Streghe, guaritrici, indovine. Processi per magia nella Gallipoli del Seicento

Tra gli impegni primari della Chiesa cattolica post-tridentina si segnala la necessità di liberare il cristianesimo dai residui di una mentalità religiosa sostanzialmente pagana e intrisa di superstizione, per restituire al messaggio evangelico la primitiva purezza. La società dell'Italia meridionale prese parte, senza dubbio, ad un tale processo di civilizzazione cristiana, secondo quanto dimostrato da numerosi studi di storia ecclesiastica e religione popolare, i quali, successivi al 1945, anno di pubblicazione del noto racconto di Carlo Levi, hanno appurato come Cristo non si fermò a Eboli. In quelle sedi, si discusse su molte questioni teoretiche inerenti alla storia sociale della Controriforma in Italia, e nel Mezzogiorno in particolare (così, il concetto di "religione popolare" e la sua collocazione nella storia socio-religiosa, il rapporto tra cristianizzazione e pietà popolare, il ruolo della istituzioni, l'atteggiamento del popolo e le sue pratiche religiose), cercando, piuttosto, di stabilire in che misura ed in quali forme avvenne questa partecipazione. Si giunse, pertanto, alla conclusione che nel Regno di Napoli i tempi di "realizzazione" della riforma religiosa furono più lenti che altrove, spiegando tale particolare situazione soprattutto con la povera qualità del clero locale (tesi, questa, talvolta smentita, o, comunque, meglio precisata in seguito a specifici approfondimenti), protagonista indiscusso nei processi di mediazione e negoziazione tendenti a conciliare le richieste dei fedeli alle esigenze dell'ortodossia religiosa. Già nel 1971, Gabriele De Rosa, nel suo metodologicamente innovativo Vescovi popolo e magia nel Sud, in contrasto con l'interpretazione che Ernesto De Martino aveva dato della religiosità meridionale come sincretismo magico-cattolico, scopriva una contrapposizione di base fra la Chiesa militante (intenta ad un consapevole sforzo di cristianizzazione della popolazione) e la realtà ecclesiastica (costituita non solo dai fedeli, ma anche da una larga parte del clero), nella quale la presenza di forti componenti magico-religiose frenava l'applicazione della riforma perseguita dalla Chiesa istituzionale. Il discorso cadeva, a questo punto, su quei rimedi contro malattie e sfortuna "sponsorizzati" dalla Chiesa e somministrati da preti e frati, che, in una vasta varietà di sacramentali, ed affidandosi all'intervento divino, includevano preghiere, il rosario, articoli benedetti, "brevi", benedizioni, letture del Vangelo, esorcismi canonici, processioni e pellegrinaggi. "Rimedi ecclesiastici", questi (gli unici rituali preservativi e di guarigione, dunque, ad essere permessi dalla Chiesa), che, a causa della loro cruciale importanza nel trattare situazioni critiche, tendevano, tuttavia, a far sorgere anche molte varianti laiche, quali risposte spontanee, extraliturgiche ed eterodosse a malattie e disgrazie, nel continuo tentativo di portare ordine alla vita quotidiana.
I sinodi e le visite pastorali costituirono le tappe ordinarie di questa opera di cristianizzazione, definita da Gabriele De Rosa "una lotta disperata e molte volte sfortunata per condurre il Sud a una coscienza istituzionale e romana della fede". Ed all'attività di orientamento e di controllo preventivo della religiosità popolare si affiancarono pure forme di sorveglianza coercitive e persecutorie, adottate contro coloro che non aderirono alle prescrizioni ecclesiastiche o le violarono apertamente. In particolare, in un clima di diffidenza generalizzata e di lotta religiosa, la magia - quale arte di controllare, influenzare o prevedere la realtà attraverso il ricorso a pratiche occulte, gesti e parole rituali, e presenza costante nelle vicende quotidiane di tutte le epoche e di ogni società - fu al centro dell'attività repressiva e persecutoria della Chiesa, essendo da questa ritenuta peccaminosa per la mancanza di fede e la vuota superstizione che la messa in atto dei suoi riti denotava. Così, l'assise sinodale gallipolina del 1661, trattando di "magarìe", avrebbe proibito l'uso e l'abuso di "brevi" ("vel schedulas, in quibus sunt admixta verba, signa, caracteres, et figurae ignotae, necnon orationes, in tali, vel tali, membrana, seu charta conscriptas") e articoli benedetti come candele, palme, incenso e acqua santa, che, di solito, venivano presi dalle chiese con il pretesto della pietà e della devozione. Ma, in quell'occasione, l'abuso che avrebbe preoccupato tanto il presule gallipolino Giovanni Montoya de Cardona sarebbe stato quello degli strani caratteri cabalistici che si trovavano spesso scritti su tali brevi, in particolare quando venivano scritti su quella che la magia colta chiamava "carta vergine".
