Storia di una lingua: l'idioma di Gallipoli tra i volgari salentini

Nessuno può negare che la lingua, parlata o scritta, sia un fondamentale strumento di comunicazione e di cultura. La sua storia coincide con la storia dei popoli, di ogni civiltà, quali che siano le tradizioni, razze e religioni. Ma il dialetto, lingua locale non meno nobile ed epigono dei volgari medievali eredi del latino, è il più soggetto a corruzione fonetica e mutazione lessicale sino ad un lento processo di abbandono e oblio per un fatale declino.
La lingua della nostra terra e del nostro passato è davvero destinata a perdersi, smemorata insieme con la storia patria, con le radici? Il rischio è che potremmo perdere dal nostro vocabolario e dal bagaglio della cultura popolare voci storiche tramandate dagli avi, un'eredità di cui dovremmo essere fieri senza vergogna. Quale snobismo, sinonimo d'ignoranza, si può giustificare nel definire elitario un idioma?
È dovere dei poeti in vernacolo salvare il dialetto, ravvivarlo tra i giovani della "civiltà" del benessere e del consumismo, disabituati a servirsene, perché educati dai "media" ad inseguire l'apparire più che l'essere. Gran merito va a chi si espone in operazioni di revival linguistico, risultato di meditazioni immediate, quasi uno scavo affettivo più che nostalgico nello scrigno della memoria, dove sono gelosamente custoditi sentimenti, ideali e valori, che accompagnano l'uomo nella sua storia.
Nel vernacolo, lingua materna, meglio si esprimono le capacità d'impatto con i temi più cogenti del nostro tempo: il vissuto quotidiano, gli affetti, le tradizioni popolari, i problemi sociali, la fede con le sue finalità intrinseche, scaturite dal sentimentalismo lirico e dall'amore innato che un poeta dialettale nutre per la sua terra natìa e per la sua gente, la cui storia rappresenta la sua identità, la sua anima.
La lingua (o glôssa) è parte anatomica importante dell'organo fonatorio deputato, quale strumento vocale, a modificare nel cavo orale tutti i suoni possibili prodotti dalle corde vocali, occludendo e modulando l'esplosione sonora con articolazioni variabili: tra i denti (suono dentale), tra le labbra (labiale), alla gola (gutturale), al palato (palatale), alla base delle gengive interne superiori (dentale cacuminale: a Gallipoli e relativo circondario ddh, altrove ddhr o ddr o dd).
Solo con la combinazione dei suoni nasce nel discorso la parola (spagnolo parabla, dal latino parab?la e dal greco parabóle, ossia "confronto", qual è la comunicazione scritta e orale e l'allegoria insita nell'insegnamento morale dei passi evangelici). Pertanto la lingua in senso lato, il linguaggio e la parola servono a manifestare idee, pensieri e moti dell'animo, a comunicare, a dialogare, come nella sua immediatezza fa il dialetto (dal greco dialéghein, appunto dialogare).
Con l'invenzione della scrittura e poi dell'alfabeto fonetico dei Fenici, il suono, così come prodotto in natura, viene fissato con un segno convenzionale, per divenire messaggio intelligibile e significativo diffuso tramite scambi tra popoli lontani e diversi. Così si è costruita la storia di ogni civiltà, l'evoluzione di idiomi locali e nazionali. La storia dei popoli è storia di esperienze linguistiche e influenze lessicali le più dissimili, che hanno prodotto mutazioni e modifiche nel tessuto culturale.
Il dialetto è tuttavia la lingua maggiormente esposta al rischio di variazioni rispetto alla tradizione latina, parametro costante di riferimento, e al volgare toscano, lingua letteraria per eccellenza, la più fedele al latino per essere, con l'Unità, elevata ufficialmente a lingua nazionale, grazie all'apporto del divino poema.
