Fattucchieri e magia dotta tra il Cinque e il Seicento a Gallipoli

Il volume di Jean-Michel Sallmann su Chercheurs de trésors et jeteuses de sorts. La quête du surnaturel à Naples au XVIe siècle (Parigi 1986), quale studio dettagliato, e condotto in modo qualitativo, di un processo napoletano per magia, seppur basato su un campione di documenti molto limitato, è ritenuto utile nel suggerire gli stretti legami, a livello locale, tra magia popolare e magia dotta (o di élite) nel Regno di Napoli.
A praticare la cosiddetta "magia dotta" (che, a differenza di quella popolare di competenza femminile, era una prerogativa essenzialmente maschile) erano principalmente chierici e "civili" (la classe professionista dei medici e degli avvocati), che facevano uso di libri di formule magiche come la Spada di Mosè (per la cura di malattie) e la Chiave di Salomone (per trovare tesori nascosti), spesso circolanti clandestinamente in versioni manoscritte, gelosamente custodite.     L'utilizzo di materiale manoscritto si giustificava non tanto per la difficoltà nell'ottenere copie edite o per paura di incorrere nell'accusa di possesso di materiale proibito, quanto per la risaputa inutilità dei testi a stampa: il libro, difatti, per essere efficace nei riti, doveva essere riprodotto, usando penna e carte consacrate, dal mago stesso, preferibilmente da una copia scritta da un mago rinomato. Pertanto, mentre le fattucchiere potevano appellarsi solo alla tradizione orale ed alla trasmissione di una cultura prevalentemente femminile, gli intellettuali vantavano un metodo "scientifico" e utilizzavano nei loro esperimenti tutte le risorse della loro conoscenza della magia, dell'alchimia e dell'astrologia.
Ben si comprende, dunque, perché la magia dotta costituisse, di gran lunga, una minaccia più grande per la Chiesa, presumendo essa di offrire una cosmologia alternativa, espressa con più chiarezza della magia popolare, la quale, al contrario, tendeva verso il particolare e il difensivo, non assumendo alcuna esplicita dottrina.     
Le sue funzioni erano quindi espresse nella figura del negromante - come veniva generalmente chiamato chi esercitava la magia demoniaca -, più interessato alle applicazioni pratiche, come la magia protettiva e amatoria, che alla speculazione neoplatonica e filosofica, che, nel regno di Napoli, raggiungeva il culmine alla fine del Cinquecento. Era, pertanto, il sistema su cui si reggeva un tale figura e la circolazione dei suoi testi segreti a preoccupare molto la chiesa post-tridentina.
Eppure, la lettura degli editti vescovili otrantini (del 1576) relativi a questa problematica, evidenzia certamente la medesima condanna (la scomunica, nella gran parte dei casi) per l'esecuzione di rituali diversi tra loro (come quello di guarigione, della magia d'amore, delle fatture malefiche e della caccia al tesoro), in quanto si credeva che il loro potere derivasse comunque dal diavolo ("Scomunicamo quelle persone che faranno incanti, et getteranno sorti, faranno magarie, ligature, sortilegi rimedij per fare disertare le donne gravide, et ogni altra cosa simile proibita dai sacri canoni, et quelli che riceveranno tali incanti, rimedij, vivande, magarie, et medicine et quelli che saranno complici et consentienti"; "Castighino severamente i Vescovi, i Maghi, i fattocchiari, e chi ha patto o convention col Diavolo: e similmente punischino gl'Indivini, quei che attendono alle sorti, alle conietture, all'Astrologia, per la quale affermano, che certamente avverrà qualche cosa, e quei che nel pigliar un viaggio o qualche altra impresa, osservano i giorni, i tempi, i momenti, e simili altre osservanze, et in oltre abbrucino i libri de' quali si servono, e sopra tutto osservino e diligentemente procurino che le Streghe, delle quali questa nostra Provincia è copiosa, sien del tutto levate via, et esterminate").
Ad interessare in modo particolare gli avvocati, i notai, i preti e i frati che esercitavano la magia diabolica era principalmente la scoperta di tesori sepolti (la mitologia locale faceva spesso riferimento a castelli, monasteri e cappelle in rovina come siti in cui essi potevano trovarsi), come dimostra una nota vicenda giudiziaria svoltasi nella diocesi di Lecce nel 1698, durante l'episcopato di Fabrizio Pignatelli.