L'atteggiamento di condanna, da parte delle istituzioni religiose cristiane in generale, oscillò, pertanto, "fra la credenza nella realtà effettiva del patto demonico e della dannazione dell'anima di chi si apprestava a compiere simili cerimonie, e il rifiuto, in quanto superstizione, dell'arsenale di riti e formule utilizzate dai maghi" (F. Barbierato).
Sul piano storiografico, gli studi sulla persecuzione della stregoneria in Italia (via via interpretata dalle autorità ecclesiastiche come contigua alla magia) - avviati, già nel tardo Ottocento, con sparse ricerche, limitate a casi particolari, interessate esclusivamente agli aspetti giuridici dei processi e relegate ai margini delle curiosità localistiche - hanno visto un interesse più ampio del fenomeno solo a partire dagli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, quando gli studiosi, in parte sulla scia delle nuove e feconde strade (anche sul piano metodologico e critico) imboccate dalla ricerca sulla stregoneria in Europa (secondo un paradigma di tipo storico-antropologico), cominciarono a interessarsi un po' più ampiamente della problematica. Ma gli studi riguardanti magia e stregoneria nell'Italia medievale e moderna, dopo le originali ricerche di Carlo Ginzburg, incentrate sui rapporti tra cultura popolare e cultura dotta, ignorando, tuttavia, le nuove tendenze europee, continuarono più che altro ad interessarsi alla persecuzione delle streghe nel modo tradizionale e utilizzando la documentazione già pubblicata, sulla spinta spesso di un interesse femminista. Solo alla fine degli anni Ottanta riprese la ricerca diretta in archivio, che portò alla pubblicazione di studi basati su documentazione nuova o riletta sugli originali, ma volti a ricostruire sia le pratiche magiche e stregonesche che la loro repressione giudiziaria, secondo un'ottica mista tra analisi storico-antropologica della cultura popolare e storia della repressione. Nell'ultimo ventennio è emersa una rinnovata attenzione al tema, con lo sviluppo di aspetti centrali individuati a livello europeo. In tale direzione, il contributo più notevole è stato operato da Giovanni Romeo, che ha analizzato, sulla base di ampie ricerche in parecchi archivi inquisitoriali ed ecclesiastici, le scelte multiple che la Chiesa italiana adottò nel secondo Cinquecento contro la magia e la stregoneria. La scarsità delle ricerche sui temi della magia e stregoneria in Italia e la necessità di tornare alle fonti venne, tuttavia, sottolineata  in un importante convegno su Stregoneria e streghe nell'Europa moderna, organizzato nel 1994 a Pisa. Finalmente, gli anni più recenti hanno visto uscire alcune ricerche di tipo più propriamente storico-antropologico, tutte basate su documentazione inedita: una, in particolare, relativa alla Terra d'Otranto (D. Gentilcore, From Bishop to Witch. The System of the Sacred in Early Modern Terra d'Otranto, Manchester-New York 1992, oggi in traduzione italiana: Il vescovo e la strega. Il sistema del sacro in Terra d'Otranto all'alba dell'età moderna, Nardò 2003), con riferimento a varie tradizioni metodologiche, ha soprattutto esaminato, il comportamento rituale e gli atteggiamenti verso il sacro di un'intera società nel corso dell'età moderna, cogliendo, specie nella parte finale, le caratteristiche delle operazioni magiche e stregonesche rivolte agli scopi più vari. Vanno, inoltre, segnalate le ricerche di Oscar Di Simplicio, dedicate a indagare le funzioni delle operazioni magiche nel contesto culturale e sociale, con un'accurata attenzione ai problemi delle fonti inquisitoriali e all'effettivo funzionamento dell'Inquisizione romana, e quelle di Gian Paolo Gri, basate sulla documentazione inquisitoriale friulana soprattutto del Cinque-Seicento, ma anche del primo Settecento, e con un approccio prettamente antropologico. Si sono finalmente adeguati ai migliori modelli europei, con metodi e risultati innovativi, gli studi fatti nell'ultimo decennio sulla documentazione inquisitoriale italiana riguardante la magia e la stregoneria, i quali cominciano anche a proporre stimolanti e inedite linee di indagine di antropologia storica collegate alle odierne ricerche sul campo.
