Illustrazione sugli Stemmi Dipinti nella Sala del Palazzo Comunale di Gallipoli di Vincenzo Dolce

Dopo lo scudo di Gorgoni si vede quello di

FRANCESCO CALO'
                      
Il Lumaga colloca fra le famiglie nobili propriamente gallipoline quella di Calò, e ci sorprende come nell'elenco del Camaldari ella sia stata omessa. Ritroviamo che Francesco Calò fu Sindaco nel 1497 quando Camaldari viveva, e sembra strano ch'essendo quegli Sindaco, come dallo stemma si rileva, in quella cronaca non fosse accennato. In quell'epoca vigevano pur anche odii e rancori fra le famiglie. Il Galateo uomo d'indole amabilissima, sempre uso a trattar con grandi, e di forbita educazione credè esser tutti qual egli si era quando scriveva che quì viviamo senza odio, e senza corrucci: eranvi non pertanto dell'eccezzioni. Camaldari volle soddisfare ad una particolar sua vendetta non menzionando nella sua cronaca la famiglia Calò. Lo stemma dipinto in luogo pubblico, a vista di tutti e della posterità, deluse il suo livore.
Francesco Calò adunque fu Sindaco nel 1497 e nel 1504; Alfonso nel 1516; un altro Alfonso nel 1591, 1601, 1610 e Maurizio nel 1691 e 1709. Per due secoli circa questa famiglia diè Sindaci alla Città, e ciò basta per dimostrarla sommamente distinta. Il suo scudo rappresenta un'alta quercia simbolo di sua antichità, e la serpe che si avvolge e guata in su per salirvi simboleggia che ancora la famiglia non aveva raggiunto lo scopo che si era prefisso; e di fatti mai lo raggiunse. Essa non è più. Nel 1760 si estinse in persona di Fausto Calò. La quercia del suo scudo è stata divelta, e non vi resta chè la memoria. L'odio di Camaldari restò placato.
 Pria che tal famiglia comparisse con lo stemma, fuvvi nel 1494 Gabriele Calò che l'Università mandò in Napoli insieme a Ioannunzio di Messer Sermagistri per prestare omaggio di fedeltà ad Alfonso 2° poiché Ferdinando era già morto. Il Re accolse di buon grado tal missione, e rinviolla con suo diploma confirmante gli antichi privilegi. Ma Carlo VIII Re di Francia invade il Reame; ed Alfonso passa in Sicilia, e muore. Il figlio di lui Ferdinando, che prese il titolo di Secondo d'Aragona ascense al Soglio, e maritossi a Giovanna figliuola del Re Ferdinando 1° suo Avo. In pochi anni il Regno vedeva tre Monarchi, ed un quarto che invadevane i dominii. Entrati i Francesi in Italia gli animi rimasero sbigottiti; tremò questa Città quando udì ricoverato il Re in Sicilia, e la disfatta del Capitano Giacomo Trivulzio, ch'era a' suoi servigii. L'occupazione del Reame di quà dal Faro dal vincitore, l'affetto portato da' gallipolini alla Dinastia Aragonese or fuggita atterrirono gli animi, e ben si sa, che in tali congiunture le menti si sovvertono, si dividono i pareri, cominciano i partiti, e si scindono i cittadini. I baroni fiaccati dagli Aragonesi spiegavano ogni energia a vendicar gli oltraggi ricevuti.
Intanto i francesi percorrevano le Provincie con insultante orgoglio. Nelle piazze di frontiera sterminavano intere popolazioni, sicchè per noi era venuto manco il coraggio, come, al dir d'uno scrittore, quando un assassino entra col pugnale in mezzo ad un diverbio di famiglia. Gallipoli chiude l'unica sua porta, e si pone in atto difensivo. Coraggio inaudito invero, che mentre l'intero Reame erasi già sottomesso, essa sola osava resistere ad un nemico così possente. Allora le sue campagne sono sperperate, divelti ed arsi gli alberi fruttiferi. I Francesi percorrono tutt'i luoghi intorno, tutto struggono, mandano in ruina.
