Quale "Libro Rosso"?

Come ormai noto al mondo degli studi storici locali, il dibattito attorno all'edizione critica del Libro Rosso di Gallipoli aveva segnato un punto fermo con il saggio pubblicato, nel lontano 1973, dalla indimenticabile Michela Pastore, che aveva cercato di ricostruire un corpus documentario dei rapporti di quell'amministrazione civica con Napoli e gli uffici periferici del Regno. Fu ben consapevole, infatti, la Pastore, della necessità di non ridurre ai soli 195 documenti trascritti nel "Registro di Privileggii" ossia "Copie autentiche di privilegi e lettere", posseduto dall'Archivio di Stato di Lecce e in copia coeva anche dalla Biblioteca Comunale di Gallipoli, quella che in definitiva doveva essere la ricostruzione documentaria di una sorta di "Libro Rosso della Città di Gallipoli". Ed è su questo nodo cruciale che si fonda, io penso, la validità e serietà di ogni contributo che alla questione volesse essere dedicato.
La città di Gallipoli non ebbe un suo "Libro Rosso", per come dovrebbe essere correttamente intesa tale sorta di "raccolta sistematica e completa" di atti "comprovanti diritti, ragioni, spettanze e privilegi acquisiti".
Lo dimostra il possesso da parte dell'amministrazione comunale di Gallipoli, fino al 1833, di ben 148 volumi di raccolte di atti e documenti originali, in parte distrutti o dispersi dopo il versamento da Gallipoli a Lecce e poi al Grande Archivio di Napoli. Un lungo lavoro andava pertanto programmato ed ordinato, al fine di rendere più efficace ed utile un'edizione critica, appunto, del "Libro Rosso" di Gallipoli, inteso nella sua accezione reale di "Raccolta" giuridico-diplomatica di tutti i documenti che in qualche modo definiscono i rapporti e le condizioni giuridiche, fiscali, ordinamentali e amministrative, all'interno di una "autonomia" comunale che potrà così essere più correttamente inquadrata ed esplicitata in sede di sintesi storiografica.
E', infatti, indubbio che una loro "autonomia" le universitates, di Gallipoli e del meridione, sicuramente l'ebbero, sia pure intrappolate all'interno dello jus statuendi ed emanandi di derivazione regia e del consolidato sistema consuetudinario.
E' questo uno dei motivi per cui il "Libro Rosso" o la corrispondente "Raccolta dei privilegii", nel contesto meridionale, non operava nel senso di Corpus giuridico-normativo, come nei Comuni dell' Italia centro-settentrionale. Volendo omologare a quelle raccolte il titolo di queste nostre trascrizioni documentarie, penso che occorra saper nettamente distinguerne le possibili ragioni pratiche e politiche, anche occasionali, delle loro compilazioni, fino a comprendere, finalmente, che tali trascrizioni, parzialissime e neppure organiche, dovettero richiedere la necessaria autentica notarile non solo per motivi comprensibilissimi di cautela e migliore conservazione di documenti a rischio di deterioramento, ma soprattutto di agevole pratica di cancelleria nell'utilizzo della affidabile trascrizione univoca del notaio piuttosto che dell'originale, non sempre da chiunque agevolmente leggibile. Restando, quindi, tali compilazioni in un ambito esclusivamente di pratica cancelleresca, più che di scelta politica o di organico repertorio di fonti giuridiche.
Non a caso è datata la dismissione dell'autentica notarile (presente solo sulle prime 75 carte corrispondenti al primo volume della copia di Gallipoli e con cronologia coerente con la topica dell'indice di inventario del 1833) sulle trascrizioni, le quali proseguono, invece, al solo evidente intento di confezionare ad usum cancelleriae una collettanea di documenti, infine riportati in ordine sparso, ma organici all'interno delle singole raccolte documentarie, dopo il 1616.
Pubblicando "l'archivio delle scritture antiche dell'Universitaà di Gallipoli" mi ero posto queste ed alte problematiche, proponendo in dettaglio una massa di "materiali per un'edizione critica del Libro Rosso" paventando il rischio assai reale, come è stato, che si preferisse più agevolmente considerare "Corpus", omologandole quindi al "Libro Rosso", le sole trascrizioni contenute nel "Registro de privileggii" dell'Archivio di Stato. A tal fine non solo consideravo indispensabili le necessarie notizie relative alle vicende dei documenti ivi trascritti, ma soprattutto quelle legate al fondo archivistico originale e ai documenti comunque trascritti, tra il 1640 e la seconda metà dell'800, da chi ebbe la possibilità di leggerli prima del trasferimento dell'intero archivio a Lecce e poi parzialmente a Napoli.
E' evidente che a tutte le trascrizioni andava riservata un'attenzione critica al fine di definirne affidabilità di date e di contenuti, facendo tesoro delle varianti, eliminando le interpolazioni, riducendole infine ad una lezione quanto più vicina al suo originale, se disperso. Nello stesso senso andavano sostituiti alle trascrizioni i 16 originali documenti sopravvissuti tra i superstiti faldoni dell'archivio antico di Gallipoli.
Per questi ed altri motivi mi ha lasciato stupito"Il Libro Rosso di Gallipoli (Registro de Privileggii)".
