Illustrazione sugli stemmi dipinti nella Sala del Palazzo Comunale di Gallipoli di Vincenzo Dolce

In seguito dell'accennato scudo evvi quello di

GABRIELE SANSONETTI

Antichissima altresì era la famiglia Sansonetti dal Lumaga annoverata fra le patrizie di questa Città, ma negletta dal cronista Camaldari. Gabriele Sansonetti fu Sindaco nel 1505 e 1507. Giglielmo nel 1526. Cesare nel 1630. Giuseppe nel 1639. Diego nel 1647. Andrea nel 1663. Altro Diego nel 1687 - quindi scomparisce dagli stemmi, ed ora anche non è più. Ritroviamo che Annuccia Sansonetti fu moglie di Baldassarre Rajmondo morta nel 1700, e che fuvvi Elisabetta Sansonetti, di cui fra breve a distesa parleremo.
Con la sconfitta totale de' Francesi il Regno rimase interamente sottomesso a Spagna. Consalvo tenne un general Parlamento in Napoli, ed ivi intervennero anche i Sindaci di questa Università. Ferdinando il Cattolico vedovò d'Isabella, e sposò poscia Germana di Fois figlia di sorella dello espulso Federico. I nostri Sindaci per le dovute congratulazioni andarono in Napoli, ove il Re si era conferito, e ritrassero a prò di Gallipoli un diploma a 23 Febbraio 1507 confirmante gli antichi privilegii ed accordandone de' novelli.
Nobilmente, e con lusso mantenevasi la famiglia Sansonetti. Amantissima della pesca e della caccia, essa diffondeva le sue dovizie a questi due piacevoli divertimenti. I cani da fermo, da punta, da leva le costavano a caro prezzo venutili dalla Spagna, ed i più bei cavalli andalusi nitrivano nelle sue scuderie. Elisabetta Sansonetti amava la pesca, e dalla sua barchetta vogata da' suoi servi essa gittava l'amo, e tiravane i più squisiti pesci, e le più grosse triglie, che somministra il nostro mare. Bella era Elisabetta e di gentile aspetto. La sua chioma inanellata scendevale dagli omeri insino alle spalle quando vestiva da pescatrice, o da cacciatrice, avvegnachè amante era pur anche della caccia. Il mento rotondetto, occhio nero e vivace, la sua faccia s'incarnava di rosa, quando il pesce inghiottito l'amo le strappava la corda, cui era legato. La famiglia amava teneramente Elisabetta, che formava il brio, l'ornamento, e la gioia del suo casato, in modo che sullo scudo in campo azzurro egli inquartò un pesce, simboleggiando l'amor della pesca, da cui fortemente era tratta la sua Elisabetta.
Un dì mentre ella dal mare volle discendere sul lido arenoso posto a borea del nostro Territorio, onde sostare ad una sua masseria, che oggi pur anco appellasi Sansonetti, vide su quelle arene assiso in atteggiamento assai triste quel Gabriele Calò, di cui parlammo. Era costui pur avvenente di sua persona, e quel sembiante pallido e melanconico più caro lo rendeva a chi lo mirasse. Messer Gabriele, gli dice ella, come tu qui soletto, e senza arnesi da caccia?  qual avventura ti mena in questo lido solitario?  Ah! comprendo ?.. quella notte fatale ?? quella croce laggiù ??povera giovane! - Gabriele come volesse raccogliere le idee smarrite la guarda fiso, e poi risponde: Madonna; quella notte tremenda è sempre presente all'animo mio, ed un gelo di morte s'impadronisce delle mia membra quando là si fissa il mio pensiero; ma una gioia m'inebbria e mi trae fuor d'ogni sentimento quando veggo quel mostro nuotar nel proprio sangue. Allora io bacio quella lama che lo trafisse, io la veggo ancora intrisa di quel sangue e ne godo, e ne gioisco ?. Ma! Maddalena non è più! ?.e le sue ossa scarnate son laggiù sepolte ? ed io son vivo! ?. Spesso in candida veste avvolta io vidi la sua bell'anima vagolar per queste contrade, spesso m'accingea a raggiungerla e dileguavasi dalla mia vista ? Gabriele, ripiglia Elisabetta, questi tuoi vaneggiamenti non sono da uomo, né da cristiano; l'anima di Maddalena è in seno all'eternità, e non turbare i suoi riposi con inutili lamenti. Dio tanto permise, e chi può penetrare negli alti decreti di lui? Vieni dunque meco, entriamo nella Masseria di quì non lunge di mia spettanza a ristorarci con fresco latte. Gabriele tace, e giungono. Egli allora calmo e dignitoso accettava l'offertagli bevanda, e le cortesie spiegarone la possa loro fra la Dama e il Cavaliero, che vaglia il vero la civiltà era grande in quei tempi fra gentiluomini, e scrupolosamente dovea osservarsi. Indi Elisabetta ripigliò: Ebbene Gabriele, io da ora t'invito ad una gita di caccia, noi andremo non con lo zimbello a quella de' tordi, ma col falcone, e poscia passeremo a levar lepri col falcone pur anche.
Non sai tu chè bel falcone io mi tenga?
