Gallipoli, vista da un gabbiano in volo!

Spinto dalla certezza di trovare un clima più adatto alle mie povere vecchie ossa pneumatiche, ho veleggiato per giorni seguendo il nastro d'asfalto che gli umani percorrono nelle loro migrazioni stagionali. Ho sorvolato per interminabili giornate impervie  montagne solo sporadicamente violate da bianchi nidi umani e finalmente, quando ormai l'artrosi aveva ridotto i miei potenti artigli ad innocui moncherini, sono giunto a destinazione.
  Come ogni volta, al primo mio apparire, i cugini gabbiani hanno organizzato la tradizionale scorpacciata di benvenuto a base di delicatissimi merluzzetti. Sono anni, ormai, che trascorro con loro questo periodo dell'anno e non ho ancora capito se questo loro comportamento ossequioso al limite del servilismo sia dettato da semplice affetto o da un sentimento di sudditanza nei miei confronti. Anche quest'anno ho eletto a dimora la solita grotta sul solito scoglio distante dieci battute d'ala dalla terraferma: non mi dispiacciono più di tanto gli umani, ma preferisco tenerli a debita distanza.
Le giornate trascorrono monotone tra pescate, voli acrobatici disegnati tra le folate impetuose dello scirocco che su questa striscia di terra insinuata nel mare spira almeno duecentocinquanta giorni all'anno, sopralluoghi nel Castello Angioino o sulle piazzole che si inseguono lungo la cerchia di mura che cinge la città vecchia ed interminabili, languide soste terapeutiche sulle terrazze candide ed assolate.
Ma dopo il tramonto, dopo ogni tramonto, il mio scoglio si trasforma: nell'arco di pochi minuti, la confluenza di tutta la colonia di gabbani, coprendolo completamente, ne ha modificato il colore della superficie da rosso in grigio e lo ha reso un elemento vivo, un cuore pulsante. Al centro, immancabilmente, ci sono io e tutti si aspettano che racconti di nuovi posti che la pigrizia non permetterà mai loro di vedere.
   E stasera parlo loro di un posto in cui, più di duemila anni fa, presero terra, dopo una tremenda burrasca, pochi marinai stanchi ed affamati. L'imbarcazione era ridotta ormai ad un rottame. Era impossibile sia proseguire il viaggio che tornare nella natia Ellade.
La costruzione di una barca avrebbe necessitato di tempi lunghi e perciò si cominciò col costruire un rifugio. Il clima buono, l'acqua ed il cibo facilmente reperibile e le contadinotte del vicino villaggio disponibili fecero si che le capanne aumentassero fino a formare un villaggio (cui pomposamente diedero il nome di CITTA' BELLA) che, col passar del tempo, diventò uno dei più importanti centri commerciali del Mediterraneo.
   Quel villaggio esiste ancora oggi ed è posto su un'isoletta legata alla terraferma da un sottilissimo ponte.
    Le primordiali capanne sono state sostituite da bianche case che sulle facciate ostentano la ricchezza degli umani che vi hanno abitato.
Nel reticolo di stradine che dalla cinta muraria convergono verso la bellissima Cattedrale si aprono atri in cui è possibile ammirare, a volte barbaramente deturpati dal vento e dall'incuria, veri capolavori architettonici.
La Vecchia Fontana ormai da molti decenni non versa più acqua e i suoi bassorilievi non sono più in grado di cantare l'amore.
    E' notte fonda. Il mio uditorio, compresi i nati delle ultime covate che hanno smesso di beccarsi a vicenda, continua ad essere molto attento e tutti sognano il posto fantastico del quale sto narrando.
    Quando, stanco, li mando a dormire, non dico loro che ho raccontato di GALLIPOLI, dell'isoletta poco distante dallo scoglio sul quale siamo, della cittadina che vedono ogni giorno senza guardarla.

Valerio PACCIOLLA