La Candelora e le sorprese del tempo

Riflessioni a margine della festa come evento stra-ordinario

Ritorna la Candelora tra necessità del tempo e conforti della memoria. Un giorno sacro, anzitutto per il suo valore religioso e liturgico: la Benedizione delle candele che cristianizzava una ricorrenza pagana più antica, legata alla rivoluzione astronomica. Sacro però anche nel suo significato antropologico e culturale di tempo speciale. Un modo di percepire la realtà nella sua scansione né prosaica né banale tipico della quotidianità e, per contrasto, una ritualizzazione che specialmente sul piano profano rivestiva i caratteri sgargianti della straordinarietà. Infatti man mano che retrocediamo nel passato le sensibilità, le abitudini, i comportamenti umani interagiscono e si situano in un tempo altro.
È un tempo segnato fatalmente da ciclica ripetitività, naturale e seriale come lo sono le stagioni entro le quali "le opere e i giorni" ("erga kai emèra") sono specchio di una realtà sostanzialmente immodificabile.
In una tale cornice crono-logica la lentezza non è solo blanda, ma diviene conforto ideologico che con i suoi "apparati di rassicurazione" culturale include il tempo nella norma. Lentezza che, in quanto vissuta e voluta come freno del tempo, si propone quale garanzia contro il tempo nuovo e veloce (tempo economico-meccanico) e perciò foriero di incontrollabile imprevedibilità.
Ben si comprende, allora, perché la lentezza si coniughi per millenni con le ideologie religiose, conservatrici e apotropaiche, ossia in grado di tenere lontano il "demone" dell'ignoto in ogni sua espressione pericolosamente innovativa. In quest'ottica è di grande interesse leggere il biblico nihil sub sole novi (nulla di nuovo sotto il sole) come rendita politica di ogni sacerdozio intellettuale che utilizza il controllo e la gestione tecnica del tempo: dallo sciamanismo ai pontifices romani, dalle pratiche laiche di regolarizzazione scientifica alle calendarizzazioni.
Senza escludere, ovviamente, il ruolo sostitutivo e tendenzialmente definitivo delle élites secolarizzate che si impadroniscono di questo potere fondamentale sulla società. Potremmo dire, con suggestione braudeliana, che si passa dal tempo della campagna (della chiesa, delle campane, della tradizione) al tempo della città (della fabbrica, della sirena, dello sviluppo e della tecnica).
È in questo senso che la festa, come un Giano bifronte, da una parte rompe l'uniformità-omologabilità del tempo, scardinandone la struttura ordinaria e ordinata, e dall'altra parte, quale eccezione una tantum, ne conferma la regolarità pedissequa e prevalente. I ludi carnascialeschi, ad esempio, confermano in quasi tutte le culture la funzione integrativa dell'ordine sociale, seppure in forma estrema. In questo caso la pratica trasgressiva, benché socialmente consentita, risulta altresì socialmente guidata e controllata.
Oggi siamo di fronte ad un altro tempo. Qui ed ora, nella post-modernità, viviamo ed abitiamo il tempo non-più-cadenzato (neppure in chiesa!) dall'eternità del canto gregoriano, che un Latino sontuoso fissava enfaticamente nella sua immobilità sospesa e rarefatta.
Ci chiediamo, perciò, cosa sia una festa, cosa rappresenti la sua "utile invenzione", nel contesto di un mercato globale di valori culturali e di merci materiali. Siamo esattamente agli antipodi di un'etica il cui nomos (legge) è tutto giocato sulla contrapposizione di lavoro e divertimento, sacrificio e svago.  
Ora, è mai possibile che sia sempre festa, godimento ludico, divertissement?
E tuttavia continuiamo ad amare e desiderare la festa, sebbene in maniera del tutto diversa rispetto al passato.
Vicini o lontani dalle grandi aree urbane, quale che sia la nostra aspirazione universalistica o localistica, sentiamo di doverci riappropriare del tempo.
Anzitutto del nostro, quello attuale, con il quale dovremmo forse contrastarci più coraggiosamente, poiché "combattere contro il proprio tempo" è assolutamente meno comodo che subirlo. Se è saggia l'accettazione adulta del tempo, lo è ancor più la lotta contro l'assuefazione inane e passiva alla sua tirannia.
Imponiamoci questa domanda: ha senso vigilare sul tempo?
In particolare, ha senso farlo sul tempo che la tradizione (traditio) ci ha consegnato? Vigilarlo, però, non è viverlo. E saremmo patetici se ci facessimo imprigionare in un arbitrario passato. Ecco, allora, che tale consapevolezza critica ci pare già un efficace strumento per evitare di contrabbandare qualunque nicchia consolatoria come espressione di autentica cultura.
Dovremmo abituarci, in controtendenza rispetto alla bulimia dell'Identità locale, a chiamare folklore il folklore, tradizione la tradizione e, finalmente, modernità la modernità, sicuri che passato e presente possono sì conciliarsi, ma a condizione di non mistificarli in pacchiane manipolazioni di marketing.
Rinunciare dunque alla nostalgia?
No, se è quella vera. Proprio quella che Novalis equiparava alla filosofia: «il desiderio di essere dappertutto in casa propria». Solo così il tempo può essere tutto il nostro tempo ed ogni festa la nostra festa, perché interiorizzati alla luce di un coraggioso sforzo di elaborazione personale.
È questa la dura fatica della ri-appropriazione culturale, che è rapporto, intuizione e scoperta spirituale.
Tutt'altro che spaesamento di superficie, privo di moderna apertura e universalità.

Paolo PROTOPAPA