Mentre cacciava con alcuno gentiluomini amici di mia famiglia in quel maccheto elevato sù quel monticello, che appellano "Grosso di Racale", io levo una lepre, e tosto tolgo il cappelletto al mio falcone terzuolo, il quale si slancia mirando la preda, e già la ghermisce, quando dall'alto volar vedesi un altro falcone, che facendo larghi giri sul mio capo, parea che sul mio braccio volesse posarsi. Allora tramando il consueto fischio, esso si posa sul mio pugno. Ma qual fu la mia sorpresa quando vidi al suo piè legata una catinella di argento con una mezzaluna di oro al fine della stessa? Tosto compresi che il falcone si apparteneva a qualche signorotto di Affrica di religione maomittana . Il suo falconiere conobbe che era educato a ghermire uccelli, e pertinente alla famiglia degli altani. Belle prede di merli, e colombi ho fatto io con questo Falcone, ma sempre ho tema di perderlo non essendo cresciuto ed educato dal mio Falconiere. Ne ho pur anche due altri indocili sul principio ad ogni fatica, ma ora pieghevolissimi, e molto bene addestrati. Uno vola a distesa per gli uccelli svolazzanti orizzontalmente, l'altro a riviera per la caccia delle anitre, e molte prede ho fatto in queste paludi nel mese di Marzo quando a grossi stuoli tali uccelli passano per questi luoghi. - Anch'io, risponde Gabriele, mi dilettava della caccia; i miei levrieri e il mio cavallo bajo facean prodigi, ma non usava Falcone che richiede tempo e pazienza nell'addestrarlo. Dunque, ripiglia Elisabetta, fisseremo un dì per la caccia col falcone e col cavallo.
L'ora facendosi tarda, i nostri interlocutori, ritornarono alla riva; ognuno entrò nel proprio battello, e di conserva giunsero in Città, ritirandosi alle rispettive famiglie. Ma da quel dì Elisabetta sentiva nel suo cuore un affanno, per cui perdeva il natural suo brio, e le sue guancie non si coloravano più di quel roseo incarnato, che la rendeva bella oltremodo. Ella dunque soffriva: l'immagine di Gabriele era sempre presente all'animo di lei, e senza avvedersene lo amava; ma colui non le poteva corrispondere per Maddalena che più non era, e giusto perché più non era, deliziavasi Elisabetta in un avvenire avventuroso. Però le forti e veementi passioni, ancorchè spenta la causa, difficilmente divelgonsi da un cuore nato soprattutto sotto il fervido sole d'Italia. Forse anche Gabriele avrebbe giurato di non amar altra Donna, e per noi il giuramento è sacro.
Giunge finalmente il giorno della caccia. Tutto è movimento nella Casa Sansonetti. Famigli, capo Falconiere, il Cavallerizzo, il Capocaccia tutti in ordine. Un nitrir di cavalli, un abbajar di cani, un tintinnio di guinzagli odesi nel cortile di quel palazzo. Finalmente per via si sente lo scalpitar di un cavallo, e giunge Gabriele Calò sul suo bajo. Ad un cenno scende Elisabetta col fratello minore Guglielmo. Era vestita in abito da caccia con giubbetto corto di velluto nero intessuto a seta, ed affibiato in oro nel seno, largo cappello alla spagnola, che or chiamano all'Ernani per preservarsi da' raggi del sole, calzoncino assettato bianco di finissima pelle, scarpette con piccoli tacchi e bassi, e monta sul morello. Scambiato un cortese saluto, la compagnia s'incammina unita. Qualche motto giulivo mentre i cavalli camminano di buon trotto. Già i raggi del gran pianeta incominciano ad indorare le cime degli alberi, e già il Falconiere offre a Madonna il Falcone della Mezzaluna: ella se lo posa in pugno, ed ecco svolazzar tordi e merli essendo una bella giornata di Ottobre. Toglie il cappelletto, si slancia il grifagno altano, ed afferra tosto la preda. La gioia ed il contento brillano nel cuore di tutti, avvegnacchè il tempo era bello ed abbondante l'uccellazione. Così passarono parecchie ore, quando Gabriele priegò Madonna a cacciar egli la lepre co' levrieri,  e col suo cavallo. Tosto si ordina la cacciata, e già da un cespuglio sbuca fuor la bestiuola. Sciolgonsi i levrieri. Gabriele sprona il destriero, si lancia a gran scappata, e la insegue per balze, per monticelli, e per burroni. Inseguita da' cani prende il largo verso quell'ampio maccheto ov'è costruita la Chiesa in onor della Vergine delle Grazie. Gabriele sembra un fulmine, fugge curvo in arcione, e s'inoltra verso quelle cave, che ora il volgo appella Tagliate, caverne profonde, da cui estraevansi, e tuttavia si estraggono le pietre per costruir palazzi ed edifizii, quando del tutto cavallo e Cavaliere scompariscono dalla vista. Elisabetta, che sebbene lungi, lo seguiva sempre col guardo, vistolo di repentine scomparire, grida soccorso alle sue genti. Accorrono, chiamano e niun risponde, guardano intorno e nulla veggono. Tornano i levrieri col muso tinto di sangue, avendo sbranata la preda. Sopraggiunge Elisabetta ed accenna alle cave, fissan gli sguardi entro di quelle, e mirano laggiù, pesti, schiacciati, e morti cavallo e Cavaliere. Fu sventura, o volontà di Gabriele di morire come la sua Maddalena? chi potrà giammai saperlo?
Da quel dì la Sansonetti visse in umile ritiro. La religione fu il solo conforto di lei. Ebbe lunghissima vita, che dedicò ad opere di pietà, e prima di morire legò i suoi beni onde costruirsi il venerabile Monastero di Santa Chiara.
Dappresso allo scudo di questa famiglia appare quello di