Una giovinetta contadina, bella oltre ogni credere, abitatrice di quella contrada del territorio nomata S.Mauro, dalle chiome discinte, fugge dagli urli orrendi d'una soldatesca beffarda, e conquistatrice. Balzando tra siepi e terreni murati le riesce giungere alla sponda del mare verso i lidi di tramontana. Ma dove nascondersi, e dove ricoverarsi? Gallipoli chiusa, il nemico diffuso tra le campagne: avrebbe voluto slanciarsi ne' flutti, ma le vien manco il coraggio. La povera Maddalena volge lo sguardo verso Gallipoli, come se volesse chiedere ajuto al suo Gabriele, che quivi stava rinchiuso. Stanca si asside, ed un sopore l'assale. Allo strepitio di alcuni passi si desta. Un guerriero, un arciere francese la guarda. Ella trema. Che si vuol da me?  Nulla, o bella giovinetta, le risponde in italiana favella, nulla che possa nuocerti: io discerno che sei un angioletto di queste contrade: sono stanco oltremodo, vorrei un abituro per riposarmi, un sorso d'acqua per ristorarmi. L'animo della giovinetta si commuove a tanta dolcezza. Quel nemico, ch'ella si avea nella sua mente creato come barbaro ed inumano, lo trova sensibile ed affettuoso: prende animo, e risponde "Signore il mio abituro non è molto lungi da qui: laggiù verso la collina di levante, un quarto di miglio e giungeremo". Durante il cammino quel soldato rompe il silenzio. Non credere, o giovanetta, che tutti noi altri siamo barbari come la fama ci dipinge: ciò non è vero: sonvi taluni fra noi di animo fiero e sbrigliato, e costoro han fatto supporre che tutti siamo così.  In questo giungono alla casuccia di Maddalena. Essa giaceva appiè della Collina di S.Mauro. Due lettucci e quattro vecchie sedie formavano l'addobbo. Ma i suoi genitori mancavano, il fragor delle armi li avea costretti a fuggire. La figlia lungi da essi per faccende campestri più non si era imbattuta in loro. Il cuore della giovanetta ne rimaneva dolente, e l'animo suo spesso volgeva un Ave alla Vergine Santissima. Diè un frugale asciolvere all'ospite; offrigli il lettuccio per risposarsi; ed intanto il cielo imbruniva, la sera si appressava, ma i genitori non comparivano.
Tempo prima, in occasione della caccia, Gabriele Calò erasi incontrato a caso con Maddalena. Vederla ed amarla fu un punto solo. La semplicità di questa contadina, l'animo puro che dimostrava, e le belle forme che adornavano il volto di lei, ferirono il cuore di Calò: essa il conobbe ed amollo, ma la nascita era disuguale, difficili le nozze fra un nobile ed una plebea. L'orgoglio di barbassori di quei dì era grandissimo. Gabriele di animo generoso non usò seduzioni, non ingannatrici promesse: vicino alla fanciulla stava nell'eliso. Chi sa se col tempo quella nobiltà austera non si fosse piegata all'Imeneo? Ciò avrebbe potuto avvenire, con ciò sia che la semplicità della giovanetta, e l'onestà de' suoi genitori facean credere che ciò sarebbe possibile. A Dio però piacque altrimenti. Una invasione straniera devastava le campagne e distruggeva la quiete pubblica, e la domestica pace.
L'animo di Calò era agitato da funesti presentimenti. Chiuso in Gallipoli tenea rivolti alla Maddalena i suoi pensieri. Ove mai si sarà ella ricoverata? E se fosse ghermita da quella feroce, ed inumana soldatesca? Il sole appressavasi al tramonto, dense nubi oscuravano il cielo, il vento austro spirava con qualche veemenza. Suonata l'Ave Maria incominciava una pioggia leggiera, e tranne le scolte, niuno più vi era sulle mura della Città. Calò tenea il suo palagio in quella contrada che guarda il porto, oggidì ancor chiomata di Calò.
