacciono e son respinte. Allora il macellaio risponde “non ho altre carni, mangi del fimo il tuo padrone”. Si riferisce la risposta.  Il Signore tace e finge. Passano giorni e mesi, e sembra tutto andato nell’obblio, quando un giorno Onofrio chiama il macellaio. Egli và, è condotto in una stanza terrena, preso e gettato entro una grossa botte ripiena di fimo liquido, e puzzolente. Il meschino cercava uscirne, ma un ferro minacciava di fracassargli il cranio, ed è giuocoforza tuffarvisi parecchie volte. Era barbarie? Avean dritto quei nobili a farsi rispettare in cotal modo dalla plebe? Noi non intediamo rispondere a tali inchieste. Solo, aggiungiamo che quando vi sono buone leggi, e magistrati incorruttibili da farle eseguire e rispettare non v’è d’uopo ricorrere alle vie di fatto. Intanto non garentiamo la veracità del racconto perché non scritto, ma tramandatoci oralmente da’ vecchi gallipolini siccome antica tradizione del volgo.
Ebbe la famiglia Venneri impresso nel suo stemma in campo azzurro la lettera “T” simboleggiante essere ella originaria di Tebe d’Egitto. Veggasi il saggio sulla Croce del nostro concittadino Giambattista de Tomasi, della cui famiglia in seguito parleremo.
Dopo di questo scudo presentasi quello di

ANTONELLO ZACHEO
Occupò del pari un posto distinto in questa Città la famiglia Zacheo sì per l’antichità del suo nascimento, sì per le parentele ragguardevoli da lei contratte; e perché pertinente al patriziato sostenne le primarie cariche comunali. Difatti ella vedesi congiunta in parentado con le più nobili famiglie, che quì hanno esistito, e cioè co’ Rodogaleta, Gorgoni, Stradiotti, Coppola, Sansonetti, Mangalabeta, Vasquez d’Acugna, Pirelli, Calò, Specolizzi, Aragona, Muzi, Doxi Stracca, e con altre. Dal suo albero genealogico rileviamo, che il ceppo ne fu Marcello dottore in medicina, laureato nella famosa Università di Padova, celebratissimo in tale Facoltà. Il primo, che appare fra’ stemmi sindacali nel 1524 è Antonello anche medico di rinomanza nella medesima Università addottorato; quindi Bartolomeo nel 1543, Nunzio nel 1560, Francesco Silvio nel 1570 e 1596, altro Bartolomeo nel 1603, Lucio nel 1623, altro Silvio nel 1668, 1680, 1700, Luca nel 1733, Francesco nel 1752, e finalmente altro Luca genitore dell’attuale D.Ferdinando nel 1818, 1819, 1820. Quindi si conosce che per tre secoli tal casato somministrò Sindaci alla Città.
Cristofaro Zacheo fu Domenicano, Giuseppe e Giovanni furono Arcidiaconi di questa Chiesa Cattedrale. In una iscrizione lapidaria del 1522, che or più non esiste, posta all’Altar Maggiore della Chiesa della Lizza leggevasi il nome di Niccolò Zacheo, e nel magnifico Ostensorio di argento, or tramutato da fu Vescovo Giove, contenente la reliquia di Sant’Agata, leggevasi pure: Syndico D.Silvio Zacheo Patricio. Finalmente questa famiglia gode il diritto di sepolture nella Chiesa del Monastero di Santa Teresa di Gallipoli, il che ad altri non è concesso.
Il suo scudo presenta in campo celeste un albero con un Leone rampante di oro, e che tiene fra gli artigli una spada. Esso simboleggia, come troviamo in una memoria manoscritta, quel Pubblicano a nome Zacheo, che alloggiò in sua Casa il Redentore, e che per vieppiù mirarlo ascese su di un albero quando passava. Il Leone poi con la spada dinota la forza della fede in Gesù, la quale è pronta a combattere contro gli avversari.
In seguito di questo scudo appare quello di

