Libri nemici, nemici dei libri

Ambrogio Salvio, vescovo di Nardò nel Cinquecento, e il fuoco purificatore

Ogni epoca ha conosciuto la pratica criminale del rogo dei libri, la forma più frequente, radicale e simbolicamente più efficace, di distruzione volontaria di testi, e per le più diverse ragioni: religiose, politiche, morali o altre.
L'obiettivo comune di tali interventi (eseguiti dai Romani, che misero al rogo le biblioteche degli ebrei, dei cristiani e dei filosofi; dagli ebrei che bruciarono i libri dei cristiani e dei pagani; e dai cristiani che distrussero quelli dei pagani e degli ebrei) è sempre stato quello di far tacere, di cancellare una voce dissenziente o eretica o solo in anticipo sui tempi.
Prescindendo dalla Cina, dove nel 213 a. C. l'imperatore Che-Huang-Ti avrebbe ordinato la distruzione di tutti i libri, esclusi quelli che contenessero la storia della sua famiglia, le opere di astrologia, di medicina e di agricoltura, anche la nostra antichità classica registra roghi di libri di rilevante significato e di varia tipologia, che storici, filosofi o letterati raccontano (e talvolta subiscono), a dimostrazione di una pratica relativamente diffusa (mi limito ad accennare appena ai nomi di Diogene Laerzio, Livio, Svetonio, Tacito, Luciano e alle loro testimonianze, che spaziano da un testo "ateistico" di Protagora ai libri pitagorici, dalle Massime di Epicuro all'opera storica di Cremuzio Cordo).
Con l'affermazione del cristianesimo l'intervento repressivo della Chiesa di Roma sulle devianze teologiche messe per iscritto è precoce e costante; la forma consueta della punizione consiste nella distruzione tra le fiamme dell'opera incriminata in quanto corpo del reato.
Possiamo ricordare qualcuna delle tappe essenziali di questa cronologia ignifera: l'imperatore Costantino, dando corso alle decisioni del Concilio di Nicea (325), ordina la distruzione dei libri di Ario e dei suoi seguaci; nell'868 il Concilio Romano condanna al rogo i libri di Fozio e, sulla base delle ribadite disposizioni del Concilio Costantinopolitano IV (869-870), l'imperatore Basilio fa applicare la sentenza.
Nel 1140 patiscono i rigori della condanna i libri di Pietro Abelardo e quelli di Arnaldo da Brescia; nel 1415 tocca agli scritti di Wyclif e Huss: quest'ultimo poi, nonostante un salvacondotto che doveva garantirgli l'immunità, sarà anche bruciato, coerentemente alle disposizioni del Concilio di Verona del 1184, dove per la prima volta era stata stabilita la pena del rogo per l'autore, insieme alle sue opere eretiche.
È doveroso anche accennare che in qualche caso il rogo dei libri si presenta come distruzione di intere biblioteche, quasi sempre sulla spinta di contrapposizioni ideologico-religiose; tale sembra essere stata la vera ragione della scomparsa delle grandi biblioteche di Alessandria (quella del Museo e quella del Serapeo) nei secoli III e IV d. C., con il rogo, in assoluto, più lungo dell'antichità - secondo quanto riferisce Eutichio (Ann., II) -, essendo durato all'incirca sei mesi. Analoghe le motivazioni della distruzione di tante collezioni librarie arabe del Vicino Oriente negli anni delle Crociate o della Biblioteca imperiale di Bisanzio al tempo della conquista musulmana nel 1453; e ancora nel 1508 il dotto cardinale Francisco Jimenez de Cisneros, promotore della fondamentale Bibbia poliglotta Complutense, ordinava la distruzione di forse 5000 volumi religiosi presenti a Granada, soprattutto Corani, in quanto testi sacrileghi.