Si avvicina alla sentinella - amico affari di difesa m'impongono il dovere di scendere. Discende infatti dalle mura. Un palischermo sta giù, entra e voga in silenzio. Un ora dopo il tramonto del sole giugne sul lido arenoso rimpetto a S.Mauro, sbarca, lega il palischermo, e s'incammina all'abitazione di Maddalena. A quando a quando ode il grido delle scolte nemiche, e poi il silenzio. Si trascina fra sterpi e pantani, e finalmente giunge. Tende l'orecchio ed ode. - No, non è possibile che tu mi sfugga. Tutte così le italiane, belle e superbe. E' vano appressarti alla porta - Quando anche ti riuscisse a fuggire, t'inseguirei sino all'inferno = O Santissima Vergine aiutami in questa notte. O mio Gabriele, se or tu fossi qui! ?.. Ah! che dì tu di Gabriele? Hai dunque l'amante eh! ?. Lasciami non ti accostare! ?.. Gabriele ascolta, e le sue fibre si convellono. Batte alla porta = Apri Maddalena - Ah è desso! ?.. Un grande urto si sente al muro, come di cosa, che si schiaccia, e poco dopo un rantolo. Dà un calcio alla porta, la spezza, ed entra Gabriele. Oh vista! La sua Maddalena stesa per terra, intrisa di sangue, col cranio schiacciato e morta. Senza profferir motto si scaglia su colui colla spada alla dritta ed il pugnale alla manca, e ratto non dà tempo a parare i colpi, e dopo breve lotta rotola sul terreno il corpo dell'infame ferito a morte. O mia Maddalena, esclama Gabriele, a qual destino crudele tu fosti serbata? Una lagrima irriga le sue gote. Si affretta, poiché altre lotte lo attendono, si pone sulle braccia l'amato corpo di quella poveretta, ritorna sul lido, vi scava una fossa, vi depone quella salma, la ricopre di sabbia, pianta in su una piccola croce, e parte.
Ogni anno, all'ora medesima, sullo stesso palischermo Gabriele si dirigge a quel lido, s'inginocchia su quell'arena, e la bagna del suo pianto; né mai più guardò Donna, né mai più sulle sue labbra spuntò la gioia del sorriso.
La casuccia, cui avvenne tal fatto giaceva in un poderetto del Camaldari. La fama divulgò l'evento. Camaldari si adontò, che Gabriele avesse amoreggiato la contadina di sua dipendenza. Neglesse dalle sue cronache la famiglia Calò. Avrebbe voluto che il nome di essa, e tale avvenimento non passassero alla posterità. Ma lo stemma pubblico, e le leggende popolari passano a' posteri, e la memoria difficilmente si cancella.
Varie avvisaglie successero intanto tra francesi e gallipolini, nelle quali gli ultimi riuscivano vincitori. Carlo VIII, che senza colpo ferire s'impadronì del Regno, abbandonò Napoli e l'Italia, e salavossi a stento, lasciando di se memorie troppo odiose per quel gentame ladro e dissoluto, che seco avea condotto, e di cui ne' varii scontri il nostro Calò avea forato usberghi e loriche. Indi la bandiera Aragonese novellamente sventolò sulle altre Fortezze del Reame, mentre Gallipoli non si era abbassata giammai.
Fuvvi altresì un altro personaggio di questo casato resosi molto illustre per il mestiere dell'armi. Egli nomavasi Matteo. Servì S.M. Cattolica da Venturiero a proprie spese. Nel 1571 alla giornata navale di Lepanto restò ferito. Fu alla battaglia di Navarino, nell'espugnazion di Tunisi, e della Coletta, e nella conquista del Portogallo col gradi di Alfiere. Combattè alla presa di Bona, Batteno, e Vilbech, e nel 1591 ebbe il grado di Maggiore di quattro compagnie, e perché strenuo e valente soldato ricevè il comando di quattro Galere. Stanco infine dei disagii della guerra si ritirò in Gallipoli; ma il Re nuovamente chiamollo alle armi in qualità di Capitano nelle Calabrie, ove restò ferito. Si maritò quindi, ed ebbe un figlio a nome Annibale, che pur anche seguì orrevolmente la carriera militare.

Dappresso allo scudo di Calò si vede quello di

BARTOLOMEO SERMAGISTRI

Antichissima era la famiglia di Bartolomeo Sermagistri, altrimenti detta Sermaistri o de Magistris. La cronaca del Camaldari la colloca fra le più vetuste di questa Città, ed il nostro Galateo parlando di Galatone sua patria si esprime in questi sensi "Ebbe molti dottissimi sacerdoti greci, e soprattutto uno, che appellarono Maestro, donde surge la famiglia de Magistris, di cui nella mia gioventù conobbi un nipote nominato Virgilio, e da cui ancora sursero i miei proavi, uno de' quali dimorò venti anni in Bisanzio, dove apparò ed insegnò Filosofia e  Teologia chiamato da' greci Giorgio Latino, dacchè era nato in Italia". Pare dunque che dessa tragga origine da Galatone, ma non possiamo con certezza asserirlo.  Il nome di Sermagistri dà l'epiteto di signora a questa famiglia come dinota la voce Sere. Ella è d'antichissima origine greca. Il suo scudo rappresenta in campo azzurro un Leone alato, che s'innalza sul piè sinistro in fiero atteggiamento, simbolo di possanza e di Bisanzio, il cui impero si era esteso sull'intero Mondo allor conosciuto.
