Acqua azzurra... acqua nera

Possiamo dircelo, adesso che i turisti sono ognuno nella propria città, distratti dall'inverno e dai doveri del Natale consumistico, possiamo dircelo, senza la paura di danneggiare l'immagine della città e l'"industria" del turismo: il mare a Gallipoli anche quest'anno era inquinato. Il depuratore consortile che scarica sulla costa a nord, poco prima di Torre Sabea, anche quest'estate non ha retto all'esplosione demografica, all'aumento improvviso dell'utenza, dovuto alle presenze turistiche. Il fenomeno non ha però nulla di imprevedibile, poiché sono le caratteristiche stesse dell'impianto di depurazione che serve Gallipoli e i comuni di Alezio, Sannicola e Tuglie a rendere impossibile il corretto funzionamento durante la stagione estiva. In particolare è il dimensionamento ad esser palesemente inadeguato, non tenendo conto della fluttuazione dell'utenza durante la stagione estiva. Logica avrebbe voluto, in un polo turistico come quello gallipolino, che, al carico delle residenze e degli impianti produttivi, fosse aggiunto un "carico fluttuante" che facesse fronte all'afflusso turistico. L'impianto, di conseguenza, avrebbe dovuto prevedere linee di trattamento aggiuntive dei reflui, da mettere in azione proprio in corrispondenza degli aumenti dell'utenza. Così non è stato, e, puntualmente, proprio durante la stagione turistica, il nostro tanto "celebrato" mare dà il peggio di sé. La situazione potrebbe però, a breve peggiorare. Le normative vigenti, (D.Lgs.152/99 e s.m.i.) che disciplinano il recapito finale dei reflui depurati impediscono (per fortuna) infatti, lo scarico in falda. Il problema dei depuratori è quindi trovare un "corpo idrico ricettore" come recapito finale per le acque "depurate" (bene o male depurate). Si sta delineando, in questi mesi, una situazione critica per il nostro mare, individuato come "corpo idrico ricettore" da altri bacini di utenza in merito alla depurazione dei reflui urbani. Per il depuratore che serve i Comuni di Casarano, Matino e Parabita, è stato infatti individuato il "Canale dei Samari" (peraltro ora ricompreso in area protetta) come recapito dei reflui depurati. Purtroppo il "Canale dei Samari", allo stato attuale, altro non è che un triste "tubo" di cemento che trasporta, tutto ciò che vi si riversa, direttamente nel cuore della costa sud, tra la località "Baia Verde" e i complessi alberghieri "lievemente" adagiati sulle dune. Il letto e le sponde cementificate del "Canale dei Samari" gli conferiscono, di fatto, un potere "depurativo" prossimo allo zero. A questo si aggiunga che anche per il depuratore consortile dei Comuni di Taviano, Racale e Melissano è stato individuato, come "corpo idrico ricettore", il "Canale Raho" (che conserva un minimo di "naturalità") il quale, essendo affluente del "Canale dei Samari", vedrà inevitabilmente come destinazione finale dei reflui "depurati", lo stesso golfo a sud di Gallipoli. Costa nord e costa sud saranno quindi interessate da uno sversamento di "reflui depurati" direttamente sulla costa; sommando i rispettivi "carichi nominali", nel mare di Gallipoli, si riverseranno i reflui di depurazione di più di 150.000 "abitanti equivalenti". C'è da ricordare che, sulla costa nord, la "foce" della condotta proveniente dall'impianto di depurazione di Gallipoli, ha di fatto interdetto la balneazione per un chilometro di costa. La situazione si fa quindi quanto mai preoccupante per la ricaduta sulle attività direttamente legate al turismo balneare, stabilimenti balneari, alberghi, campeggi e in genere per l'indotto turistico del comprensorio. Ammettendo che, a differenza dell'impianto consortile di Gallipoli, quelli di Casarano e Taviano funzionino come un orologio svizzero anche nei mesi estivi, è tuttavia inevitabile uno scadimento della qualità delle acque di balneazione in termini di intorbidimento e di odore. La qualità delle acque di balneazione, la qualità del nostro mare, anche se può sembrare superfluo ricordarlo, è alla base dell'economia turistica e produttiva, in pratica l'economia stessa della nostra città, il palcoscenico sul quale la nostra città rappresenta la sua immagine, attraverso la quale si riconosce ed è conosciuta. Per valutare a pieno la situazione è bene mettere in luce alcune differenze tra gli impianti sopra citati: i depuratori consortili di Gallipoli e Taviano, in merito alla "qualità" dei reflui in uscita, fanno riferimento a dei parametri meno rigidi, meno restrittivi (fissati dalla cosiddetta "tabella 1") rispetto all'impianto consortile di Casarano (che rispetta i parametri più restrittivi previsti dalla "tabella 4"). In pratica la "qualità" dei reflui in uscita dall'impianto consortile di Casarano è decisamente superiore a quella dei reflui in uscita dai depuratori di Gallipoli e Taviano, ciò nonostante tutti questi impianti non vanno oltre il trattamento secondario delle cosiddette acque nere. I trattamenti preliminari, primari e secondari garantiscono il livello minimo di trattamento delle acque prima dello scarico: la rimozione di parti solide in sospensione, la disoleatura, la rimozione, da parte della "popolazione batterica" presenti nei "fanghi attivi", di parte della sostanza organica, dell'azoto e del fosforo. Sono i trattamenti cosiddetti terziari, che spesso preludono ad un recupero irriguo dell'acqua, che abbattono in maniera decisa i carichi residui di Fosforo, Azoto, metalli pesanti e sostanze inquinanti refrattarie. Che l'impianto consortile di Gallipoli sia sprovvisto di trattamento terziario e che i reflui, di conseguenza, contengano consistenti tracce, quantomeno di azoto, è un'evidenza che è facilmente appurabile. Oltre ai valori più volte fuori norma riscontrati in estate, basta osservare, sulla scogliera (nella cosiddetta zona mesolitorale), in corrispondenza dello scarico, la formazione di un "cornicione" di alghe nitrofile (alghe verdi) tipiche delle acque ad alto tenore di azoto e "nutrienti" ed in genere una verticale caduta della qualità e un marcato impoverimento della comunità biologica marina tipica del sistema litorale. Poiché a Gallipoli ognuno ha il "suo mare", gli affezionati di quel tratto di costa, già tormentato a suo tempo dallo scarico della distilleria, questi fenomeni li avranno facilmente constatati. Per quanto riguarda l'impianto di Gallipoli è in fase di realizzazione un interevento per l'affinamento e il riuso irriguo dei reflui, che sicuramente costituirà un deciso passo avanti, ma lascerà irrisolti sia il problema del malfunzionamento dovuto al carico fluttuante di utenza durante la stagione turistica, sia il problema del recapito finale degli effluenti depurati.