Il processo vide coinvolto il ventenne Francesco Colella di Martano, il quale, nel corso dei quattro anni precedenti, aveva visto accrescersi in Terra d'Otranto la sua fama di visionario e scopritore di Madonne, con l'ausilio di un manuale manoscritto di segreti.
Dell'attività giudiziaria relativa alla magia dotta l'Archivio storico diocesano di Gallipoli conserva due processi, entrambi celebrati, tra il Cinque e il Seicento, durante l'episcopato di Vincenzo Capece. La prima causa, del 1596, è quella che vide il gallipolino Giovanni Venneri accusato di pratiche di fattucchieria e sortilegio: l'imputato, che si era spesso vantato del suo riuscire a proteggersi dalle archibugiate e dalle coltellate semplicemente indossando un certo anello, (affermava: "io commando li diavoli" e "non mi può nocere cosa alcuna"), aveva parlato alla sua vicina Virginia Rizza del suo potere sulle donne, e avendole mostrato alcuni scritti aveva dichiarato: "Farò ritrovare in casa mia quella donna ch'io voglio perché ho lo libbro di nigromantia".
Ma interessante sotto molti aspetti è sembrato soprattutto il secondo processo, celebrato nel 1620 (in quella fase, dunque, di ripensamento della questione della stregoneria messa in moto dall'Inquisizione romana, come riportato da chi scrive nel precedente numero della rivista), relativo al decesso inspiegato del piccolo Vasco d'Acugna, infante di sei mesi, figlio di Elisabetta Venneri dei baroni di Tuglie e di don Giuseppe Vasques d'Acugna, rampollo di Pietro seniore, spagnolo insediatosi nella cittadina ionica nel corso del XVI secolo (il cui lealismo verso la corona di Spagna appare emblematicamente espresso in un'epigrafe incisa sul prospetto del palazzo).
Da premettere è quella convinzione, diffusa nella mentalità popolare dell'epoca, ma non solo in essa - e ampiamente trattata da Ernesto De Martino in Sud e magia (Milano 1959) - che la malattia come la morte non fossero quasi mai fatti naturali, quanto piuttosto eventi provocati da forze maligne occulte. In particolare, di fronte all'alto tasso di morbilità infantile ed agli impressionanti livelli raggiunti dalla mortalità neonatale, la medicina ufficiale, non ancora emancipatasi quale scienza, lasciava ampi margini alla credenza secondo cui l'"esistenza fragile" e "precaria" dell'infante, specie al momento della nascita e dopo lo svezzamento, fosse "particolarmente propizia alle insidie dell'invidia e del malocchio" (De Martino).
Ad attirare l'attenzione su questo documento è stata dunque, innanzitutto, la difformità di questo particolare caso di fattucchieria dallo stereotipo della stregoneria muliebre e indotta: in questa vicenda gli imputati sono tutti di sesso maschile e uno di essi, oltre a svolgere la professione di notaio, appartiene ad una famiglia aristocratica e colta, più volte distintasi nel campo delle lettere e della giurisprudenza.
Altro motivo di interesse risiede nel luogo di provenienza degli imputati, tutti di Galatina, una cittadina che, come più volte riportato dallo stesso De Martino ne La terra del rimorso (Milano 1971), intratteneva in Terra d'Otranto un rapporto elettivo con il mondo magico. A questi elementi di riflessione se ne associano altri sul sistema dei rapporti tra i fattucchieri e le loro vittime e sul ruolo svolto nella collettività da queste ultime, esponenti di quella nobiltà emergente che proprio nel Cinque-Seicento comincia ad associare alla preminenza economica e sociale la gestione del potere pubblico. Del resto, il ruolo sociale dei d'Acugna, di importanza decisiva nello sviluppo della vicenda giudiziaria, emerge chiaramente dall'esame del fascicolo processuale, soprattutto attraverso la descrizione dell'arresto dei presunti colpevoli, precedente all'intervento del locale tribunale ecclesiastico.
Nei giorni immediatamente precedenti la morte del bambino, infatti, sotto il limitare di una porta della dimora gentilizia dei d'Acugna, era stata trovata una fattura, costituita da una figurina di cera trafitta da una scheggia di legno, legata con un nastro di seta annodato e avvolta in carta. Come si apprende dagli interrogatori dei testimoni, Elisabetta Venneri, aprendo l'involucro, "disse che questa è trista cosa et è fattura et così incominciò ad havere paura et la mostrò all'altre Signore di Casa, quali tutte dissero ch'era fattura et tutte tremavano per la paura".