Varii Sindaci si ebbero dalla famiglia Sermagistri. Bartolomeo il primo del 1499. Pietro nel 1518. Benedetto nel 1554. Un altro Bartolomeo nel 1642 e 1654. Giuseppe nel 1683; e giova avvertire, che nello scudo di Benedetto il Leone è attraversato sul capo, e in mezzo al corpo da due sbarre, o piuoli da dritta a manca, il che dinota la decadenza dell'Impero greco, e che il rito usato da questa famiglia in fatto di religione era in lei tralignato, e bisognava appigliarsi al latino, ed al centro le due stelle che appariscono sul capo dello scudo del secondo Bartolomeo nel 1642 chiaro addimostrano, che il lume della retta ragione simoboleggiato da tali stelle avea rischiarato lo spirito della famiglia Sermagistri.
Alla morte del Re Ferdinando era salito al Trono di questo Reame Federico Principe di Taranto e di Altamura. Caro a tutti i suoi sudditi fu questo Monarca sventurato. Egli amava le lettere ed i letterati. Circondato da uomini saggi cercava a tutt'uomo la felicità del popolo suo. Il nostro Galateo visse alla Corte di Federico, e spesso conversava familiarmente col Re, ed alla dipartita di lui, Galateo abbandonò i grandi, ritirossi a Gallipoli, e visse da privato esercitando l'arte salutare, in cui era sommamente versato. Egli medesimo ci descrive la vita sobria, frugale, e laboriosa, che menava in questa Città.
Ioannunzio Sermagistri con Polidoro Sillavi, e Salvatore Mazzuci furono spediti dall'Università a Federico per le debite felicitazioni, a' quali lasciò diploma, in cui rammenta i grandi servigii resi al suo Trono, resistendo valorosamente alle armi nemiche, e nell'art.13 del diploma ordina, che la reliquia della mammella di S.Agata nostra Protettrice, che apparteneva a Gallipoli, e che trovavasi in S.Pietro di Galatina, fosse in Lecce depositata. E quì è importante riflettere, che le antiche nostre leggende, le patrie tradizioni, le visite locali de' Vescovi, le pitture esistenti nella nostra Cattedrale, e il testè citato diploma chiaro dimostrano appartenere la reliquia della mammella di questa Santa a Gallipoli, e che da qui fu involata con modi subdoli e capziosi. Quindi sempre ci rimane il diritto a rivendicarla non ostante un così lungo trascorrimento di tempo, poiché le cose sacre, religiose, e sante non soggiacciono a prescrizione.
Pareva dunque che col buon Federico fossesi consolidata la comune tranquillità, tanto più che Carlo VIII aveva cessato di vivere. Ma le vicende politiche non si arrestano di leggieri. Ludovico XII Re di Francia, e Ferdinando il Cattolico Re di Spagna stabiliscono per efimeri pretesti dividersi il Reame di Napoli. Allora nuovamente si veggono
    "Bever l'onda del Po gallici armenti".
La Capitrale, la Terra di Lavoro, e gli Abbruzzi sono occupati da' Francesi, ed il Gran Capitano Consalvo di Cordova cogli Spagnoli invade le Calabrie, la Lucania, la Capitanata, la Puglia, e la nostra Terra d'Otranto.
Gallipoli restava priva degli Aragonesi suoi proteggitori. Che cosa fare in tali congiunture? Erasi pervenuto all'anno 1501, e trovatasi novellamente Sindaco Francesco de Notaro Roberto. Egli chiamava a raccolta gli ottanta con i passati suoi colleghi Costantino, Gaspare, e Niccolò Specolizzi, Antonio ed Isidoro Sillavi, Antonio ed Angelo Assanti, Guglielmo Patitari, Francesco Calò, ed il Semagistri. Che faremo, dic'egli, in tali emergenze? Il Duca di Calabria da Taranto ci scrive parole di molta speranza, ma il soccorso dov'è? Messeri, ci arrenderemo, o proseguiremo a resistere?
Uomini valorosi conservava, e nutriva nel suo seno Gallipoli: cercavano non sottoporre il giogo ed armi straniere, ma il cielo decise che per lunga serie di anni il Regno cadesse all'onta di Viceregno, e che le sue sorti rette fossero da un estraneo governatore, e non da un proprio Monarca.
