Famiglia, donna e matrimonio a Gallipoli nell'Ottocento

Gli studi sulla famiglia continuano oggi ad essere al centro di un interessante dibattito storiografico, incentrato sia sulla tipologia delle fonti da utilizzare per la ricostruzione in sede storica delle strutture e dei rapporti familiari; sia sulle problematiche legate all’individuazione dei complessi meccanismi regolanti la successione dei beni per via testamentaria e gli scambi matrimoniali fondati sui regimi e le pratiche dotali. Una riflessione preliminare sull’adeguatezza e sul significato dei diversi indirizzi di ricerca parte certamente da un’analisi del duplice approccio allo studio della famiglia europea ed italiana: da un lato, quello quantitativo (demographic approach), che si basa su fonti che permettono di ottenere dati seriali, di carattere laico (catasti, atti rogati da notai) e di carattere ecclesiastico (registri parrocchiali, stati delle anime); dall'altro, quello qualitativo (sentimental approach), che considera fonti e documentazioni narrative, trattatistiche, epistolari, regolative, ecc., indispensabili per un esame del mondo morale e dei piani esistenziali implicati dalla storia di quest’istituto. Entrambi rappresentano una delle principali tradizioni della scienza sociale e recano un contributo autonomo e significativo alla comprensione delle vicende familiari nel passato.
In questa prospettiva problematica e metodologica, prendendo le distanze dagli storici della famiglia europea (e, più specificamente, anglosassone, con riferimento d’obbligo per i saggi pioneristici di Peter Laslett e Lawrence Stone, i quali hanno privilegiato le fonti letterarie), la storiografia italiana ha sinora fatto largo ricorso alla documentazione demografica, socio-economica e notarile (nella fattispecie, testamenti, carte dotali, capitoli matrimoniali, tavole nuziali). In tal senso, le ricerche di Gérard Delille, a partire dagli anni Settanta del Novecento, hanno impresso una svolta radicale agli studi di storia della famiglia nel Mezzogiorno d’Italia, rivelandone la realtà insieme demografica, patrimoniale e sociale; e ciò attraverso la ricostruzione dei modi della trasmissione ereditaria dei patrimoni, della dotazione delle donne e delle differenti abitudini di ogni aggregato familiare nell’ambito degli scambi matrimoniali. Ulteriori contributi in tale direzione sono stati presentati da Maria Antonietta Visceglia, che, attraverso l’ausilio di testamenti, contratti matrimoniali, rendite, processi e memorie, ha rappresentato “le intenzionalità e i meccanismi della pratica successoria e delle scelte matrimoniali” nell’ambito di una ristretta cerchia sociale. Né bisogna trascurare l’opera di Giovanna Da Molin, che ha offerto ricerche di stampo demografico, rivolte alla conoscenza delle famiglie delle zone agricole meridionali. Ma è soprattutto dai fondamentali lavori di Giuseppe Galasso che è emersa una nuova identità della famiglia meridionale, dal “carattere complesso e dinamico […] un carattere troppo spesso dimenticato o negato nella lunga tradizione storiografica che attribuiva al Mezzogiorno immobilità secolare di condizioni generali e particolari […]”.
Questi e molti altri studi hanno costituito, qualche anno fa, il punto di partenza della ricerca di chi scrive (edita in “Risorgimento e Mezzogiorno”, Rassegna di Studi Storici, Istituto per la storia del Risorgimento, Comitato di Bari, XII, 2001, n. 1-2, pp. 113-129), finalizzata alla ricostruzione delle strategie successorie e dei regimi dotali attraverso l’analisi di fonti notarili (testamenti, carte dotali, capitoli matrimoniali e tavole nuziali) relative alla città di Gallipoli nel periodo 1800-1870. Una documentazione, questa, che si rivela insostituibile nella riflessione sul comportamento umano in tutti i gruppi sociali e in varie situazioni, sia pubbliche che domestiche, consentendo di far rivivere il ciclo dell’esistenza di singoli individui e di gruppi domestici. In particolare, testamenti e contratti matrimoniali sono un’importante fonte per conoscere informazioni particolareggiate sull’aggregato familiare, perché i primi costituiscono il mezzo per individuare le modalità di trasmissione del patrimonio, la composizione della famiglia e le relazioni con i suoi componenti; i secondi, attraverso l’assegnazione della dote e le sue forme di pagamento, permettono di ottenere notizie sui rapporti esistenti tra le diverse famiglie e la condizione della donna all’interno delle stesse. Le due categorie di atti, considerate nel complesso, permettono di avere un quadro generale sulle strategie adottate dai componenti di una famiglia per conservare, aumentare e trasmettere nel tempo il proprio patrimonio. Anche lo stesso Delille concorda, affermando che “i contratti matrimoniali e i testamenti sono come i miti: si parlano e si rispondono a vicenda; l’importante è ritrovare, capire, analizzare questo dialogo”.