Immediatamente Giuseppe d'Acugna si pose sulle tracce del galatinese Jaco Antonio Meleca, da lui ritenuto artefice del misfatto. Questi, una volta catturato, cercò di scagionarsi dall'accusa di sortilegio, rivelando l'identità del committente della fattura, il "fabricatore" Orazio Mollone, suo zio, galatinese ma dimorante in Gallipoli, su richiesta del quale il notaio Donato Maria Vernaleone, anch'egli di Galatina, avrebbe ordito il maleficio. L'arresto di questi ultimi, rispettivamente nelle carceri di Gallipoli e Galatina, comunque, agli occhi delle vittime non ne avrebbe neutralizzato gli esiti infausti, data l'improvvisa morte del bambino (che, a detta delle donne del vicinato, "al mattino steva benissimo") e la grave infermità di dubbia natura che invece colpì la madre. Profondamente convinto dell'origine diabolica degli eventi, Giuseppe d'Acugna decise allora di investire della questione il tribunale ecclesiastico di Gallipoli, competente per materia (sospetto di eresia) e per territorio. Le interrogazioni del vicinato vennero ad accrescere gli indizi già gravi contro gli imputati; in particolare, Orazio Mollone - uomo "assai povero", come egli si definì, e, nonostante la giovane età (28 anni) sposato da dodici - fu qualificato con certezza (da individui che lo stesso imputato, nel suo interrogatorio, avrebbe poi elencato tra coloro che "tiene per inimici capitali") come furfante,  truffatore "al servizio" del notaio stregone e, nello specifico, "magaro", "mezzano di magarie" e "gran mastrone di fattocchiarie". Dalle testimonianze emerse, inoltre, come sino all'epoca del matrimonio di Giuseppe d'Acugna con Elisabetta Venneri, il Mollone e sua moglie avessero offerto occasionalmente, ma con una certa continuità, i propri servigi alla famiglia pur non essendone salariati fissi. E forse proprio nel brusco allontanamento dalla casa dei d'Acugna e dai cespiti risiedeva il motivo del risentimento covato dal Mollone contro la famiglia, che di lì a poco, dopo la scomparsa del proprio bambino, sarebbe esplosa in un odio profondo. Dopo la verbalizzazione delle testimonianze, il vescovo Capece intimò all'autorità laica, presso la quale il Mollone era detenuto, di consegnare il reo, "valde heresi suspectum", alla giustizia ecclesiastica.
Di particolare interesse è la deposizione di fra' Pacifico da Lecce, minore conventuale perito in sacra teologia e "custos huius provinciae", quale testimonianza dell'importanza attribuita dai vescovi alle diagnosi possessioniste ed alle terapie esorcistiche adottate dagli ecclesiastici, e, dunque, della non contrarietà della Chiesa all'adozione di rimedi magici di propria fabbricazione.
Il frate, fatto arrivare da Nardò, e chiamato dalla potente famiglia del bambino, prima della morte improvvisa dello stesso, per accertare che si trattasse di fattura ed eventualmente per procedere alla pratica esorcistica, apparve decisamente convinto del trattarsi di infestazione ed ossessione diabolica, adottando senza indugi le contromisure del caso. Il suo laborioso intervento esorcistico operato su Elisabetta Venneri e durato ben quattro giorni sarebbe iniziato con la preparazione di "un breve di carta benedetta, ruta benedetta, cera benedetta e sale ciorlitato", per una prima protezione della donna. A questo sarebbero seguiti vari esorcismi, durante il primo dei quali la signora "incominciò a tremare, a palpitare la bocca et le braccia et tutto il corpo". Successivamente, il frate, avendo identificato nella fattura la causa della malattia della donna (e della morte del bambino), chiese al vescovo Capece licenza di bruciarla, ed ottenutala "per via di decreto", "in presentia di molti Homini et donne" fece l'esorcismo "sopra a detta fattura, benediss[e] il foco et l'abrugi[ò] [...] et detta Signora dall'hora in poi s'è rihavuta della infermità et [...] con la gratia del Signore Iddio si confessò, et comunicò detta Signora".
