La pressione dell'esercito francese sull'Italia, nel quadro di una più
vasta politica di espansione che univa il progetto di liberazione dei
popoli ad obiettivi di sfruttamento economico, spinse il re di Napoli
Ferdinando IV a "contrapporre a tali minacce uno stato di difesa più
valida e positiva, tale da respinger[ne] (o almeno sperarlo) gli
attacchi [...]" (F. Massa).
Era il 1798, e si palesava ormai chiaramente la crisi della monarchia,
già manifestatasi nel 1792 in occasione della spedizione
Latouche-Treville, con gli arresti seguenti la congiura del 1794 e con
la fine del riformismo, e che sul finire di quello stesso anno sarebbe
esplosa con l'infelice spedizione nello stato romano. Di questa crisi
precedente, di certi disagi economici e sociali, e dei fondati timori contro la publica tranquillità
dei domini reali, indispensabili per comprendere lo sfondo nel quale si
sarebbero mossi i protagonisti del 1799, in molte ricostruzioni,
soprattutto realiste, e limitate all'evento, vi sono poche tracce. Pure
il citatissimo e corposo Diario napoletano dell'avvocato Carlo
De Nicola, fonte utilissima nello studio dei profondi cambiamenti
strutturali che caratterizzano la vita politica di Napoli e del
Mezzogiorno tra fine Settecento ed i primi venticinque anni
dell'Ottocento, non ne fa menzione, registrando "giorno per giorno"
eventi amministrativi, politici e di costume, aneddoti e usanze a
partire dall'entrata in Roma di Ferdinando IV (29 novembre 1798).
Sono
stati certamente gli avvenimenti relativi alla complessa esperienza
repubblicana napoletana del 1799 e alle insorgenze sanfediste ad
attirare, più di tutti, l'attenzione di storici e studiosi, con
importanti ricerche che, specie quelle condotte dagli anni Settanta del
Novecento in poi, hanno sempre più contribuito a stemperare la vecchia
immagine di un Mezzogiorno sostanzialmente uniforme ed arretrato.
Per passare ora alla realtà leccese, punto di riferimento
insostituibile per chi si occupa dei fatti del 1799 è l'opera di Nicola
Bernardini (Lecce e il 1799),
di recente riprodotta e pubblicata con stampa fotomeccanica, la quale
può certamente "dare una più chiara idea delle ragioni, delle cause
[dei sentimenti e dei sacrifici] che quei fatti prepararono e
determinarono" (così l'autore nel Proemio). E Gallipoli? Come viveva la
città quelle novità politiche di fine Settecento, come si preparava ad
affrontarle e con quale "stato morale"? Il primo a parlarcene è stato,
nel 1877, Francesco Massa nei suoi Avvenimenti di Gallipoli (Terra d'Otranto) dal 1798 al 1815,
lamentando la mancanza de "i più importanti avvenimenti della nostra
città", e di questa fondamentale pagina della storia del Mezzogiorno in
particolare, negli studi precedenti.
Il riferimento critico era principalmente alle Memorie
di Bartolomeo Ravenna (1836), "buon libro", "opera utilissima" e "ricca
di notizie", ma che per l'appunto "lascia [...] il desiderio di sapere
come andarono [quei] fatti interni di Gallipoli" (il che, nota lo
stesso Massa, è da "attribuire principalmente alle pastoje politiche
del tempo in cui [il Ravenna] scriveva").
Ne arricchiscono
certamente il quadro documenti d'archivio, rinvenuti tra le carte della
Curia vescovile di Gallipoli, e relativi ai "fatti pubblici che tenner
dietro [la nascita e] la caduta della repubblica partenopea": si tratta
di editti e comunicazioni vescovili che seguivano certe "disposizioni"
reali ed "avvertenze" che, inviate da Napoli, sia in forma manoscritta
che a stampa, al vescovo della città (l'agostiniano Giovanni Giuseppe
Danisi), testimoniano la preoccupazione del Sovrano per le presenti critiche circostanze di quasi tutta l'Europa, e specialmente dell'Italia; paure che lo portano ad emanare
dal Trono le più provide, e savie providenze, per mantenere illibata la
Religione, felici, e prosperati li suoi vassalli, e quieto lo Stato
tutto.
Nell'editto esaminato, datato 24 luglio 1798, Ferdinando IV, dati i considerevoli
cambiamenti avvenuti da pochi anni in qua nell'Europa, relativamente
alle Costituzioni politiche, ed alla organizzazione, ed all'uso delle
forze armate, volge particolare attenzione al riordinamento e
all'accrescimento dell'esercito (come già avvenuto negli anni di crisi
profonda degli assetti di potere nella realtà napoletana, e che
giustifica l'insistenza così massiccia della tematica militare nella
cultura del Mezzogiorno d'Italia). Così, ricordati in primo luogo gli utili stabilimenti già da tempo creati con incessante cura, per portare le Nostre Reali Truppe a quel punto di perfezione a cui si conveniva,
comunica di aver disposto l'ulteriore accrescimento della regolare
forza armata ne' Nostri Stati (massimamente nel Regno della Sicilia),
dal momento che i vicini governi delle Regioni Italiane colle loro
recenti mutazioni vanno prendendo un aspetto Guerriero, e le Potenze
Barbaresche, sempre infeste ai Nostri Reali Dominj, hanno aumentata la
loro audacia.