L’esame dei documenti notarili rogati a Gallipoli nel periodo 1800-1870 ha evidenziato una struttura familiare caratterizzata da un aggregato domestico esteso, composto cioè da padre, madre, figli, discendenti ed ascendenti, i quali, pur non dividendo sempre la stessa abitazione, si ritrovano e attuano un sistema di aiuto e collaborazione reciproci. Sono proprio tali forme di organizzazione domestica che traspaiono dai capitoli matrimoniali, quando ai futuri sposi viene assegnata una “stanza inferiore”, oppure si stabilisce l’obbligo della convivenza con i genitori per usufruire del vitto e alloggio, ma anche dalle pratiche testamentarie il cui scopo è quello di mantenere il patrimonio nell’ambito della cerchia parentale. Così, Giuseppe d’Elia “promette di tenere in sua casa per lo spazio di un anno decorrendo dal dì della pubblicazione del detto matrimonio li suddetti Alessandro e Giovanna Corsano futuri sposi, e darli il necessario [...] ma nel caso li suddetti futuri coniugi per loro piacere, o capriccio vorranno dividersi dalla casa di esso Giuseppe, allora lo stesso non sia tenuto contribuirli cosa alcuna, anche se volessero in quella far ritorno, ma se detto Giuseppe li discaccierà dalla sua casa, o li obbligherà a dividersi per mali trattamenti che li userà, sia allora esso Giuseppe tenuto darli quelche occorrerà per il giornaliero vitto delli stessi, secondo il suo grado, e facoltà”.
La tradizione di assistere il genitore, o in genere il testatore, “fino alla sua di lui morte” connota in termini quantitativi il lascito. Carmina Longo di Gallipoli istituisce come suoi eredi i figli Vincenzo (sacerdote) ed Angela Stefanì e i nipoti figli della figlia deceduta, ma “siccome la legge mi permette di disporre della quarta parte di tutti i miei Beni stabili, mobili, o di qualunque altra natura essi siano, così per dimostrare la mia riconoscenza all’eccessiva tenerezza me esternata dal detto mio figlio Don Vincenzo, dal quale riconosco ogni mantenimento, ed essa assistenza in tutti i miei bisogni, a favore dello stesso Don Vincenzo dispongo della detta quarta parte de’ miei beni a titolo di legato, o in qualsivoglia altro modo dalla Legge permessomi, e voglio che detta porzione debba averla esclusivamente solo, e separatamente da quella, che li aspetta sulle tre quarte altre parti della mia Eredità quando ne farà la divisione coll’altra sorella Angela e colli figli dell’altra fù Purificata”.
In un tale contesto, la dote (detta “di paraggio”), commisurata allo status economico di una famiglia e attribuita alla figlia al momento del matrimonio, rappresenta uno strumento di tutela e di perpetuazione del patrimonio all’interno della stessa famiglia, tale da impedire alla donna qualsiasi ulteriore rivendicazione sul patrimonio dei genitori. Dai documenti è emerso come essa sia generalmente costituita senza stima (salvo alcuni casi), comprendendo di solito, oltre ai beni di corredo ed alla suppellettile domestica, anche qualche immobile, e qualche somma di denaro.