CARLO MUZI

Questa famiglia di origine romana, e per antichissima tradizione creduta discendente dalla Casa de' Scevola, fu una di quelle che scamparono dal ferro de' barbari, i quali invasero e distrussero l'Impero Romano. Menzionata dal Camaldari fra le antiche qui esistenti fin dal secolo 13° sempre ha occupato cariche ragguardevoli, ed ha contratto nobili parentele.
Rileviamo dagli stemmi, che Carlo Muzi fu Sindaco nel 1511. Antonio nel 1636. Altro Antonio nel 1717 e 1718. Giangiacomo nel 1732 e non più poi comparisce fra gli stemmi sindacali, sebbene ancora esistesse, e vivesse decorosamente. Taddeo Barberini figlio di Matteo Principe di Palestina e Grande di Spagna fu marito di Silvia Duchessa Muzi, ereditiera del Duca Giacomo Muzi. Carlo Muzi discendente di costui si osserva Sindaco in Gallipoli, ed è il primo di questo casato, che quì comparisce, e sposando Maria Sermagistri, ebbe un figlio a nome Giovan Giacomo, che prese in consorte Lucrezia Scaglione, della cui famiglia in seguito parleremo. Giovan Giacomo passò in Lecce, annoverato fra le distinte famiglie di colà, e fatto Sindaco. Egli fu fratello uterino di Giovan Giacomo Lazzari, che lasciò molti beni per l'erezione del Seminario, e della Cattedrale di Gallipoli.
La famiglia Muzi ebbe dottori, e sacerdoti, e fra questi il Canonico Teologo D. Niccolò, che anche fu Decano di questa Chiesa, una Monaca in S.Teresa a nome Maria, e Carlo Giudice della Vicaria, che poi morì Presidente della Regia Camera della Sommaria, uomo dottissimo, ed insigne per scienze e per morale. Fuvvi ancora D.Niccolò giureconsulto di rinomanza, il quale molte volte in Gallipoli occupò la carica di regio Giudice. Eravi eziandio D.Antonio, ch'ebbe due maschi D.Vincenzo e D.Giangiacomo, e dal matrimonio del primo di essi con la signora Caterina Valentino nacque Raffaele or dimorante in Napoli, giovane egregio per morale, per costumi, e per dottrina.
Lo stemma antico di questo casato era un braccio immerso nel fuoco dinotante il fatto di Scevola, ma lo scudo dipinto nel Comune presenta un braccio da sinistra a destra tenente in mano una croce, simbolo de' crociati, che andarono in Palestima.
Indi osservasi lo scudo di