CARLO ANTONIO RUSSO
Annnoverasi fra le famiglie antiche e patrizie di Gallipoli parimenti quella di Carlo Antonio Russo, o Rossi. Il Camaldari menziona due sarcerdoti di rito latino in questa Chiesa a nome Francesco e Bartolomeo appartenenti a questo casato, che Lumaga altresì pone nel suo elenco. Gio: Giacomo anche fu sacerdote , e visse nel secolo 16° occupando dignità nel Capitolo, e addivenendo Vicario di un Vescovo: scrisse la “Gallipoli sacra”, e la “Nave d’Idomeneo”, opere non più esistenti, la “Topografia di Gallipoli”, di cui vi era un solo libro, ed il “Teatro de’ Vescovi”. Ebbe questa questa famiglia tre personaggi che furono Sindaci, cioè Carlo Antonio nel 1527, il dottor Luca nel 1609, 1619, e Fausto Oliviero nel 1532, il quale nell’anno 1514 fu spedito dall’Università in Napoli per reclamare contra i soldati di Carlo V stanzianti di guarnigione nel castello, e che molte sevizie arrecavano alla quieta cittadinanza. Partenio Russo fu Governatore nel 1668, ed il maestro di Campo Filippo Russo lo fu nel 1690.
Or questa famiglia totalmente è spenta. Il suo stemma dividevasi in due parti. La superiore era di colore celeste, la inferiore coverta da fiamme, che si elevano vorticose e di color sanguigno. Il primo simboleggiava la religione, di cui erano campioni i sacerdoti di quel casato; il secondo simboleggiava un colore desunto dal cognome del casato medesimo.
Indi appere lo scudo di

CESARE ARCANA’
E chi mai potrà dar contezza dell’antichissima famiglia Arcanà greca di origine, da secoli estinta, e della quale veruna memoria troviamo scritta? Che sia patrizia non può dubitarsi, perché ha dato Sindaci alla Città. Solo rinveniamo farsi menzione di lei nella visita locale di Monsignor Montoya, chè, quando la nostra Chiesa della Vergine del Canneto dall’Abbazia di S.Leonardo fu concessa ad una confraternita, in nome della stessa ne prese il possesso il Magnifico Cesare Arcanà(1).
Due Sindaci abbiamo di questo Casato, cioè Cesare nel 1530 e Giacomo nel 1541. Lo stemma ci presenta in campo celeste un Arca, simbolo desunto dal cognome di famiglia, e sull’arca posata una colomba nera dinotante qualche sventura, cui la famiglia medesima avrà soggiaciuto.
Quindi appare il nome di

GALEOTTO VIVALDI
Erasi reso molto possente nell’epoca, in cui ci troviamo Solimano Imperatore de’ Turchi, formidabili di lui nemici erano i Cavalieri Gerosolomitani, che con le galee uscendo da Rodi, ove si erano fortificati, infestavano, e guerreggiavano gli adoratori del falso Profeta. Ma Solimano non era nemico da passarsela neghittoso. Assediò Rodi, e dopo molti sforzi e prodigi di valore i Cavalieri dovettero finalmente abbandonarla. La flotta gerosolimitana si diresse verso Messina, ma i venti contrarii, la stanchezza, e le malattie dal lunghissimo viaggio prodotte, costrinsero il Gran Maestro Filippo di Villiers a cercar riparo e ristoro nella nostra Gallipoli. Ciò avvenne nel 1523 essendo Sindaco Bonifacio Venneri, della cui famiglia abbiamo parlato. Quali state fossero le accoglienze, i trattamenti, e le cortesie prodigate da’ nostri a que’ prodi e nobili campioni del cristianesimo quì non è d’uopo ridirlo, perché gli storici molto ne han parlato, e solo basta osservare, che quell’Ordine avrebbe desiderato avere Gallipoli per novella sede, ma l’augusto Carlo gli destinò l’isola di Malta.
Galeotto Vivaldi impiegava allora le sue cure a sollievo degli infermi della flotta gerosolimitana, e molto affezionossi con que’ Cavalieri verso cui si distingueva per gentilezza e cortesia di modi. Non guari dopo Gallipoli trovossi implicata in nuove guerre per le dissensioni tra Carlo V, e Francesco 1° Re di Francia, e poscia il Signor di Valdimonte asserendo essere in lui trafuse le ragioni di Renato d’Angiò su questo Reame, spedì con 30 mila fanti, e 5 mila cavalli il famoso Generale Lautrec, che lo invase. Gallipoli mentre tutto il Regno era in poter del nemico, meno la Capitale, osa resistere a quest’altra tremenda invasione, chiude la sua porta, e si accinge alla difesa, non paventando giusta il solito carestia, fame, e arsioni. Alfonso Castriota Duca della Tripalda è a capo de’ difensori, e tenendo al suo fianco Galeotto Vivaldi co’ Gallipolini opera prodigii di valore. Nel 13 luglio 1523 le schiere nostrane incontrano un corpo considerevole di Francesi(2), che quì appressavansi dalla via di Parabita. Si combattè aspramente nel territorio di quel luogo chiamato Pergolaci, ove in memoria del fatto si eresse una chiesuola. Dopo ostinata pugna restano sconfitti i Francesi, posti in fuga, ed inseguiti con la spada alle reni fin sotto le mura di Parabita luogo di loro stazione. Combatteva Vivaldi da eroe atterrendo e ferendo nemici, ed acquistossi nome di strenuo soldato, e di magnanimo Cittadino. Gallipoli lo amò, e lo elesse a suo Sindaco nel 1533. Ma Vivaldi più non comparisce. Il suo scudo non ha blasone. La sua famiglia non più mentovata in alcuna memoria. Forse ella si spense nella persona di Galeotto? Forse abbandonò la patria, e si condusse sotto altro cielo?
Indi si presenta lo scudo di