Quanto alle sue pratiche esorcistiche, fra' Pacifico dichiarò apertamente di attenersi agli scritti di fra' Girolamo Menghi da Viadana (anch'egli minore osservante), ed in particolare al Flagellum Daemonum, seu Exorcismi terribiles, potentissimi, et efficaces (condannato dalla Congregazione dell'Indice, nell'edizione di Bologna, Giovanni de' Rossi, 1577).
In effetti, la teologia del Menghi - proprio nel momento in cui la Chiesa cattolica regolamentava l'uso dell'esorcismo con il Rituale Romano, riordinato da Paolo V nel 1614 - propagava superstizione, forme e formule liturgiche non autorizzate, tant'è che anche i suoi Compendio dell'arte essorcistica, et possibilità delle mirabili et stupende operationi delli demoni e de malefici (Bologna, Giovanni de' Rossi, 1576) e Fustis Daemonum, adiurationes formidabiles, potentissimas et efficaces in malignos spiritus fugandos de oppressis corporibus humanis (Bologna, Giovanni de' Rossi, 1584) furono proibiti rispettivamente nel 1707 e 1704. Convinto che Dio sottoponeva i demoni all'azione delle cose sensibili, il Menghi riteneva che per cacciarli servivano medicine, sciroppi e beveraggi, esprimendo, in tal modo, la parte più debole della sua teologia.
Adottato, dunque, il cerimoniale esorcistico indicato dal Menghi, dalle evidenti accentuazioni magiche di un cattolicesimo che trattava l'ossessione con un rituale superstizioso e sensitivo esso stesso, il religioso rispose affermativamente alle domande dei giudici se la causa del decesso del piccolo fosse da attribuire alla fattura, al pari dell'infermità della madre. Dopo aver acquisito questa prova testimoniale, decisiva nell'individuazione del delitto di eresia, il tribunale ecclesiastico, nella persona del vescovo Capece, decise di investire della questione il Sant'Uffizio (secondo una prassi consolidata nell'ambito della magistratura ecclesiastica periferica), che tuttavia dimostrò un atteggiamento scettico, senz'altro motivato dalla volontà di arginare la marea montante dei sospetti di eresia che minacciava di creare fratture insanabili all'interno della comunità ecclesiale.
Per quanto concerne la sorte toccata al notaio inquisito ed al suo discepolo nulla è dato sapere dagli atti processuali gallipolini, sebbene si possa supporre, dati i precisi orientamenti dell'Inquisizione in tal senso, un intervento della magistratura laica, che molto spesso dava luogo a conflitti giurisdizionali con i tribunali ecclesiastici per questioni di competenza. Si conosce, invece, il destino di Orazio Mollone, il quale, venuto meno il capo d'accusa di eresia, fu reclamato dalla magistratura laica, presso la quale risultava detenuto prima del trasferimento nelle carceri vescovili.
Di certo, per concludere, la magia demoniaca colta influenzò fino a un certo punto la magia popolare nei paesi della Terra d'Otranto. Eppure, nonostante la Chiesa le condannasse entrambe, rimanevano due forme distinte di magia. La magia popolare - divinazione, predizione, filtri d'amore e così via - era essenzialmente un'attività femminile, come il regno ad essa connesso e sovrapposto delle tecniche di guarigione popolare. Inoltre, offriva a uomini e donne un modo ritualistico di affrontare situazioni di crisi, di complemento piuttosto che di opposizione al ruolo della Chiesa nella società, dal momento che, per la sua efficacia, dipendeva dal sacro.
La magia dotta, d'altro canto, era un fenomeno completamente maschile, sia clericale che laico, con le donne nel ruolo dì spettatrici passive, che faceva anch'essa uso del sacro perché spesso incaricava i preti di compiere le complicate cerimonie. Offriva una cosmologia ben articolata, in competizione con il monopolio della religione ufficiale, ed il ricorrere ad essa, a livello locale, avveniva non per affrontare le crisi esistenziali, che il più delle volte rientravano nella sfera della magia popolare, quanto piuttosto per localizzare ricchezze sepolte, per proteggersi dalle pallottole e per eseguire incanti d'amore, soddisfacendo alle necessità di coloro che se ne servivano. Eppure, la magia popolare, che non si basava sui testi e non vantava alcun sistema filosofico esauriente, era destinata a durare più a lungo del suo equivalente colto, e a sopravvivere fino ai nostri giorni.

Milena SABATO