MATTEO MUSURU'

Era la famiglia Musurù ragguardevole, antichissima, e molto distinta di questa Città. Ora più non esiste, ed i suoi beni caddero al casato Munittola.
Sembra che sia greca di origine, né ci opponiamo indarno, poiché qui trovavasi il sacerdozio di rito greco, e Galateo ci fa noto che i proprii antenati di lui erano sacerdoti greci, e conosciamo che il cronista Camaldari fu l'ultimo sacerdote greco di questa Cattedrale. Il primo personaggio che si presenta de' Musurù è Matteo Sindaco nel 1512, quindi Francesco nel 1521 e 1529. Gabriele nel 1546. Francesco nel 1548. Giovan Pietro nel 1617. Ottavio nel 1637. Carlo nel 1660, e poscia non più comparisce alcuno de' medesimi.
Lo scudo di questa famiglia è diviso in due parti orizzontalmente: l'inferiore presenta un campo giallo, la superiore un campo azzurro con un braccio da destra a sinistra avente in mano una croce, col motto Settual. Nel medio evo erano comuni i giuochi di lettere, che site in un modo non presentavano significato alcuno, ma collocate in un altro lo davano assai bene. Or queste lettere spegano valde stetit. Nel giudizio della croce, di cui parlammo, qualcuno della famiglia Musurù resistette e vinse, e l'orgoglio dinotato dal colore giallo poteva addirsi ad uno che avea conseguito cotanta onorifica vittoria.
Poche notizie si hanno intorno a questa famiglia. Oltre il nome de' Sindaci, che ha dato alla Città, si menzionano Marco Musurù filologo profondo chiamato in Roma da Leone X per insegnare le lettere greche, creato poscia Arcivescovo di Epidauro, e dal Giovio molto encomiato, ed il canonico Teologo arciprete di questa Cattedrale Giovan Pietro Musurù, che visse nel secolo XVII. Quest'ultimo fu acclamato Principe dell'Accademia de' Naufraganti in Napoli, recitò il panegirico di S.Oronzio, che pubblicò per le stampe sotto il titolo di Nilo animato, scrisse un'opera intitolata elogia sacra, moralia et civilia, e le meditazioni sopra gli evangelii delle domeniche di tutto l'anno; finalmente egli fu l'ornamento del clero gallipolino; e quì cade in acconcio osservare che questo Clero fin dal tempo del Camaldari, il quale nelle sue memorie ne fa onorata menzione, sempre si è conservato, e tuttavia si conserva dotto, dignitoso, saggio ed esemplare; egli forma il decoro e l'ornamento di questa Città. Calmo ne' suoi giudizi, tranquillo, e prudente nel suo operare, di nascosto ammonisce, corregge il vizio, e richiama dolcemente i traviati al retto sentiero senza scandalo, e senza clamori, ma con tutta la carità che si addice al vero cristiano. Tali prerogative si scorgono non solo ne' venerandi vecchi sacerdoti, ma eziandio ne' più giovani, che sull'esempio de' primi proseguono a percorrere la medesima santa carriera.
Dopo lo scudo di Musurù si osserva quello di