Si alzarono da' lor sedili quei vegliardi, e colla destra sul brando giurarono resistere fino agli estremi. I cittadini elevarono grida di guerra. L'entusiasmo era agli estremi. Sermagistri diffondeva a proprie spese pane e cibi al popolo, che gli attribuì l'epiteto di Signore, ed in vece di de Magistris, lo appellava Sermagistri. Ma la Città priva di vettovaglie, le campagne di nuovo distrutte per arsioni dalle soldatesche di Consalvo, la perdita di ogni speme di soccorsi, le istanze del Castellano Sancio Roccio di volere arrendersi non potendo più la Fortezza resistere, e la confusione dovunque, decisero finalmente la resa. Quante lagrime quando dal Forte si abbassò la bandiera Aragonese per non più vedersi sventolare.

Dopo questo scudo si osserva quello di

CRISTALLINO RIPHAS, o CEPHAS

Vigeva presso i popoli antichi, e massimamente poi presso quelli dell'età mediana una opinione produttiva di effetti, che quindi passarono, se non a legge, certamente a costumanza,  cioè che Iddio non possa permettere il trionfo del ribaldo. Ignari de' veri principi religiosi i popoli antichi non ci sorprende che incorressero a tanto errore; ma vituperevole è poi che questo assurdo si sorreggesse, anzi si aumentasse nel medio evo, quando già il cristianesimo avea diffuso le sue dottrine, e dissipato ogni tenebria  d'intelletto. Dunque Iddio doveva direttamente intervenire nelle controversie degli uomini, e manifestar col fatto la sua giustizia? Deplorabile principio, mentre vi è l'altra vita, ove i colpevoli saran puniti, ed i giusti premiati.
Non potendo Dio permettere il trionfo del ribaldo, fu di conseguenza stabilire alcuni sperimenti, per mezzo di cui invocando il nome divino si chiariva una verità, o si purgava l'innocenza. Tali sperimenti fra gl'Indiani appellaronsi Ordalie, e presso di noi Giudizi di Dio. Essi consistevano in varie durissime prove, che doveano subirsi o dell'accusato, o da colui che dovea difendere l'innocente, se costui da se stesso non si poteva; ed erano la Bilancia, l'acqua, il Fuoco, la Croce, e di quest'ultima intendiamo far cenno. Allorché sorgeva un'accusa, od una controversia, i due avversari si poneano innanzi ad una Croce stando in piedi od in ginocchio con le braccia distese. In una mano teneano un oggetto tenacemente stretto fra le dita, ed in tale atteggiamento rimaner doveano, fin chè terminassero alcuni salmi cantati, o il passio, o la messa, e chi più resisteva risultava vincitore.
Or lo stemma di Cristallino Riphas ci presenta il braccio sinistro fortemente teso, e fra le dita della mano un tridente elevato che tiensi strettamente. Gli antenati di Riphas simboleggiarono con tale emblema, che taluno di lor famiglia sostenne il giudizio della Croce, e ne riportò onorevole trionfo.
Di antichissima origine era adunque la famiglia Riphas o Cephas, e forse di stirpe greca. Rileviamo che il solo Cristallino stato fosse Sindaco negli anni 1502, 1508, 1509, e quindi in questa carica niuno più comparisce, se non chè ritroviamo esservi stata una iscrizione lapidaria nella Chiesa di questi padri riformati comprovante, che Francesco Cephas dottore in giurisprudenza canonica e civile, giovane di grandi meriti per la tutela verso i poveri, era morto all'età di anni 27, e che il fratello di lui Giovanni Andrea gli ponea un tal monumento nell'anno 1590. Pare dunque che in quell'epoca si fosse estinta questa famiglia (esistente qui fin dal secolo 13° giusta la cronaca del Camaldari) poiché più in giù di quella iscrizione si legge, che anche morì molto giovane il mentovato Giovanni Andrea.
Quando la Città capitolò col Gran Capitano, gli articoli della resa furono per lui molto onorifici sì perché non per anco era ridotta agli estremi, sì perché il nemico riputavala di somma importanza, e le memorie rimasteci di quel fatto palesano le segrete mene del Castellano per darla a Consalvo. Tali articoli ebbero esecuzione nel sindacato di Cephas. Giurava il Gran Capitano, e prometteva di ottenere dal Re Ferdinando il Cattolico perdono a tutt'i Cittadini per la resistenza usata alle armi spagnole, di mantenere le costumanze ed antiche prerogative, e che in tempo di guerra non potessero introdursi soldati nella Città, bastando i soli cittadini a respingere le aggressioni nemiche. La capitolazione fu ratificata dal Re, e comunicato l'atto all'Università. Ma Gallipoli in quell'anno dovea soggiacere a ben altre sventure, e Cristallino Cephas mostrar quella costanza, che i suoi antenati espressero col giudizio della Croce. Surseri dissenzioni tra Spagnoli, e Francesi, com'era mestieri che accadesse. E come mai avvenire altrimenti quando due fieri nemici, che guardavansi sempre in cagnesco addentavano una pingue preda? Ruppero ogni accordo, e vennero a guerra, la quale pur anche riversossi su questa malavventurata Città.