Nel De Vulgari eloquentia, dopo approfondita indagine, Dante conclude la sua inchiesta da cui ha origine la questione della lingua: tra i parlari della penisola italiana il migliore è il fiorentino, poi, tra i meridionali insieme col siciliano colto della corte federiciana (noto nella fase toscaneggiata), segue il pugliese salentino per la sua affinità con la scuola poetica siciliana. Solo in coda nella singolare graduatoria compaiono il pugliese murgese e il romano, idioma della capitale che non ha saputo continuare e generare dal latino la lingua nazionale (come per Parigi e Londra).
Senza campanilismo si può affermare che, tra i dialetti di Terra d'Otranto, il gallipolino è forse la lingua che ha di meno subìto processi d'imbarbarimento, conservandosi quanto possibilmente fedele alla lezione linguistica e lessicale del passato e soprattutto del latino da cui direttamente discende il toscano.
Nel volgare di Gallipoli esistono determinati esiti fonetici corrotti all'interno di regole consolidate da osservare con tutte le norme di morfosintassi e ortografia, indispensabili per sprovincializzare il dialetto e renderlo leggibile e comprensibile da Bolzano a Trapani ma pure fruibile a quanti non lo usano correntemente o non lo tengono in pratica e in conto. Nonostante l'errato uso ricorrente, tollerato e avallato da tesi imprudentemente semplicistiche di sprovveduti o disinformati, i casi più particolari e consueti da rispettare, necessariamente nello scritto, sono:
- ga/go=ca/co (cattu, colfu); ge/gi= esito più palatale (zezzu, viscìlia); d=t (tulore, tumènaca); o=u (specie a fine parola: lupu, manu); l=r (in metatesi: palora, cròlia); ll=ddh (suono cacuminale: Caddhìpuli, cuddhura); sc = sibilante impura (à?cia) o palatale (ràscia); gli=j (famìja, fìju); z sonora come zanzara, da distinguersi dalla sorda specie se doppia (zùccuru, màzara, puzu, diversamente da zèppula, puzzu); bb=gg (mannàggia < male ne abbia, caggiula < gabbia); pi (da pl lt.)=chi (plat?a > piazza > chiazza, plenus > pieno > chinu, plus > più > cchiù); pi (lt.)=cci (sep?a > sèccia=seppia, ap?um > làcciu=sedano, sap?o > sàcciu=so);
- vocale iniziale elisa e apostrofo ('ncora, 'mparare, 'ffucare); costanza di apofonia in "alpha" dorica (giannìpuru, malone, maccaturu, ciacora, cialona, ciacala, cialestru, ciapuddha, ciarasa, ciatrulu, fèmmana, baddhizzi, marcante, masura, 'ntaressu, raspettu, scianaru, sciannaru, sparanza, spantura, vantura, paccatu, lavante, dafriscare, rafiatare, ssamijare, sciattare, ecc.); assenza di dittongazioni o di alterazioni consonantiche (come nel leccese: cuerpu, muertu, fuecu, suennu, àutru, fuesi, càusci, càusi, Mamminu, mègghiu, pègghiu, uardare, rande, rasta, rressu, ògghiu, famìgghia, fìgghiu); frequente raddoppio di consonanti iniziali (cci bboi ccu bbìsciu=cosa vuoi che io veda); preferenza della subordinazione esplicita (ulìa ccu bbau, bbegnu, ssàcciu=vorrei andare, venire, sapere); preferibile accentazione di parole non piane onde ovviare a facili equivoci nella lettura e nella comprensione.
Da un breve excursus linguistico attraverso alcuni significativi esempi nel Salento (buenu a Lecce, munnu a Maglie e circondario, pajare a Nardò, stia ad Alezio e contado, l'amici mia a Parabita, mie, tie, sule, sira, ura, parite, pisce, rite, site, ecc. nel resto del Salento e soprattutto nel Capo di Leuca, a fronte degli esiti gallipolini: bbonu, mundu, pacare, stava, l'amici mei, me, te, sole, sera, ora, parete, pesce, rete, sete, ecc.), risulta che il parlare gallipolino è ancorato al rispetto, per quanto possibile, del volgare toscano e della lingua italiana, dal latino discendenti.