La realtà del rogo librario - che, tra l'altro, si è spesso, e tragicamente, presentata parallela e intercambiabile con il rogo degli stessi autori delle opere - si modifica decisamente a partire dalla seconda metà del secolo XV, cioè nel passaggio dal modo del manoscritto a quello della stampa. Infatti ora non si trattava più di ricercare e distruggere il solo o i pochi esemplari esistenti di un testo scritto a mano, ma di combattere la diffusione di una gran quantità di diverse opere pericolose uscite giornalmente dalle tipografie, e, soprattutto, di rintracciare le centinaia e talvolta migliaia di copie che spesso si erano diffuse in tutta Europa per anni o decenni prima di essere individuate come nocive per l'ortodossia o, magari, per gli interessi politici di qualcuno.
La costituzione Inter multiplices di papa Innocenzo VIII, datata 17 novembre 1487 e primo documento ufficiale della Chiesa romana al riguardo, segnava la nascita della censura preventiva sui testi da pubblicarsi e stabiliva la distruzione delle opere contrarie ai principii della religione. Disposizioni, queste, ribadite da Alessandro VI nella bolla Inter multiplices del 1501 e riconfermate da Leone X nel decreto Inter sollicitudines del 1515, espressione, quest'ultimo, della volontà del Concilio Lateranense V e prima legge generale della censura preventiva.
Su queste basi, e negli anni in cui l'eresia diffusa dai libri viene frequentemente paragonata alla peste, con la bolla Exurge Domine del 15 giugno 1520, ci sarà la condanna alla distruzione di tutte le opere presenti e future di Lutero, le quali, "scrupolosamente ricercate", furono "bruciate in pubblico con un rito solenne, in presenza del clero e del popolo".
Oggi, la lunga lista delle condanne che colpiscono, non solo nel corso del secolo XVI, ma anche in quelli successivi, fino al XX, tutta una serie di opere (già parzialmente pubblicata negli utili cataloghi otto-novecenteschi dei titoli proibiti presentati da G. Peignot, F. H. Reusch e J. Hilgers) viene sapientemente registrata nella preziosa collezione in undici volumi Index des livres interdits curata da J. M. De Bujanda; mentre, i danni recati al patrimonio bibliografico dai tanti roghi di libri che, nel corso dell'età moderna, si sono accesi in varie città d'Italia e d'Europa sono messi in risalto in numerosi studi, che, prendendo a modello il tuttora fondamentale saggio di A. Rotondò nella Storia d'Italia Einaudi (La censura ecclesiastica e la cultura, 1973), hanno trovato un discrimine tra prima e dopo l'apertura degli archivi vaticani del Sant'Uffizio e dell'Indice.
Fin dall'antichità, dunque, la biblioclastia cercò di trovare una giustificazione in precise norme legislative. Augusto, scrive Tacito (Annali, I, 72), fu il primo a istituire processi contro i "famosis libellis", cioè i libelli diffamatori; Costantino e i suoi successori proibirono con pene severe gli scritti satirici e Teodosio ordinò che non solo l'autore ma chiunque fosse stato trovato in possesso di uno scritto diffamatorio venisse immediatamente ucciso. Le censure ecclesiastiche e statali hanno, pertanto, pregiudicato la sorte dei libri fin dall'antichità, e l'Index librorum prohibitorum così come le regie prammatiche ne sono stati, almeno dalla metà del Cinquecento, i principali strumenti.
Al pari della Sede Apostolica, difatti, anche gli Stati di antico regime furono convinti dell'opportunità di impedire il propagarsi dell'eresia, ritenendo che nessun regno potesse mantenersi senza l'apporto della religione. I propositi ecclesiastici, dunque, vennero sistematicamente a scontrarsi con le aspirazioni giurisdizionali dei principi, poco inclini ad abdicare del tutto ad una tale azione di vigilanza, avendo ormai intuito quanto l'ingerirsi del controllo delle idee avrebbe contribuito al rafforzamento in senso assolutistico dei propri domini.