Appena Consalvo fortificossi nella Provincia di Bari aspettando rinforzi, i Francesi irruppero nei luoghi, che costui aveva abbandonato. Giusta il sistema di guerra in anteriori occorrenze dimostrato, essi tutto saccheggiavano, tutto devastavano a somiglianza de' nugoli di bruchi, che calati per un'ora in un campo ingoiano e smozzicano ogni pianta, non lasciando, se non se il solo tronco.
Questo torrente devastatore si appressò a Gallipoli, e la cinse di assedio. Nuovamente le campagne son disertate per arsioni e saccheggi. Il Duca di Ferrandina Giovanni Castriota con alcuni valorosi, che ancora, ma indarno, amavano Federico, si chiuse in Gallipoli, e ne tutelò strenuamente la difesa. Quanti prodigii di valore nelle varie sortite de' nostri! e quanti egregii fatti non avvennero nelle diverse avvisaglie contro i Francesi? Nuovamente quel Gabriele Calò cinse la corazza, impugnò la spada, ed operò inaudite prodezze, e quando il nemico si accingeva a demolire la nobil Chiesa della Santa Vergine del Canneto posta fuori l'abitato, egli scagliossi siccome Leone, e menando colpi a dritta e a manca, sebbene circondato da forte stuolo, tanti ne ferì che infine desisterono dall'impresa. Inutile sforzo! La Chiesa fu poi demolita, ma rialzata in tempi migliori.
Cephas incoraggiava gli abitanti alla resistenza, poiché si era giurato di esser fidi alle armi Spagnole. Leggeva nel parlamento dell'Università le lusinghere ed amorevoli lettere di Consalvo con le grandi speranze che impartiva, ed il popolo per odio contro Francia, e per la giurata fede, ponendo in non cale la carestia, le spoliazioni, le ferite, le morti, seppe in modo resistere che riuscì incolume da tanti travagli, e grida di giubilo innalzaronsi quando s'intese, che le armi Spagnole aveano trionfato nella Cirignola ove restò ucciso il Duca di Nemours.

In seguito dell'accennato scudo evvi quello di

GABRIELE SANSONETTI

Antichissima altresì era la famiglia Sansonetti dal Lumaga annoverata fra le patrizie di questa Città, ma negletta dal cronista Camaldari. Gabriele Sansonetti fu Sindaco nel 1505 e 1507. Giglielmo nel 1526. Cesare nel 1630. Giuseppe nel 1639. Diego nel 1647. Andrea nel 1663. Altro Diego nel 1687 - quindi scomparisce dagli stemmi, ed ora anche non è più. Ritroviamo che Annuccia Sansonetti fu moglie di Baldassarre Rajmondo morta nel 1700, e che fuvvi Elisabetta Sansonetti, di cui fra breve a distesa parleremo.
Con la sconfitta totale de' Francesi il Regno rimase interamente sottomesso a Spagna. Consalvo tenne un general Parlamento in Napoli, ed ivi intervennero anche i Sindaci di questa Università. Ferdinando il Cattolico vedovò d'Isabella, e sposò poscia Germana di Fois figlia di sorella dello espulso Federico. I nostri Sindaci per le dovute congratulazioni andarono in Napoli, ove il Re si era conferito, e ritrassero a prò di Gallipoli un diploma a 23 Febbraio 1507 confirmante gli antichi privilegii ed accordandone de' novelli.