Ma soprattutto, con tale editto, ritiene opportuno ricordare che tutti
gl'Individui [...] sono nati, e nascono Soldati, ed obbligati a
prendere le Armi per difesa della Nostra S. Cattolica Religione, della
Real Corona, e delle proprie vite, sostanze, nei casi in cui questi
Sacri oggetti venissero attaccati dai Barbari, e da qualunque altra
nemica Nazione [...]. Noi stessi, come General Supremo delle Nostre
Reali Truppe, ed i Nostri [...] Figlioli siamo compresi principalmente
nell'Illustre Ruolo militare; e saremo i primi a sacrificare la vita
per la conservazione della Religione, della Monarchia, e della Padria,
e per la comune difesa.
In particolare, sono stati reputati come effettivi soldati ascritti a diversi Corpi dell'esercito tutti gli uomini di età compresa tra i diciassette e i quarantacinque anni, i quali, affinché possano con particolare, e generale utilità fare uso delle loro forze nelle occorrenze,
dovranno essere istruiti al mestiere delle armi da politici,
governanti, religiosi, professori e familiari. Raccomanda, tra l'altro,
l'acquisto di libri relativi alla scienza ed alla perizia del mestiere
militare, con un richiamo d'obbligo a quello ultimamente pubblicato
di Nostro Real Ordine colle Stampe della Real Stamperia, circa il modo
come fortificarsi in campagna ed opporsi alle nemiche invasioni. Si invitano poi arcivescovi, vescovi, parroci e predicatori ad istillare
continuamente nell'Animo de' Popoli la necessità di adottare di buon
grado il mentovato sistema della Istruzione, ed Educazione militare;
il tutto confermato, e reso ancora più drammatico, da un dispaccio
reale (11 agosto 1798), inviato al Danisi in allegato all'esemplare a
stampa dell'editto ferdinandeo, che ne imponeva la puntuale esecuzione, al fine di prepararsi a respingere ogni aggressione ingiusta. Il vescovo, aggiungendo alle Sovrane premure
le proprie, ed eseguendo le "avvertenze esterne", con un editto del 18
agosto, ne dispose la pubblica lettura ad opera dei parroci per la
domenica seguente, esortando tutti i fedeli ad intervenire alla messa
celebrata in Cattedrale, dove saranno con maggior distinzione, e
chiarezza dichiarate le Sante, e Paterne cure del Re con amorevole, e
chiaro discorso di rispettabile Persona ecclesiastica, ben persuasi,
che le Reali mire, e le ammonizioni Nostre saranno bene accolte, e con
i fatti eseguite.
La leva militare forzosa, "suprema sventura", certamente sorprese e
provocò grande commozione tra i gallipolini, abituati da sempre ad una
certa "libertà di elezione", i quali si sentirono enormemente
preoccupati, oltre che per i pericoli di una guerra imminente,
soprattutto per l'essere direttamente esposti ai disagi della vita
militare, dovendone pagare un "tributo così grave". Sul finire
dell'agosto 1798, poi, a questi timori si aggiunse altra "costernazione
e spavento sommo per la città". Il Governatore gallipolino, come tutti
gli altri del Regno, ricevette dalla Segreteria di Guerra un "piego
suggellato", immediatamente reso pubblico nel largo del castello, alla
presenza di tre parroci, in cui si ordinava di "reclutare, per
sorteggio, fra' giovani dai venti ai trent'anni, colla proporzione di
dieci per ogni mille abitanti". E dal momento che Gallipoli,
comprendendo anche i villaggi vicini, contava, allora, una popolazione
di diecimila anime, doveva prestare un contingente di cento reclute. Le
surrogazioni si sarebbero concesse a condizioni difficilissime, e
dietro corrispettivo di denaro (mille ducati) al governo. A ciò si
aggiungeva l'immediata e dolorosa partenza dei coscritti, fissata per
il giorno 31 dello stesso mese.
Ma non solo, dal momento che "onde ammanire la moneta necessaria a
sostenere spese così enormi", fu ordinata una requisizione generale
delle argenterie: sia degli oggetti d'argento appartenenti ai privati,
sia degli arredi ecclesiastici, i quali, valutati a discrezione degli
agenti fiscali, sarebbero stati pagati "con fedi di credito dei banchi
del regno [...] a metà del loro valore reale". E questa insinuazione alle Chiese, e luoghi pii [...], per portare i loro argenti inutili, ed inservibili nella Regia Zecca
sarebbe avvenuta sin dall'agosto del 1794, come dal dispaccio reale
inviato, in quella data, a tutti i vescovi del Regno. La cattedrale si
ritrovò così spogliata di molti oggetti preziosi (come, del resto, le
altre chiese) e, in particolare, di sei grandi candelabri, ma
fortunatamente non delle due statue dei Santi Protettori; e se "gli
uomini accorti non si lasciarono gabbare e seppellirono i proprii
tesori [...], la Finanza dovette contentarsi di quella parte che si
trovò in possesso dei più ingenui e degli uomini di più buona fede".
Naturalmente, la requisizione degli argenti, insieme pure a quella dei
cavalli per l'esercito, e l'esecuzione della leva forzosa non furono
praticate "senza favoritismi e senza esercitare vendette personali".
Ad ogni modo, le vicende suddette non mancarono di sollevare discordie
nell'animo dei cittadini di Gallipoli, dove già "regnava un dualismo
municipale, che aveva distrutto ogni armonia fra gli abitanti";
cittadini a cui di certo quelle misure affrettate non furono ben viste,
ma che, a detta del Sovrano, permettevano di avere quella prontezza, per effetto della quale si è finora tenuto lontano dai Nostri Regni il flaggello della Guerra.
Milena Sabato