La normativa napoletana volta a disciplinare, a più riprese, l'attività editoriale e la circolazione libraria nel Regno ("perché le stampe invece di utilità [...] non recassero nocumento alcuno alla Religione, ed allo Stato"), in vigore nell'età moderna, è costituita principalmente da venti prammatiche sanzioni, sotto il titolo De impressione librorum, di cui la prima emanata nel 1544 da don Pedro de Toledo e l'ultima nel 1786 da Ferdinando IV; di esse, le prime sette sono state promulgate nel Cinque-Seicento, le restanti (quindi, più della metà, dall'VIII alla XX) nel Settecento, a conferma della rilevanza assunta dal fenomeno nel secolo XVIII rispetto ai secoli precedenti.
Nella prima prammatica relativa a questo argomento, emanata il 15 ottobre 1544 da don Pedro de Toledo, venne ordinato ai mercanti di libri e ai librai che in tutto il Regno non fossero stampati, tenuti o venduti libri di sacra scrittura e teologia se prima non fossero stati mostrati al Cappellano maggiore ("acciocchè possa quelli vedere, e riconoscere, e veduti poi ordinare quelli, che si avranno da mandare in luce"), e quei libri che fossero stati stampati senza il nome dell'autore, o fossero stati condannati, non avrebbero potuto essere venduti né conservati, sotto pena di sequestro o altra pena ad arbitrio del viceré.
Iniziava, così, già nel secolo XVI, in linea con la politica di controllo sulla vita napoletana e di difesa degli ideali tridentini dei sovrani spagnoli all'epoca del Toledo, la prassi di stretta verifica del movimento delle idee e della vita culturale da parte delle autorità laiche, operazione che nell'amministrazione dell'epoca si incentrò sulla figura del Cappellano maggiore da una parte, e sulle Segreterie del viceré dall'altra.
Poco dopo, il 30 novembre 1550, "perchè l'esperienza ha dimostrato, e dimostra, che l'opere nuove impresse senza nostra licenza, hanno causato non poco scandalo a quelle persone, che l'hanno lette, e studiate, per contenersi in esse alcune cose illecite mal fatte [...]", venne emanata un'ulteriore prammatica che impose a tutti gli stampatori e librai, nella capitale e nel Regno, di non imprimere, né far imprimere o vendere libri "di qualsivoglia sorta, sì latini, come volgari, et etiam lettere missive, sonetti, o d'altra professione" senza espresso ordine e licenza del viceré, sotto pena di ducati mille ed altra pena ad arbitrio del viceré stesso.
Ciò significa che vi era l'obbligo, prima della stampa di ogni qualsivoglia libro od opuscolo, di richiedere al viceré la licenza di stampa; richiesta, questa, che sarebbe stata poi trasmessa al Consiglio collaterale, l'organo della Cancelleria, il quale, in seguito all'ordine del viceré ed al parere favorevole del Cappellano maggiore, opportunamente richiesto, avrebbe provveduto, secondo la prassi consueta, a formalizzare il provvedimento, inviando al richiedente una "licenza", e registrando il provvedimento presso i suoi atti.
Naturalmente, queste norme, sia in virtù di una prassi che nasceva dagli stretti controlli di uno Stato preoccupato oltremodo dell'ortodossia, sia per la renitenza di fronte a quelle che anche allora erano infinite lungaggini burocratiche, davano luogo ad evidenti e prolungati fenomeni di inosservanza e contrabbando.
Per questi ed altri motivi, il viceré ritenne particolarmente utili ai fini della sua politica religiosa i "dottori della sacra Teologia", quei frati predicatori, cioè, nei quali egli ripose una grande fiducia. Tra questi, il dotto e dinamico predicatore domenicano Ambrogio Salvio da Bagnoli ("a cui riuscì col mezzo della sua soda, e nerboruta eloquenza accendere nel cuore di quel non men valoroso, che pio Imperadore un così profittevole desiderio [quello di perseguitare i luterani]"), confessore di Carlo V (il quale "ne potè non confessarsi preso dalle sue dolci maniere, e dalla sodezza delle sue dottrine") e poi vescovo di Nardò, la cui energica azione - a detta del suo biografo Sebastiano Pauli (Della vita del Venerabile Monsignore F. Ambrogio Salvio dell'Ordine de' Predicatori ..., Benevento 1716) - avrebbe provocato a Napoli il primo rogo di libri dei "perfidi eretici", "[...] allora in particolare, che l'eresia di Lutero andava notabilmente prendendo piede". Scrive il Pauli a proposito di Bernardino Occhino, che, insieme a Pietro Vermiglio e Marco Antonio Flaminio, "riconobbe[...] i principj lagrimevoli della [...] sceleratezza" delle teorie di Giovanni Valdes: "[...] si fece udire due corsi Quadragesimali in Napoli per istrana disavventura di questa Metropoli: venendo egli riconosciuto da non pochi, come cagione, ed origine di que' tumulti, che tanto in quell'età l'agitarono.