A livello locale, anche tenendo conto di quanto la storiografia sull'argomento ha più volte sottolineato, i documenti di questa battaglia giudiziaria per l'ortodossia sono costituiti fondamentalmente dagli atti processuali, i quali "rispetto alle costituzioni sinodali, agli editti, ai verbali ed ai decreti di Santa Visita [...] colgono momenti di vita culturale e religiosa nel loro aspetto dinamico, nell'immediatezza e drammaticità del vissuto e restituiscono un quadro più articolato delle motivazioni che spingono gli individui alla pratica magica e stregonica oltreché della realtà sociale e culturale in cui si muovono inquisiti, vittime ed inquisitori, offrendoci l'opportunità di ascoltare dagli imputati e dai loro accusatori il diverso modo di rapportarsi all'universo della magia e della stregoneria, giuntoci molto spesso soltanto attraverso la voce dei suoi persecutori" (M. R. Tamblé).
Di questa attività giudiziaria l'archivio diocesano di Gallipoli, relativamente al Cinque-Seicento e a questo crimine, conserva sette atti processuali, celebrati fra il 1596 e il 1690, durante gli episcopati di Vincenzo Capece, Consalvo De Rueda e Antonio Perez de la Lastra. Delle sette cause, ciascuna con caratteristiche proprie, meritevoli di approfondimenti specifici, in questo contributo si è scelto di analizzarne due, che molto ci dicono sulle forme laiche di rituali di guarigione, sulla magia popolare (che, a differenza di quella "dotta", tipica del sesso maschile, era di competenza femminile) e sulla stregoneria diabolica. É certamente vero che le donne, più degli uomini, per il loro tradizionale ruolo domestico (di cuoca e guaritrice) si presupponeva avessero un legame diretto con la pratica del maleficio; ma è altrettanto vero che esse, per lo più povere, deboli e vulnerabili, ricorrevano spesso alla magia, trovando molte volte difficile difendere se stesse ed i propri interessi. Di certo è che, dietro le accuse di magia nera e di stregoneria, si celava un evidente pregiudizio nei confronti del genere femminile, che poteva, tuttavia, anche essere il riflesso di un conflitto tra donne per il controllo dello spazio femminile, probabilmente intensificato dalla presenza di vedove o di donne non sposate, a cui mancava la protezione di un marito che avrebbe potuto esercitare la sua influenza.
La prima causa, relativa al processo celebrato nel 1600 contro Agata dello Scarpone, Camilla Nanni e Antonia di Supersano, riguarda quella che è, senz'altro, ritenuta una delle forme più comuni di magia denunciate alle corti episcopali, vale a dire la magia d'amore. Nell'ottobre di quell'anno, suor Maria Demetrio di Gallipoli, una "bizzoca" cappuccina poco più che ventenne, si era recata presso la locale curia vescovile e, con un misto di timore e di apprensione, "per discarico di [sua] conscienza", aveva rivelato al vicario generale della diocesi che, "desiderando de far il matrimonio tra sua sorella chiamata Lucretia Termetria col figlio de Durante nomine Filippo e perché voleva dote assai", aveva parlato con  Antonia di Supersano, trentaseienne conoscitrice di piccoli sortilegi ed "incanti ad amorem", la quale le aveva suggerito di recitare certe orazioni, di versare del sale e del pepe nella minestra del promesso sposo indeciso, di mettere addosso al giovane "due strenghe" e di accendere alcune candele in chiesa. La sua denuncia riguardava anche Agata dello Scarpone, una quarantottenne che aveva invece procurato dell'olio santo "acciò lo [si] buttasse sopra lo zito", e la trentottenne Camilla Nanni, donna di malaffare conosciuta come "magara", la quale aveva insegnato ad Antonia quelle pratiche. Suor Maria non aveva svelato cosa l'avesse indotta a segnalare quegli episodi piuttosto imbarazzanti, ma la data della revelatio, resa di martedì santo, autorizza a mettere in relazione la sua testimonianza con la pesante atmosfera penitenziale che caratterizzava, in quegli anni di piena Controriforma, il tempo di Quaresima e la Settimana Santa in particolare. Pertanto, a spingere suor Maria a comparire nella curia episcopale potrebbe essere stato lo zelo di un confessore (si ricordi quanto, all'epoca, la confessione dei peccati fosse un forte strumento di controllo sociale e religioso) o, comunque, il timore di incorrere nella scomunica per non aver denunciato all'autorità ecclesiastica persone sospettabili di eresia (secondo quanto prescriveva l'editto generale del Sant'Uffizio, la cui promulgazione era solita farsi proprio in Quaresima, con spiegazioni e commenti forniti durante le omelie domenicali). Aperto, dunque, dal vicario generale il procedimento giudiziario con l'omologazione della deposizione di suor Maria, che concludeva l'istruttoria sommaria, si era quindi proceduto agli interrogatori dei testimoni per la costituzione delle prove. Contestualmente, Agata dello Scarpone subiva il primo interrogatorio alla presenza del vescovo, senza peraltro ammettere alcuna colpa. Tre giorni più tardi sarebbe risultata detenuta presso le carceri vescovili, mentre Camilla Nanni, sin dall'apertura del processo, riceveva il provvedimento di detenzione in ospedale, ove si trovava ricoverata; poco dopo avrebbe raggiunto in prigione la sua sfortunata compagna. Diversa la sorte di Antonia di Supersano, che dal primo momento aveva collaborato con la giustizia ecclesiastica, ottenendo il mantenimento dello stato di libertà.