GIO: SOLERIO MAZZUCI
Fra le famiglie distinte ed antiche di Gallipoli deve annoverarsi anche quella di Gio:Solerio Mazzuci tanto per cariche dignotose sostenute, quanto per nobili parentele contratte. Camaldari lo colloca fra quelle quì esistenti nel secolo 13°, ed il primo che comparisce fra gli stemmi di Sindaco è il mentovato Gio:Solerio, che ne occupò la carica nel 1535.
Ritroviamo, che Francesco Salvadore Mazzuci nel 1497 fu appellato nobile ed egregio in un diploma del Re Federico(3), e che Benedetto nel 1528 fu spedito qual Castellano in Parabita per riscuotere l’annuo tributo di ducati 300, cui quella terra era stata sottomessa a soddisfare alla nostra Città a causa della guerra contro i Francesi(4). Or questa famiglia si è spenta e non ha guari nella persona di Benedetto che lasciò i suoi beni alla famiglia Coppola. Gio:Solerio, oltre del 1535 fu Sindaco ancora negli anni 1537, 1539, Marcello nel 1614, 1629, Benedetto nel 1671, 1682, Francesco nel 1674, Andrea nel 1679, Gaspare nel 1703, Baldassarre nel 1756, 1768, 1775, Leonardo nel 1808, e finalmente l’ultimo a nome Benedetto, in cui si estinse, come si disse, la famiglia, nel 1827, 1828, 1829.
I Mazzuci eran congiunti in parentela con Sermagistri, Gorgoni, Rocci, Valdiravano, Patitari, Specolizzi, Venneri, Sergio, Mezio di Galatina, Coppola, e con altre. Fra essi troviamo Roberto Mazzuci dottore in ambo le leggi, che scrisse un opera intitolata “Speculum Episcoporum”, ed un'altra avente per titolo Battaglia giuridica contro Portogallo ribellato in servizio di S.M. Cattolica, e dedicata al Vicerè di Napoli. Fiorì anche Francesco Mazzuci medico di rinomanza e filosofo, e finalmente Fra Giovan Battista, che fu Domenicano, padre Maestro, esimio predicatore, e di memoria portentosa.
Lo stemma del casato dipinto nella sala comunale, e quello scolpito nell’altare della Cappella gentilizia sistente nella Chiesa di questi Reverendi padri di S.Domenico, rappresenta in campo celeste un braccio sinistro da destra a manca fortemente teso, avente stretto in mano un bastone, sul cui manico stava un mazzolino di fiori. Forse i suoi antenati avranno sostenuto il giudizio di Dio, ed i fiori chiaramente simboleggiano esserne riusciti vincitori.
Si legge in seguito il nome di

GABRIELE NANNI
Fu Sindaco nel 1536 Gabriele Nanni. Il suo stemma non ha blasone. La sua famiglia non più esiste, e nelle memorie che conserviamo non troviamo altri menzionato se non se Tommaso Nanni qual sacerdore ed abbate di S.Mauro. Certo è non per tanto che nobile e distinta era questa famiglia pertinente al ceto de’ patrizii, altrimenti Gabriele non sarebbe asceso al Sindacato. Errano coloro adunque che suppongono esser Nanni un negoziante. I nobili di quel tempo credevano macchiarsi lo splendor del casato coll’esercizio della mercatura, né il Sindaco potea estrarsi dalla classe de’ mercanti. Se Papadia asserì, che nel 1533 l’Università di Aradeo era debitrice a Gabriele Nanni di Gallipoli in staja 3168 olio, non dee da ciò dedursi, che fosse tale oprato effetto di commercio, ma piuttosto di vendita del prodotto oleario de’ predii rustici, che la Casa Nanni in gran copia possedeva, e che anche oggidì nel nostro territorio appellansi poderi Nanni.
Personaggio ragguardevole era il mentovato Gabriele. Quando nel 1536 si tenne in Napoli un general Parlamento, ove intervennero i Baroni del Regno ed i Sindaci delle Città Demaniali, quivi il nostro Nanni occupò il suo posto, recando poscia in Gallipoli la ratifica de’ privilegi dell’Università; e quando nel successivo anno 1537 accadde un fiero combattimento fra le truppe stanzianti nel Castello, comandate dal Castellano Pietro de Silva(5), ed i cittadini per i continuati soprusi, e per l’esorbitanze di quelli, Gabriele Nanni ed il Sindaco Gio:Solerio Mazzuci comparsi in mezzo al tumulto, spiegando l’energia della loro autorità, placarono gli sdegni e le ire, e ridonarono la calma, e la perduta tranquillità.
Si osserva poscia lo scudo di