Nel dialetto gallipolino sono in uso, invero, vari termini italiani: mare, terra, luna, aria, luce, acqua, notte, casa, porta, chiave, pane, pasta, latte, carne, sale, pepe, lingua, ventre, anca, fame, arte, ponte, nave, vela, campagna, pastore, cane, animale, rosa, spina, canna, fava, vigna (ma àrburu de fica, mila, pira, ulìa);
e ancora: anima, nascita, vita, morte, fine, mese, legge, giudice, signore, fede, messa, ostia, comunione, misericordia, litania, candela, festa, amore, sposa, campana, tomba, pace (con qualche corruzione: amme, scatti 'mpace, donna bisòdia, cannone, pistola, santarmònium, sicutera, recumeterna, dominusubbiscu, misererenobbi?);
inoltre, se capu e nive sono più latini e "pioggia" non esiste se non come acqua de celu (così in tutte le regioni), stoccafisso (anglosassone stockfish, pesce seccato) è meno letterale del nostro stoccapesce, mentre voci come "madre" e "padre", insieme con una griglia di parole relative a famiglia, sono registrate con enclitica possessiva al solo singolare: màuma-màmmata-màmmasa, sìrama-ta-sa, màdrima, matrìama, patrìuma, fìjama, fìjuma, fràuma, sòruma, nònnuma, nònnama, zìuma, zìama, napòtama, crussupìnama, crussupìnuma, caniàtuma, caniàtama, nòrama, scènnuma, sòcrama, sòcruma, mujèrama, marìtuma, parèntama, nùnnuma, nùnnama, cummàrama, cumpàrama, suscèttama, suscèttuma, ecc.
Nel rinviare ad altra occasione tutta la nomenclatura dell'ittionomastica (idioma marinaresco), si aggiunge che non mancano influssi da lingue straniere: spagnolo pràja, francese pòscia, arabo scapece, anglo-germanico varra (gioco infantile).
Del latino poi sono particolari: 'cciommu ("ecce homo" disse Pilato presentando Cristo flagellato), segnummeste (segnum est, è segno, significa, cioè), sanametoccu (sana me de hoc malo, mentre ci si tocca la parte anatomica che si vuole salvare dal male), busulàriu (stato di agitazione da post sudarium), ppòpputu (chi abita post oppidum, lontano dalla città, nel contado), caremma (l'orrido fantolino che simboleggia la quaresima, da quadragesima).
La tradizione greca infine conferma l'influenza che la città ionica, a differenza di Nardò e Lecce (immediatamente latinizzate), ha subìto nella sua antica storia (la colonizzazione dorica tarantina nel 367 a. C., dopo la fase messapica, la lunga dominazione bizantina, lo stanziamento dei cenobi basiliani a seguito della persecuzione iconoclastica dopo l'800). Quanto ai grecismi (presenti in varia misura e con forme pressoché simili nella direttrice Gallipoli-Otranto attraverso l'area della Grecìa), questo un brevissimo campionario, alquanto emblematico e significativo:
àpulu, beddhusinu, calafatu, calime, candaula, canza, carassa, carpìa, cascione, castima (-are), catapete, catapràsumu, centra, chìraca, crasta, cùfiu, cumba, cuneddha, làvana, levarsìa, lòffiu, mattra, màzara, naca, nachiru, òsumu (-amare), pèntuma, pòspuru, pràsumu, prèvete, putrìmisi, rappa (-are), rumatu, salassìa, scalisciare, sciacuddhu, scùfia, sima (-are), sita, sparatrappa, spàrgane (-eddhe), spàsumu, spràsumu (-amare), stizzu, strafica, stricare (-aturu), stumpone, suscitta, tampagnu, tarrassu, trigni, trizza, tròzzula, ttuppare, tuzzare (-aturu), vastasi.
Voci ormai rare e desuete, ancorché particolarmente popolari, comuni e assai interessanti sotto l'aspetto storico, socio-culturale e linguistico di una eredità che fa parte della nostra identità storica, del nostro patrimonio di civiltà da tutelare e difendere con orgoglio contro l'offesa fastidiosa di snob aristocratici e ignoranti.

Gino SCHIROSI