GIROLAMO SCAGLIONE
                                       
Quando nel 1501 la Città capitolò col Gran Capitano Consalvo fra gli articoli della resa restò fermato "che l'entrate del Casale di Salve e del Feudo di S.Giovanni si abbiano a restituire ad Antonio Scaglione e a Donna Erminia nostri concittadini". Stabilire la resa di una Città, e considerare i particolari interessi di una famiglia, chiaramente ciò fa conoscere che dessa non solo è amata dall'intera Università, ma rispettata ancora per la sua nobiltà, e per i benefizii che abbia potuto impartire. Difatti Camaldari asserisce essere i Scaglioni Baroni, e primi gentiluomini della Lizza e di Gallipoli, e Filadelfo Mugnos, che siano Baroni di Salve, e di Castiglione. Nobile era dunque questo casato  quì esistente anche nel 13° secolo. I soli che si presentano fra gli stemmi sindacali sono Girolamo nel 1515, e Carlo nel 1525. Si nomina pur anche Salvatore Scaglione, che fu Teologo e Maestro Carmelitano.
Antonio Scaglione con la sorella Erminia trovavasi ne' suoi Feudi quando Consalvo assediava la Città. Ambi a cavallo seguiti da dodici servi con le alabarde aprironsi la strada, ma senza ferir colpo, in mezzo al campo nemico, che stupefatto da tanto ardimento non attaccolli, e quando la Città aperse loro le porte, e gli accolse nel suo seno fra le grida di giubilo di tutto il popolo, Consalvo si morse le labbra per aversi fatto sfuggire sì ricco ostaggio.
Fu Erminia Scaglione promessa sposa di Pietro Sermagistri. La guerra con gli Spagnoli ne avea sospes le nozze. Quando si capitolò ripigliaronsi le trattative. Sermagistri un giorno trovò la sposa nel suo gabinetto, che leggendo piangeva. Voi piangete, Erminia, e che libro è dunque mai cotesto? Si, piango ella rispose, quando penso che un uomo per la sua fedeltà abbandona patria, parenti, amici, e siegue la sorte, e le sventure di un altro amico infelicissimo, e meritevole d'una compagnia, che lo sollevi nel suo infortunio. Io piango a questi versi del nostro poeta
        Parthenope mihi culta, vale, blandissima siren:
        Atque horti valeant, hesperidesque tuae,
        Mergellina vale???.
A tali parole con mesto accenno pronunziate cadde una lagrima su quella pagina, e Sermagistri la priegò a sospenderne la lettura chiedendo in grazia di legger egli quel libro. Reduce in Casa Pietro lo apre, e bacia la pagina bagnata dalla lagrima di Erminia, esso conteneva gli epigrammi di Sannazaro scritti allor che abbandonava Napoli esule volontario per seguire lo sventurato Re Federico; ma nello svolgerlo rinviene un foglio: Consalvo scrive di amore ad Erminia! Intanto ella vi acconsentiva? L'animo di lei puro ed innocente potea rendersi maculato da quello scritto? Sermagistri currugò la fronte. Di matrimonio non più parlossi, e la famiglia Scaglione tramutò la sua stanza in Lecce.
Bipartito verycalmente era lo scudo di questo casato. Nella parte destra vi stava in campo azzurro un Leopardo alato rampante, simbolo di possanza. Nella parte sinistra in campo di argento s'intersavano tre fasce rosse da dritta a manca, dinotanti i tre Feudi che possedeva di Salve, Castiglione e S.Giovanni.
Accanto a questo scudo appare quello di

AMATO LOMBARDO

Antica e molto distinta era altresì la famiglia Lombardo, che il Camaldari fa qui esistere fin dal secolo 13°. Egli nella sua cronaca menziona che nella nostra Cattedrale furonvi Sacerdoti di Casa Lombardo, cioè Niccolò prete greco dotto, buon cantore, e confessore, e Carlo. Il solo, che comparisce fra gli stemmi è Amato Sindaco nel 1519, e si ha per memoria che l'antico orologio della Città posto nel luogo medesimo, ove trovasi l'attuale fu costruito per cura e spesa dell'Università sotto il sindacato del gentiluomo Amato Lomabrdo. Null'altro possiamo aggiungere essendo perfettamente privi di ogni notizia. Il suo scudo ci presenta in campo azzurro un Leone poggiato sur un piè simboleggiante la forza di quel casato posseditore di molti predii rustici, alcuni de' quali nel conservano ancora il nome, e sulla testa del Leone sonvi due stelle d'oro dinotanti lo splendore, in cui nella floridezza de' suoi giorni esso si ritrovava.

Vitantonio VINCI