La dote della vedova Giuseppa Cazzotta futura sposa di Don Giosuè Serrano rappresenta l’unico caso in cui ad ogni bene viene attribuito il corrispondente in ducati. Infatti la vedova “porta in dote il seguente mobiliare corredo che teneva in prima proprietà […] Un letto a due piazze e quattro tavole di aspetto colorate del valore di ducati 10; un trapuntino pieno di lana (16 duc.), 4 coscini di lana (3 duc.), una imbottita (12 duc.), una coverta di inizio tempo (duc. 4 e grana 80), otto lenzuoli di bambagia pagana e due di percalla (18 duc.), 10 faccia di coscini, otto di bambagia pagana e quattro di percalla (duc. l e grana 60), otto camice usate per donna (duc. 8), otto sciugamani di varia specie (4  duc.), sei tovaglie, tre grandi e tre piccole (duc. 18), dodici tovaglioli (duc. 2 e grana 40), dodici facioletti per diverso uso (3 duc.), otto cesti di varia specie (18 duc.), otto paia di calzette di bambagia (duc. l e grana 20), un commò nuovo di legno (12 duc.), quattro buffette due di legno per uso di tavola (duc. 12), un piede di bacile (grana 60), dodici sedie napoletane nuove di noce (duc. 3 grana 60), una treppiede grande, due treppiedi piccoli, ed uno piccolo di ferro, (duc. l grana 70), due cassarole di rame gialla una grande, e un’altra mezzana (2 duc.), un calderotto di rame (duc. 2 grana 60), due candelieri d’ottone a tre lumi (duc. 3 grana 60), quattro paia d’orecchini d’oro (duc. 15), sei anelli d’oro di diverse qualità (5 duc.), totale ducati cento ottantuno, e grana 10. Del valore suddetto dei mobili come sopra non debbasi esser fatta vendita alcuna”. Nel capitolo matrimoniale tra Giuseppe Bono e Rosa Caporale, invece, non viene menzionato alcun bene in quanto “li suddetti coniugi Signor Andrea e Agata dotano la predetta di loro figlia di beni materni, consegnano alla stessa la giusta porzione a lei appartenente, secondo il numero dei figli di essi coniugi delle doti di essa Agata Nuzzo, assegnatili dal fu Vincenzo suo padre ne’ di lei Capitoli Matrimoniali, e la porzione benanco della metà di Eredità detto fu Vincenzo Nuzzo, che viene a toccare alla stessa Agata dietro la morte della di lei madre, vedova di detto fu Vincenzo, ed erede usufruttuaria del medesimo”.
Il corredo, ossia l’insieme dei panni per la casa e per la sposa, dal forte valore simbolico e quasi sempre elencato, riveste un’importanza pari, se non maggiore, alle altre assegnazioni di natura patrimoniale. Tra i suoi numerosi elementi esso comprendeva i lenzuoli con i “capezzali”, le “coverte”, il “giroletto”, le “tovaglie da tavola”, i “salvietti”, gi l“avantisini”, i “giuppi”, il “camice”, i “facioletti di testa e di spalla”. Altri beni sempre facenti parte della dote della sposa erano il letto (che assumeva il ruolo di fulcro attorno al quale si snodavano gli eventi familiari) e gli arredi del focolare (i cosiddetti “rami”, costituiti spesso da “fersure”, “caldaie”, “calderotti” e “treppieti”). Ad ogni modo, la percentuale più elevata nell’assegnazione della dote si ravvisava nei beni mobiliari e denaro con il 56,8%; seguivano i beni immobiliari e fondiari con il 21,6%.