Nobilmente, e con lusso mantenevasi la famiglia Sansonetti. Amantissima della pesca e della caccia, essa diffondeva le sue dovizie a questi due piacevoli divertimenti. I cani da fermo, da punta, da leva le costavano a caro prezzo venutili dalla Spagna, ed i più bei cavalli andalusi nitrivano nelle sue scuderie. Elisabetta Sansonetti amava la pesca, e dalla sua barchetta vogata da' suoi servi essa gittava l'amo, e tiravane i più squisiti pesci, e le più grosse triglie, che somministra il nostro mare. Bella era Elisabetta e di gentile aspetto. La sua chioma inanellata scendevale dagli omeri insino alle spalle quando vestiva da pescatrice, o da cacciatrice, avvegnachè amante era pur anche della caccia. Il mento rotondetto, occhio nero e vivace, la sua faccia s'incarnava di rosa, quando il pesce inghiottito l'amo le strappava la corda, cui era legato. La famiglia amava teneramente Elisabetta, che formava il brio, l'ornamento, e la gioia del suo casato, in modo che sullo scudo in campo azzurro egli inquartò un pesce, simboleggiando l'amor della pesca, da cui fortemente era tratta la sua Elisabetta.
Un dì mentre ella dal mare volle discendere sul lido arenoso posto a borea del nostro Territorio, onde sostare ad una sua masseria, che oggi pur anco appellasi Sansonetti, vide su quelle arene assiso in atteggiamento assai triste quel Gabriele Calò, di cui parlammo. Era costui pur avvenente di sua persona, e quel sembiante pallido e melanconico più caro lo rendeva a chi lo mirasse. Messer Gabriele, gli dice ella, come tu qui soletto, e senza arnesi da caccia?  qual avventura ti mena in questo lido solitario?  Ah! comprendo ?.. quella notte fatale ?? quella croce laggiù ??povera giovane! - Gabriele come volesse raccogliere le idee smarrite la guarda fiso, e poi risponde: Madonna; quella notte tremenda è sempre presente all'animo mio, ed un gelo di morte s'impadronisce delle mia membra quando là si fissa il mio pensiero; ma una gioia m'inebbria e mi trae fuor d'ogni sentimento quando veggo quel mostro nuotar nel proprio sangue. Allora io bacio quella lama che lo trafisse, io la veggo ancora intrisa di quel sangue e ne godo, e ne gioisco ?. Ma! Maddalena non è più! ?.e le sue ossa scarnate son laggiù sepolte ? ed io son vivo! ?. Spesso in candida veste avvolta io vidi la sua bell'anima vagolar per queste contrade, spesso m'accingea a raggiungerla e dileguavasi dalla mia vista ? Gabriele, ripiglia Elisabetta, questi tuoi vaneggiamenti non sono da uomo, né da cristiano; l'anima di Maddalena è in seno all'eternità, e non turbare i suoi riposi con inutili lamenti. Dio tanto permise, e chi può penetrare negli alti decreti di lui? Vieni dunque meco, entriamo nella Masseria di quì non lunge di mia spettanza a ristorarci con fresco latte. Gabriele tace, e giungono. Egli allora calmo e dignitoso accettava l'offertagli bevanda, e le cortesie spiegarone la possa loro fra la Dama e il Cavaliero, che vaglia il vero la civiltà era grande in quei tempi fra gentiluomini, e scrupolosamente dovea osservarsi. Indi Elisabetta ripigliò: Ebbene Gabriele, io da ora t'invito ad una gita di caccia, noi andremo non con lo zimbello a quella de' tordi, ma col falcone, e poscia passeremo a levar lepri col falcone pur anche.
Non sai tu chè bel falcone io mi tenga?
Mentre cacciava con alcuno gentiluomini amici di mia famiglia in quel maccheto elevato sù quel monticello, che appellano "Grosso di Racale", io levo una lepre, e tosto tolgo il cappelletto al mio falcone terzuolo, il quale si slancia mirando la preda, e già la ghermisce, quando dall'alto volar vedesi un altro falcone, che facendo larghi giri sul mio capo, parea che sul mio braccio volesse posarsi. Allora tramando il consueto fischio, esso si posa sul mio pugno. Ma qual fu la mia sorpresa quando vidi al suo piè legata una catinella di argento con una mezzaluna di oro al fine della stessa? Tosto compresi che il falcone si apparteneva a qualche signorotto di Affrica di religione maomittana . Il suo falconiere conobbe che era educato a ghermire uccelli, e pertinente alla famiglia degli altani. Belle prede di merli, e colombi ho fatto io con questo Falcone, ma sempre ho tema di perderlo non essendo cresciuto ed educato dal mio Falconiere. Ne ho pur anche due altri indocili sul principio ad ogni fatica, ma ora pieghevolissimi, e molto bene addestrati. Uno vola a distesa per gli uccelli svolazzanti orizzontalmente, l'altro a riviera per la caccia delle anitre, e molte prede ho fatto in queste paludi nel mese di Marzo quando a grossi stuoli tali uccelli passano per questi luoghi. - Anch'io, risponde Gabriele, mi dilettava della caccia; i miei levrieri e il mio cavallo bajo facean prodigi, ma non usava Falcone che richiede tempo e pazienza nell'addestrarlo. Dunque, ripiglia Elisabetta, fisseremo un dì per la caccia col falcone e col cavallo.