La condotta sottomarina? polvere sotto il tappeto

"Ci troviamo continuamente di fronte a una serie di grandi opportunità brillantemente travestite da problemi insolubili"
John W. Gardner (1912-2002), scrittore statunitense


L'attivazione dei depuratori costituisce senza dubbio un passo in avanti per il miglioramento delle condizioni ambientali e igienico-sanitarie di un territorio, tuttavia il problema del deterioramento della qualità delle acque costiere, per una città turistica non è un problema da poco. Nel dibattito che recentemente ha suscitato il problema del recapito finale dei depuratori consortili, si è delineata, tra le altre, una soluzione che, a mio avviso, altro non è che la solita "soluzione all'italiana". In Italia e più che mai nel sud delle emergenze è ormai una deleteria abitudine rispondere ai problemi più urgenti, con soluzioni sbrigative e dispendiose che non risolvono, ma alleviano, o peggio, spostano nel tempo o nello spazio il problema. Purtroppo sono già tanti i problemi che abbiamo frettolosamente e maldestramente nascosto e il tappeto mostra ormai la gobba. Così la soluzione della condotta sottomarina per allontanare gli effluenti finali dalla costa ha, a mio avviso, tutti i caratteri della "soluzione all'italiana". Innanzitutto non ci si può dimenticare del fatto che, lo spostamento di 100 o 1000 metri più in là, lontano dalla costa, non depura ulteriormente gli effluenti del depuratore, che se sono stati fino ad ora fuori norma sulla costa, lo saranno ugualmente a 100 o 1000 metri più distante. Ciò che cambia è naturalmente la capacità depurativa e l'impatto che ha tale scarico sull'ecosistema marino, la costa, ovviamente, è un sistema molto più sensibile del "mare aperto". Non a caso il Regolamento Regionale n.5/1989 ed in particolare l'art.10, comma 2, prevede che "Per gli scarichi nelle acque superficiali e marine dovrà essere assicurata la massima dispersione attraverso idonee condotte subacquee di scarico prolungate fino ad intercettare le correnti." E' qui che entra in gioco la particolare forma geografica del territorio. Le due insenature che la penisola-isola di Gallipoli divide sono, per conformazione fisica, due zone a bassa dinamicità. La presenza di cordoni dunali, sia nel golfo a sud, tra Gallipoli e Punta Pizzo, che nel golfo a nord, tra Gallipoli e Porto Selvaggio, sta a testimoniare come queste due insenature siano due aree in cui la corrente "rallenta e deposita". Ciò comporta che, per intercettare la corrente che "accelera e preleva", la corrente che serve ai fini della corretta dispersione dei reflui trattati in mare, si dovrebbe realizzare una condotta sottomarina tanto lunga quanto dispendiosa e dalla proibitiva manutenzione. A questo si aggiunga il fatto che lungo l'intera costa del territorio si estende una grande prateria di Posidonia oceanica, tutelata da un pSIC mare, un ambiente delicato, esigente in termini di qualità delle acque e prezioso per la produttività del nostro mare. C'è infine un altro aspetto che gioca a sfavore della soluzione condotta sottomarina per lo scarico dei reflui trattati in uscita dai depuratori consortili: si spenderebbero milioni di euro, per creare infrastrutture di difficile manutenzione, senza migliorare la qualità del processo di depurazione, sacrificando una parte consistente di prezioso ecosistema marino e il tutto per buttare a mare qualcosa di cui abbiamo un bisogno vitale, l'acqua.