E forse, che ottenuto avrebbe il sospirato fine il suo reo disegno, qual era di corrompere la Fede in questi devoti Cittadini [...]: se il nostro Ambrogio non avessegli rotto il guado collo scoprir prima il suo veleno, coll'impugnare le sue dottrine, e ultimamente scaricandosi con tutto il suo zelo contro de' di lui empj libri. [...]".
Prosegue, così, il Pauli a "raccontare il modo di un tale avvenimento", a cominciare da quando l'Occhino "lasciò correre per le mani de' suoi favoreggiatori alcuni libri di poca mole, ma colmi di molto veleno: ne' quali sotto pretesto di promuovere la predicata riforma, spacciavansi falsi dogmi, e massime ereticali": "Non può già dirsi quanto strabocchevole anzi, che nò fusse l'applauso, col quale furono essi ricevuti, letti, e studiati.
Passavano da una in un altra mano, e stimavasi fortunato colui, che ne potea aver copia. Permise intanto la divina Provvidenza, la quale invigila sempre alla conservazione della nostra Cattolica Romana Chiesa, che capitasse in mano del Salvio uno degli accennati libri.
Era già qualche tempo, dacchè egli in forte sospetto entrato era della dottrina dell'Occhino, e cercava appostatamente occasione di poterla a suo bell'agio esaminare. Giuntagli colla lettura di que' libretti, poco penò ad avvedersi quanto falsa fuss'ella, ed erronea.
Anzi avendovi notate parecchie eresie, non frappose veruno indugio a denunziarne l'Autore: impegnandosi a sostenere, qualora lo volesse il bisogno, esser'egli e le sue opere opposte molto agli insegnamenti di nostra Fede". Invitato "al cimento di una pubblica disputa", l'Ochino trovò tuttavia il modo di "sbrigarsi [...] da quell'imbarazzo, in cui l'avrebbe sicuramente posto la dottrina di Ambrogio". Vi rimasero, pertanto, "a sostenere le scelerate veci alcuni libri, che il mal'Uomo lasciati avea dopo di se, quasi nuovi capi d'un Idra non ancora estinta, e rei germogli d'una velenosa radice non bene sin lì sradicata.
Onde per riportarne intiera, e gloriosa vittoria, contro di questi scaricossi il zelo Apostolico del nostro Salvio, e tanto adoprossi, che non contento della censura con cui furono essi condennati, ottenne ancora, che tutti ad un fascio si portassero avanti la porta della Chiesa Madre, ed ivi dopo aver contro d'essi assai lunga, e dottamente perorato, si abbruggiassero. E sotto gravissime pene [...] si proibirono tutti, cioè i libri dell'Occhino, e nel largo, che ha dinanzi la porta maggiore dell'Arcivescovato furono portate con bandi tremendi tutte quell'opere ed altre, che potevano esser sospette, e dopo con una bella, e Cristiana predica fatta dal P. M. Ambrosio Salvio da Bagnolo dell'Ordine de' Predicatori, furono brugiati liberamente. Dopo questo s'acquietarono le cose ne s'intese mai, che simili libri fussero ritenuti da veruno, e serbati, e se pure si parlava della Scrittura da alcuni era con più modestia, e sobrietà".