La funzione di tale dote era, dunque, quella di evitare l’uscita e la dispersione dell’asse ereditario dal gruppo parentale maschile. Ne è testimonianza l’obbligo, che risulta non gravare mai sui figli maschi, della futura sposa di rimettere in collazione i beni ottenuti dal genitore. Ciò sottolinea il ruolo marginale della donna nel contesto socio-economico, confermato anche dalla sua “incapacità” giuridica che le leggi fino all’entrata in vigore del Codice Napoleonico del 1809 le avevano attribuito. Un’ulteriore conferma si è delineata nella necessità di un’autorizzazione da parte del marito, che dinanzi al notaio “per l’affetto verso la di lei moglie, l’autorizza a dotare la figlia”. Tuttavia, in un solo caso si è riscontrato la donna “se stessa dotante”: Pascalina Pedaci, “di condizione tessitrice, di età maggiore, domiciliata in questo Comune di Gallipoli, [stipulante] alle cose infrascritte per se medesima, e per i suoi eredi, successori, e aventi causa di essa”. Anche le assegnazioni da parte del futuro sposo alla sposa richiedevano sempre il consenso paterno. Attestazioni queste che delineano una figura femminile relegata solo dinanzi al focolare domestico, le cui volontà sembrano essere secondarie, per non dire senza alcun peso, in un passo così importante della sua vita, qual è quello del matrimonio e della scelta del coniuge.
Si può inoltre notare l’alta percentuale dei genitori come dotanti (64,8%), e ciò attesta la forte dipendenza della donna dalla famiglia. La sua giovane età (talvolta figura il termine “minore”) al momento del matrimonio e la totale assenza di attività extradomestiche da lei svolte si accompagnavano al basso grado di autonomia e alla scarsa volontà decisionale della stessa, che era rimessa, invece, generalmente, al volere del padre. La stessa possibilità di dotarsi è limitata, per legge, al solo caso di vedovanza; e in tutti i contratti matrimoniali, nel caso di premorienza della donna senza figli, la dote deve essere restituita ai dotanti.
Il problema della trasmissione dei beni è strettamente collegato, inoltre, con quello affettivo e di organizzazione domestica, e dal momento che, nella maggior parte dei casi, i beneficiari dei lasciti risultano essere i figli, la caratteristica della famiglia mista (figli maschi e femmine) consente di conoscere le volontà testamentarie, la concezione stessa che il testatore ha della famiglia e quale ruolo in essa assegna ai singoli figli. L’equa ripartizione dell’asse ereditario nei testatori è pari al 77,8%; seguono poi quella tra tutti i figli, ma attribuendo ad uno una parte più cospicua (11%) e l’assegnazione dei beni ai soli figli maschi (11,1%), lasciando alle figlie la “dote di paraggio”. Non mancano, tuttavia, attribuzioni di beni, da parte delle testatrici, a sorelle, fratelli, nipoti, pronipoti ed, in un caso, al figlio adottivo, in assenza di figli naturali. Diverso il caso di Saveria Mariani vedova Arseni, la quale “chiama, fa’, e nomina suo Erede Universale e particolare Tommaso Raeli, di questa Città Giovine allevato, educato ab infantia nella sua casa, e dal quale viene governata ed assistita in tutti li suoi bisogni, sopra tutti i suoi beni mobili, e stabili presenti e futuri, denari contanti nomi di debitori, azzioni, raggioni […] che l’appartengono o possono in futuro spettare, ed appartenere perché tale è la sua volontà”.
Molti testatori, poi, in caso di loro morte, istituiscono usufruttuaria la moglie (beneficio che si annulla nel caso in cui la vedova passi a nuove nozze) oppure la nominano legataria al fine di garantirsi un futuro “degno della sua condizione”. Giuseppe Patitari, infatti, istituisce eredi due figli minori e lascia alla moglie, a titolo di usufrutto, “ducati venti quattro 24 annui vita sua durante da prelevarsi dall’affitto del mio magazzino […] se detta mia moglie passasse a seconde nozze, voglio che decadesse di tutto quanto ho disposto sopra, cioè dell’abbitazione, del sostentamento e della piccola penzionella de ducati venti quattro annui”. Quintino Stefanì lascia, invece, “per legato a Vincenza Epifanio, sua cara e legittima consorte, la somma di ducati 30”, che otterrà solo dopo che non conviverà con i figli.