GIROLAMO PIRELLI
Lo stemma del casato Pirelli ci presenta un albero di pero allusivo al suo cognome, com’era solito dalle più nobili famiglie praticarsi.
Difatti i Colonna teneano inquartata una colonna, gli Orsini un orso, i Canossi un cane coll’osso in bocca, i del Carretto una carretta. I Pirelli adunque v’inquartarono in campo azzurro un albero di pero, e due Leoni rampanti per i due Feudi, che possedevano in Neviano e Torrepaduli col titolo di Baroni.
Ragguardevole era la famiglia Pirelli. Dall’Aquila passò in Taranto co’ de Balzo, e da Taranto stabilissi in Gallipoli con Lupo Pirelli verso il 1416. Contrasse ella qui nobili parentele, cioè con Crisigiovanni, Specolizzi, Assanti, Zacheo, Balsamo de’ Baroni di Cardigliano, Gorgoni, Munittola, Sansonetto, Venneri, Muzi, Capece de’ Baroni di Barbarano, Patitari, Rocci, d’Ospina, Pantaleo, e con altri. Per molti anni diè Sindaci alla Città. Girolamo il primo fu nel 1538, Fabrizio nel 1577, Abbatizio nel 1594, Cosimo nel 1602, Giulio nel 1604, Vincenzo nel 1608, 1621, Francesco nel 1631, Carlo nel 1649, Andrea nel 1653, Giuseppe nel 1659, Giovan Battista nel 1661, Francesco nel 1678, Antonio nel 1699, 1724, e finalmente nel 1804 e 1805 Pasquale, nella cui persona questa prosapia si estinse.
Nella Chiesa Cattedrale l’altare di Sant’Andrea col sepolcro era di Pirelli, e in quello del Sagramento uno de’ due sepolcri anche a Pirelli si apparteneva. Ora è di Balsamo, come risulta dall’iscrizione sulla lapide di marmo; e finalmente è da rimarcarsi, che i proventi della Bagliva di Gallipoli furono concessi in feudo alla famiglia Pirelli.
Accadde nell’anno susseguente a quello, in cui ci troviamo, che il Vicerè Pietro di Toledo bandisse dal Regno gli Ebrei. Essi anche da varii secoli dimoravano in Gallipoli. Quel popolo maledetto dal Signore, profugo e ramingo sulla faccia della terra, quando credeva di aver già fissato sua stanza in qualche regione, miseramente venivane espulso. E pure gli Ebrei, unici in quel tempo sul ramo commercio, arrecavano vantaggi alla società colla creazione delle Banche commerciali, e delle tratte, che diffondevao ovunque la moneta, quando i popoli erano tra se disgiunti e per difficoltà di transiti, e per malsicurezza delle vie. Le calamità che ad un popolo potevano sopraggiungere per pestilenze, tremuoti, o guerre, riversavansi sugli Ebrei, che n’erano accagionati autori; quindi le spoliazioni, gli esilii, e le confische. Invano i Pontefici ne inculcavano la tolleranza per amore dell’umanità. Grazie finalmente all’odierno incivilimento gli Ebrei si tollerano e vivono tranquilli nell’esercizio di lor faciende. Giunti gli ordini del Vicerè sgombrarono, e forse con dispiacere de’ Cittadini(6), i quali fin da quel tempo prevedevano, che lo spirito vitale di questa Città poggiava sul commercio, senza di cui oggidì dorebbe abitarsi o da grandi signori, e ricchi proprietari, o da soli pescatori.
E’ voce che la famiglia Pirelli, inclinata al commercio, avesse ottenuto dal Re un Diploma, che autorizzavala, senza ledere la sua nobiltà, a poterlo esercitare per mezzo di procura, e che perciò Girolamo Pirelli abbia vigilato che nello sgombero gli Ebrei avesser salvi onore e beni.
Indi vedesi lo stemma di