Dalle carte processuali si apprende come le tre imputate fossero già state inquisite in passato per questioni di fede (sortilegi d'amore, malefici con fatture a morte, ecc.), il che, nel corso della costituzione delle prove, aveva contribuito ad arricchire il castello accusatorio di nuovi e ben più gravi addebiti. Sappiamo, così, ad esempio, che Camilla (detta "Milla de Santo Panti", dal nome della corte gallipolina in cui abitava, situata nei pressi di palazzo d'Acugna), frequentatrice di ambienti agiati, e nota per il mestiere di meretrice, ma anche per il ruolo di sortiera (indovina) e maliarda e per la sua attività di guaritrice, aveva eseguito scongiuri, legami "ad amorem", atti di divinazione, trattamenti del "malicello dei figlioli" (una sorta di deperimento organico infantile, causato, talora, da parassiti intestinali, ma il più delle volte dalla sottoalimentazione tipica di società povere e sottoposte al flagello ricorrente delle carestie, curato con amuleti ed erbe "magiche", quali ruta ed aglio, dalle proprietà vermifughe) e recite di "carmi della doglia di testa" (si trattava di formule magiche di guarigione, ritmate e modulate dalla voce, con cui la donna ordinava alle forze ostili, responsabili della malattia, di uscire dal corpo del malato in nome di Gesù Cristo, aggiungendo sincreticamente una gestualità magico-operativa e preghiere canoniche). Specie in rapporto alla sua illecita attività di guaritrice, era stata esposta più di altri alla repressione della Chiesa, che proprio in quegli anni fondava la propria battaglia antimagica contro l'uso di cose sacre nelle tecniche curative, nella convinzione che alla base delle guarigioni effettuate con un sapere di dubbia origine ci fosse proprio il patto col diavolo, stretto da persone che spesso erano corresponsabili della malattia a cui poi esse stesse, per ricevere denaro, offrivano la cura. A conferma di tutto ciò, ci restano anche alcune testimonianze ad un processo celebrato, nel 1627, sempre presso la sede vescovile di Gallipoli, contro Caterina Calabrese, di "padre fisico" e di "fratello chirurgo" ("dalli quali havea appreso molti secreti"), accusata di aver fatto "admalare" molte persone "di diverse infirmità" a seguito di specifici malefici, per poi convincerle a "sanarle" con "certi carmi, e stregarie". Ma in un tale contesto, erano guardate con un certo sospetto dalle autorità ecclesiastiche soprattutto le levatrici, le quali (a conoscenza, tra l'altro, insieme alle ruffiane, di varie tecniche di aborto), pur essendo spesso innocenti, venivano accusate di magia nera se un parto finiva male o se nascevano delle difficoltà dell'allattamento del neonato. Parallelamente, la Chiesa post-tridentina, nel suo stretto controllo sulla medicina, si era assicurata la sorveglianza morale e giuridica sull'arte sanitaria attraverso l'obbligo dei medici di professare la fede cattolica e di chiamare il confessore all'inizio della malattia.
Nel giro di tre settimane si concludeva il processo contro le tre donne, verso le quali il vescovo Capece, in linea con quanto raccomandato, in quegli anni, dal Sant'Uffizio circa un uso graduato dello strumento repressivo nei confronti delle pratiche indotte, adottava misure coercitive diversificate e flessibili, nell'intento di redimerle più che di punirle. Tale punto di vista cauto e moderato, coincidente con quella fase di ripensamento della questione della stregoneria, da tempo, dunque, maturata nell'ambito della Congregazione romana del Sant'Uffizio, sarebbe stato esplicitato, qualche anno più avanti, con la pubblicazione della Instructio pro formandis processibus in causis strigum sortilegiorum et maleficiorum (1625). Alla luce di questo documento, gradualmente inviato dall'Inquisizione romana ai vescovi, ai loro vicari ed agli inquisitori locali, si è inteso, pertanto, individuare l'atteggiamento assunto verso gli imputati di malìe e sortilegi dalla magistratura ecclesiastica periferica, non di rado colpevolista e incline ad inglobare i delitti di magia e di stregoneria nel reato di eresia.

Milena SABATO