È importante considerare un elemento ricorrente nei testamenti delle famiglie meno agiate, vale a dire l’eguale peso rivestito dalla figlia nell’assegnazione dei beni. Questo perché il suo ruolo sembra essere più autonomo rispetto a quello delle ragazze appartenenti a nuclei familiari abbienti. Nelle famiglie di grossi proprietari, la presenza di vincoli e clausole nelle disposizioni testamentarie, di fatto, assicura ai figli maschi benefici e vantaggi patrimoniali e mira a conservare il patrimonio nell’ambito familiare, impedendo dispersioni esterne. Le donazioni inter vivos o ante partem ne sono la conferma.
Di certo è che, fino a qualche anno fa, la ricerca storica sulla famiglia nel Mezzogiorno d’Italia, così avviata, appariva ancora lontana da un approccio riguardante il sentimento familiare, il rapporto etico-affettivo e disciplinare tra genitori e figli, la compensazione sentimentale della condizione di subordinazione della donna, i sentimenti dell’amore e della morte in rapporto all’esperienza della vita di famiglia, e così via. Il recente e maturo lavoro di Francesco Gaudioso su Famiglia, proprietà e coscienza religiosa nel Mezzogiorno d'Italia (secoli XVI-XIX) (Galatina, Congedo, 2005) ha consentito, tra l'altro, di colmare un tale vuoto storiografico, costituendo, per la rilevanza metodologica e interpretativa, una novità nel panorama della storiografia testamentaria italiana ed europea. In particolare, l'utilizzazione di una cospicua mole di atti testamentari, prodotti dal notariato meridionale nel corso dei secoli XVI-XIX, integrati da fonti di varia natura e provenienza (stati delle anime, platee, registri parrocchiali, catasti), ha consentito allo storico di superare i limiti delle testimonianze d'élite, ricomponendo, all'interno dei gruppi di persone viventi sotto lo stesso tetto (mariti-mogli, genitori-figli, fratelli-sorelle; ma anche padroni-servitù e schiavitù domestica, studiati pure per l'esemplare realtà gallipolina), la trama dei rapporti patrimoniali, devolutivi e sentimentali.
L’istituto familiare, dunque, rappresenta, ancora nei secoli XVIII e XIX, il principale fattore aggregante della società meridionale: non solo il nucleo dei sentimenti e della vita quotidiana dell’individuo, ma un’organizzazione sociale ed economica, che agiva come tale soprattutto in occasioni di matrimoni e di morti. Tale affermazione può essere estesa anche alla comunità gallipolina, in cui la famiglia svolge il ruolo di fulcro attorno al quale ruota ogni individuo con una sua specifica mansione, riconosciuta e protetta dalla tradizione. All’uomo è affidato il compito di garantire, alla nuova famiglia che nasce col matrimonio, i mezzi di sussistenza adeguati sia con il lavoro, sia con i beni mobili e immobili di cui dispone. La donna, invece, apporta denaro, beni fondiari, ma in particolare, dato il suo ruolo domestico, il corredo e gli arredi d’uso comune per la casa. La sua scelta matrimoniale non è frutto di sentimenti sinceri e di affetti profondi, ma la conseguenza di strategie economiche e sociali di due differenti nuclei familiari che ricorrevano al notaio per fissare l’ammontare della dote che veniva consegnata ai nubendi in prossimità del matrimonio.
In un simile scenario, non si può fare a meno di sostenere che le strategie successorie ed i regimi dotali relativi a Gallipoli, privilegiando i rapporti di consanguineità, hanno avuto come obiettivo principale la conservazione del patrimonio nell’ambito dell’aggregato familiare ristretto.
Pertanto, non possiamo che concordare con Pietro Ungari, il quale afferma che “la fissità della famiglia, la continuità attraverso il tempo del suo patrimonio e il conseguente privilegio dei maschi sulle femmine erano altrettanti strumenti di quello sforzo di pietrificazione della società italiana e di irrigidimento programmatico delle sue frontiere di classe che corrispondevano a una tendenza profonda della Restaurazione nostrana, difesa di un mondo agricolo e signorile, di un’antica borghesia patriarcale, di artigianati corporativi cittadini, contro i fermenti dissolventi della nuova etica industriale e liberale”.

Milena SABATO