GIOVANNI ANTONIO ROCCI
L’antichissima famiglia Rocci era originaria di Spagna, come da vetuste memorie rileviamo. Essa tuttavia esiste. Quando Gallipoli capitolò col Gran Capitano Consalvo, Sancio Roccio ne era il Castellano. Indi ricomparisce egli Castellano in Lecce, e da un sovrano diploma si scerne, che durante la vita del Rocci e non più oltre, dovesse mantenersi la Castellania in quella Città. Da un altro diploma poi del Gran Capitano, Sancio viene appellato nobile ed egregio, e quindi per lui e suoi discendenti s’impartisce un annuo assegnamento di ducati cento cinquanta.
Sancio ebbe tre figli Pietro, Domenico e Rajmo. I discendenti di ciascun di costoro formarono tre linee di tre distinte e ragguardevoli famiglie.
Dal primogenito Pietro derivano gli attuali signori Rocci di Gallipoli, cioè D.Diego ed i figli di costui, e D.Sancio. Dal secondigenito Domenico discendono le attuali D.Luigia e D. M.a Adelaide figlie del Cavaliere Gerosolimitano Teodoro, come il sacerdote pur anche D.Edoardo figlio dell’or defunto Emanuele altro fratello quest’ultimo delle medesime. Dal terzogenito Rajmo discese un’altra prosapia, che si estinse nella persona di Giovanni verso l’anno 1600.
Questa famiglia ha dato molti Sindaci alla Città, cioè Giovanni Antonio nel 1544, 1547. Sancio nel 1571, Ottavio nel 1581. Lo stesso Sancio nel 1582, Giovanni nel 1589, lo stesso Ottavio nel 1590, Aspramonte nel 1597, Antonello nel 1607, Giacomo Antonio nel 1622, Francesco nel 1634, Diego nel 1649, Carlo nel 1650, 1657,1658,1667, Giuseppe nel 1672, 1686. Sancio nel 1677, 1681, 1695, Giacomo Antonio nel 1690, Errico nel 1707, Francesco nel 1710, 1713, Errico nel 1725, altro Sancio nel 1737, 1746, un altro Sancio nel 1763, 1773, 1780, Teodoro nel 1788, e Carlo finalmente nel 1809.
Dicesi che il cognome preciso del casato fosse Cerasoli, e che Sancio ceppo dello stesso avendo bionda e tendente al rosso la capigliatura fosse soprannomato rocos, ossia rosso, e poscia Roccio, e che perciò esso conserva attualmente il cognome di Rocci Cerasoli.
Nobili furono le parentele, che i tre rami di Roccio contrassero, e cioè con Musurù, Castriota Venneri, d’Ospina, Vaquez d’Acugna, Camaldari, Pirelli, Briganti, Sergio, Rajmondi, Bustamanti Guevara, Indelli di Monopoli, Ferraioli, Scaglione, Specolizzi, Abbatizio, Mazzuci, Patitari, Castiglione, Coppola, Silos di Bitonto, Assanti, Ammirato di Lecce, Pedaci Baroni di Torchiarolo, Nanni, Cuti, Vanaliste, Bozzicorso di Lecce, ed altri. Che sempre abbia occupato cariche distinte vuoi in rami civili, vuoi in rami ecclesiastici, e militari non v’è luogo a dubitarne, avvegnacchè, oltre gli accennati Sindaci col Castellano Sancio, furonvi Carlo Capitan di milizia, un Antonio guardia del Corpo, un Decio Decano di questa Cattadrale e vicario Capitolare dopo la morte del Vescovo Capece, cioè dal dicembre 1620 al giugno 1622, Stefano canonico della stessa, Teodoro Cavaliere dell’Ordine di Gerusalemme, Scipione Capitan di Fanti, ed altri. Quando nel 1571 Giovanni d’Austria con la flotta coalizzata di varii Principi italiani sconfisse i Turchi a Lepanto, e reduce con la bandiera vincitrice entrò nel porto di Gallipoli, somma gloria ritrasse il Sindaco Sancio Roccio per aver prodigato a quel Duce valoroso tutte le cortesie che mai immaginar si possano.
Ha per stemma la famiglia Rocci Cerasoli in campo celeste un albero di cerasa allusivo all’antico suo cognome Cerasoli, e quattro inziali intorno allo stesso per arma parlante, cioè M.S.V.L. che spiegano “Modeste sumpta viscerit linpha (la modestia la rese illustre).

Vitantonio VINCI