L'ora facendosi tarda, i nostri interlocutori, ritornarono alla riva; ognuno entrò nel proprio battello, e di conserva giunsero in Città, ritirandosi alle rispettive famiglie. Ma da quel dì Elisabetta sentiva nel suo cuore un affanno, per cui perdeva il natural suo brio, e le sue guancie non si coloravano più di quel roseo incarnato, che la rendeva bella oltremodo. Ella dunque soffriva: l'immagine di Gabriele era sempre presente all'animo di lei, e senza avvedersene lo amava; ma colui non le poteva corrispondere per Maddalena che più non era, e giusto perché più non era, deliziavasi Elisabetta in un avvenire avventuroso. Però le forti e veementi passioni, ancorchè spenta la causa, difficilmente divelgonsi da un cuore nato soprattutto sotto il fervido sole d'Italia. Forse anche Gabriele avrebbe giurato di non amar altra Donna, e per noi il giuramento è sacro.
Giunge finalmente il giorno della caccia. Tutto è movimento nella Casa Sansonetti. Famigli, capo Falconiere, il Cavallerizzo, il Capocaccia tutti in ordine. Un nitrir di cavalli, un abbajar di cani, un tintinnio di guinzagli odesi nel cortile di quel palazzo. Finalmente per via si sente lo scalpitar di un cavallo, e giunge Gabriele Calò sul suo bajo. Ad un cenno scende Elisabetta col fratello minore Guglielmo. Era vestita in abito da caccia con giubbetto corto di velluto nero intessuto a seta, ed affibiato in oro nel seno, largo cappello alla spagnola, che or chiamano all'Ernani per preservarsi da' raggi del sole, calzoncino assettato bianco di finissima pelle, scarpette con piccoli tacchi e bassi, e monta sul morello. Scambiato un cortese saluto, la compagnia s'incammina unita. Qualche motto giulivo mentre i cavalli camminano di buon trotto. Già i raggi del gran pianeta incominciano ad indorare le cime degli alberi, e già il Falconiere offre a Madonna il Falcone della Mezzaluna: ella se lo posa in pugno, ed ecco svolazzar tordi e merli essendo una bella giornata di Ottobre. Toglie il cappelletto, si slancia il grifagno altano, ed afferra tosto la preda. La gioia ed il contento brillano nel cuore di tutti, avvegnacchè il tempo era bello ed abbondante l'uccellazione. Così passarono parecchie ore, quando Gabriele priegò Madonna a cacciar egli la lepre co' levrieri,  e col suo cavallo. Tosto si ordina la cacciata, e già da un cespuglio sbuca fuor la bestiuola. Sciolgonsi i levrieri. Gabriele sprona il destriero, si lancia a gran scappata, e la insegue per balze, per monticelli, e per burroni. Inseguita da' cani prende il largo verso quell'ampio maccheto ov'è costruita la Chiesa in onor della Vergine delle Grazie. Gabriele sembra un fulmine, fugge curvo in arcione, e s'inoltra verso quelle cave, che ora il volgo appella Tagliate, caverne profonde, da cui estraevansi, e tuttavia si estraggono le pietre per costruir palazzi ed edifizii, quando del tutto cavallo e Cavaliere scompariscono dalla vista. Elisabetta, che sebbene lungi, lo seguiva sempre col guardo, vistolo di repentine scomparire, grida soccorso alle sue genti. Accorrono, chiamano e niun risponde, guardano intorno e nulla veggono. Tornano i levrieri col muso tinto di sangue, avendo sbranata la preda. Sopraggiunge Elisabetta ed accenna alle cave, fissan gli sguardi entro di quelle, e mirano laggiù, pesti, schiacciati, e morti cavallo e Cavaliere. Fu sventura, o volontà di Gabriele di morire come la sua Maddalena? chi potrà giammai saperlo?
Da quel dì la Sansonetti visse in umile ritiro. La religione fu il solo conforto di lei. Ebbe lunghissima vita, che dedicò ad opere di pietà, e prima di morire legò i suoi beni onde costruirsi il venerabile Monastero di Santa Chiara.

Vitantonio VINCI