A riportare l'episodio, arricchendolo di maggiore dettagli, sarebbe stato pure Luigi Amabile nella sua autorevole opera (Il Santo Officio della Inquisizione in Napoli, Città di Castello 1892, rist. anast. Soveria Mannelli 1987), utilizzando fonti di prima mano trovate, in questo caso, con faticose e attente indagini nella Biblioteca di S. Martino e nell'Archivio di Stato di Napoli. Così, le opere "infette", che il vicerè, "con un bando, al solito condito di minacce gravissime", aveva ordinato di presentare, sarebbero state il Sommario della Scrittura, il Beneficio di Gesù Cristo crocifisso e altri libri recentemente stampati del Melantone e dell'Erasmo, tutti raccolti, in gran numero di esemplari, e bruciati davanti alla porta maggiore dell'Arcivescovado.
Una vicenda censoria fra le tante, questa, che induce dunque a riflettere sul grande sforzo attuato dalla Chiesa nella regolamentazione delle letture, ma soprattutto sui reali effetti della censura ecclesiastica, su cui molto si è scritto relativamente ai risultati devastanti per la vita culturale a causa dei limiti imposti alla diffusione del libro e delle idee (sebbene in studi recenti, pur condotti in una dimensione decisamente storica, si nota una certa tendenza a minimizzare e a sottovalutare l'incidenza della repressione).
Soprattutto si deve pensare che in certi casi la distruzione sia stata tale da cancellare interamente un'opera, della quale non conosciamo dunque alcun esemplare. Basta considerare la vicenda del Trattato utilissimo del Beneficio di Cristo, protagonista non a caso della scena ignifera descritta, venduto, secondo Pier Paolo Vergerio il Giovane, in 40 mila copie in soli sei anni (1543-1549): fino a oggi ne sono state ritrovate solo quattro copie di tre diverse edizioni.
A detta dell'Amabile, inoltre, la predica di Ambrogio Salvio, che accompagnò la distruzione tra le fiamme delle opere incriminate, negli anni a seguire, "durante le controversie circa l'Inquisizione in Napoli, servì a taluno degl'Inquisizionisti per far dire Inquisitore fra Ambrogio domenicano", attribuendo al futuro vescovo di Nardò "una parte principale in questa faccenda".
Tuttavia, prosegue l'autore, "fra Ambrogio veramente apparisce nulo un predicatore zelante, e nemmeno i soliti istoriografi dell'Ordine (Gravina, Fontana etc.) gli danno il titolo d'Inquisitore". Giunto a capo della diocesi neretina, "quel, che in ciò fare cagionogli, e più dolore, e più travaglio, si fù l'avervi scorto una mala razza d'Eretici, che da luoghi circonvicini copertamente seminando il rio veleno delle loro false dottrine contro de' Sacramenti [...] già infettato aveano qualche parte di quella Diocesi. [...]. Colle Prediche in tanto, co' Catechismi, coll'esortazioni, ultimamente colle minaccie, e colle pene, e gastighi, oprò sì, che, benedicendo Iddio i sudori del suo servo, potè in poco tempo veder quelli, che rimasti erano contaminati, o ravveduti, o fuggiti, e tutta la sua Diocesi dalla maligna peste liberata, e salva.
Perché poi non si perdesse appresso di se, e appresso degli altri la memoria di una così vantaggiosa sconfitta; ma sempre rimanesse viva per muovere gli animi di tutti a darne una dovuta lode a Maria Vergine [...] fece erigere in di lei onore una devota Cappella nella sua Cattedrale intitolandola della Madonna della Fede [...]. Perché poi egli alzava per sua insegna gentilizia una Salvia, da cui pendono in atto di fuggire due serpenti [...] v'aggiunse egli di più il motto Serpentes tollit. Accennar volendo nell'avvenire il trionfo degli Eretici ottenuto in vigore della divina promessa fatta agli Apostoli, e in essi ad ogni lor successore, che scaccieranno, cioè, i Serpenti, e ciò, che beveranno di velenoso non apporterà lor nocumento. Colle quali parole vogliono molti, che intendesse Cristo la forza dell'Evangelio in domar l'Eresie [...]" (Pauli).

Milena SABATO