L'opzione naturale: la fitodepurazione

"Ogni cosa che puoi immaginare, la natura l'ha già creata"
Albert Einstein

"Acqua, acqua in ogni dove e neanche una goccia da bere" urlava il navigante disperato ne "La Ballata del vecchio marinaio" di Samuel Taylor Coleridge. Anche noi circondati dall'acqua e con un estremo bisogno di essa, per la stessa incapacità di assecondare e accettare ciò che la natura ci offre, non possiamo farne uso. Così in una terra aggredita dalla desertificazione, dove l'agricoltura soffre la mancanza di una fornitura costante di acqua per uso irriguo, dove la falda arretra prosciugata dai pozzi e incalzata dall'acqua salata, qualcuno propone di spendere miliardi delle vecchie lire per buttare a mare i reflui trattati. Siamo come un poveraccio squattrinato che si accende le cicche trovate per strada con le banconote di grosso taglio!
La soluzione di questo, come di altri problemi, è proprio nella natura, ovvero nella visione ciclica del pianeta come ecosistema chiuso, in cui tutti i processi, quello dell'acqua a maggior ragione, si basano su cicli di risorse disponibili in quantità costanti. La possibilità di utilizzare queste risorse senza renderle indisponibili o inutilizzabili, si basa sulla capacità di creare processi produttivi e di uso i cui residui diventino la materia prima per un nuovo processo o sistema. Si tratta di imitare la natura, come suggeriva Albert Einstein.
Le risorse economiche che qualcuno vorrebbe spendere per l'ennesima elefantiaca infrastruttura da addebitare alle prossime generazioni, potrebbero essere spesi per realizzare stadi successivi, trattamenti terziari, di ulteriore affinamento delle acque che permettano il riutilizzo delle acque in agricoltura, per usi industriali, per la rivitalizzazione di ambienti umidi, per la manutenzione delle aree verdi, per il lavaggio delle strade e per qualsiasi altro uso civile non potabile. La fitodepurazione è un sistema di trattamento di acque inquinate che si basa sui processi naturali, sul potere depurativo che ha il complesso "suolo-vegetazione". Si tratta, in pratica, di "costruire" una zona umida, utilizzando le piante tipiche di questi ambienti. Non si tratta di una novità, non lo è almeno per il resto d'Europa e per il nord Italia dove trova largo impiego (soprattutto Toscana, Emilia Romagna e Veneto), spesso e soprattutto come trattamento terziario integrato a sistemi tradizionali. E' paradossale constatare che chi avrebbe meno bisogno di acqua, si preoccupa di recuperarla. Tra i vantaggi della fitodepurazione c'è innanzitutto una vasta gamma, ampliamente sperimentata, di tipologie che si adattano alle differenti esigenze del territorio e dell'utenza, senza interferire (insetti, cattivi odori?) con i costumi e i bisogni della vita urbana. Sono sistemi intrinsecamente naturali e, come tali, sono caratterizzati da un ridotto fabbisogno energetico e tecnologico. Già perché essendo poche le "macchine" al lavoro, l'usura praticamente non esiste e i costi di manutenzione si abbattono ("quello che non c'è non si può rompere"). La manutenzione del resto è per gran parte lavoro da operai non specializzati, molto simile alla manutenzione di un giardino. Di fatto diversi impianti di depurazione sono diventati delle aree a verde aperte al pubblico, con spazi per la sosta, lo svago, il birdwatching, lo sport all'aperto. La fitodepurazione garantisce inoltre una tolleranza molto più ampia rispetto alle oscillazioni del carico e, coniugata al lagunaggio, delle acque può risolvere il problema del recapito, caratteristiche, queste ultima, provvidenziali per un comprensorio turistico. Rispetto alle altre tipologie di trattamento dei reflui, la fitodepurazione richiede chiaramente un impegno di superficie maggiore. A tal proposito, nel nostro territorio sono diversi gli spazi degradati che giacciono abbandonati, tra questi aree umide e, soprattutto cave abbandonate censite dall'ENEA, tra i siti più inquinati della Regione. Il nostro depuratore sorge proprio in una di queste aree, zona "Madonna delle Grazie" dove ampie cave dismesse, come successo in altre situazioni analoghe, potrebbero accogliere le vasche per la fitodepurazione. Il Canale dei Samari attraversa un'area umida per gran parte colmata e obliterata da decenni di pregiudizio e speculazione, questa sarebbe l'occasione buona per riattivarne la funzione fondamentale negli equilibri ecologici e idro-geologici del territorio.
È un capovolgimento dell'ottica post rivoluzione industriale. La natura, il suo lavoro, i suoi processi, sostituiscono la macchina, forse un colpo troppo forte per lo stupido orgoglio dell'"homo tecnologicus", forse un trauma per la subcultura "dell'usa e getta" e per l'estetica del "brillantante" ammettere che "Dai diamanti non nasce niente dal letame nascono i fiori" (Fabrizio de Andrè).

Enrico ANCORA