Le mie perplessità partono innanzitutto dalla constatazione che nel volume è del tutto ignorata la vicenda relativa al fondo originale dell'archivio comunale di Gallipoli e ai suoi trasferimenti, fino ad accreditare surrettiziamente l'idea che la trascrizione dei 195 documenti contenuti nel "Registro de Privileggii" dell'Archivio di Stato di Lecce corrisponda al corpus documentale che generalmente si riconosce nel cosiddetto "Libro Rosso".
Sia ben chiaro, il lavoro della Ingrosso è, sotto il profilo metodologico, perché finalizzato alla restituzione del manoscritto in questione, ineccepibile, soprattutto per il confronto eseguito sul testo dell'esemplare custodito a Gallipoli, evidenziandone differenze e difformità. Anche se, per i motivi precedentemente esposti, si lamenta la mancata integrazione finale critica testuale che avrebbe dovuto basarsi non solo sulla coeva copia gallipolina ma benanche sulle trascrizioni del Roccio e del Micetti, innanzitutto tenendo presenti i documenti originali, puntualmente da me segnalati e trascritti Il limite di questo lavoro è perciò nell'aver pensato di chiudere frettolosamente e con molta leggerezza, a mio modestissimo parere, un discorso aperto oltre 30 anni fa con i regesti pubblicati dalla Pastore, ignorando a tal fine anche il contributo dato da chi scrive attraverso un regesto (parziale) di 1122 documenti di cui 16 trascrizioni da originali ritrovati e fin qui dati per distrutti e 36 documenti integralmente riportati da trascrizioni del Roccio e del Micetti.
Un apparato documentale questo che avrebbe dovuto quanto meno stimolare una maggiore attenzione ed un qualche rispetto nei confronti del dibattito aperto sulla questione e che il libro della Ingrosso assolutamente non chiude, pur avendone avuto la pretesa. Lo dimostra la inutile restituzione con metodo paleografico di ben nove documenti, frutto di una aggiunta novecentesca, testualmente estrapolata da una edizione a stampa con citazioni, note e riferimenti bibliografici, tra l'altro, al Minieri Riccio autore ben noto della metà dell'800.
Eppure era stata evidenziata proprio da me questa inserzione anomala (unitamente al foglio relativo alla trascrizione del documento federiciano del 1200 frutto di trascrizione da copia "originale" contenuta nella raccolta "Regia Corte") avvertendo che si trattava di testo pubblicato a stampa negli anni 1863-1869, peraltro con apparato evidentissimo di note editoriali.
L'inserimento quindi di quegli otto documenti della cancelleria angioina, datati tra il il 1268 ed 1270, risulta del tutto inaccettabile in una raccolta che contiene esclusivamente documenti posseduti dall'universitas di Gallipoli in quanto autorità destinataria. Né appare accettabile, in presenza di "originali" acclarati e pubblicati, insistere con numerose restituzioni incongruenti (soprattutto relative alle date ed ai luoghi) come nel caso esemplare del documento del marzo 1200 che in epigrafe contiene il riferimento testuale al documento originale: "Nel tomo delle scritture colla R.(egi)a Corte al fol.117 in questo archivio esiste cioè".
Riferimento, come già evidenziato, da me segnalato ma ignorato dalla Ingrosso che, sbagliando, restituisce in "Nel tomo delle scritture Collab[?] al fol. 117" rendendone così oscuro il significato ed il riferimento. E solo per restare a questo primo documento, non si comprende come possa restituirsi in "Evalterii" il chiarissimo, se non nella trascrizione sicuramente nell'originale di Regia Corte, "Gualterii Venerabilis Panormitani Archiepiscopi et Regni Siciliae Cancellarii". Si dirà che la tecnica paleografica così prescrive, trovandomi d'accordo. Non però quando si pretende di restituire del cosiddetto "Libro Rosso" un'edizione critica.
Ciò per dire che, alla fine, lascia l'amarezza in bocca l'operazione culturale posta in essere dall'Università di Lecce, soprattutto per quella sorta di sordità nei confronti di un altro mondo, quello degli operatori culturali locali che, con dignità di risultati ed altrettanta modestia di mezzi, alimentano un dibattito che altrimenti resterebbe prigioniero nei vincoli dell"elite" accademica, tanto sterile nei risultati quanto isolata nel contesto della variegata realtà culturale regionale.
Non potrei pensarla altrimenti, considerando che il lavoro edito dall'Università di Lecce ha avuto la costanza di ignorare il mio lavoro sull'archivio delle scritture antiche dell'Università di Gallipoli per ben 249 pagine salvo a citarlo per 195 volte nelle ultime e successive 38 pagine, all'indice cioè dei Regesti, che pure contengono tutta la bibliografia da me segnalata ma pedantemente riportata con qualche confusione e refuso, come ad esempio a proposito del manoscritto Roccio (o Occhilipo) della Biblioteca Provinciale di Lecce, citato con la paginazione del Roccio della Biblioteca comunale di Gallipoli. Immaginando forse che l'uno sia la copia dell'altro quando così non è.
Ma, invitato ad intervenire, non lo faccio per rivedere le bucce ad alcuno, consapevole che di mestiere altri potrebbero rivederle a me (sarebbe comunque un bel dibattito!!). Ma trattandosi della Università di Lecce, mi é doveroso un linguaggio franco che non mette in dubbio la professionalità e capacità dei docenti e collaboratori, bensì mette in discussione il mancato dialogo con una comunità territoriale che, comunque e nonostante tutto, vuole e ricerca il riferimento costante col massimo istituto culturale della Provincia?. Senza alterigia e con reciproco rispetto.

Elio Pindinelli