Per «L'isola di Venere»

(Queste pagine ripetono, con lievi modifiche e in forma abbreviata, quel che dissi presentando il romanzo di Gino Schirosi nel Chiostro di san Domenico il mercoledì 11 agosto 2004. La loro pubblicazione vuol costituire un ulteriore tributo di simpatia e di stima per l'amico Gino. L. S.).

In copertina del libro di Schirosi c'è un'immagine: una suggestiva veduta di Gallipoli chiusa nella cerchia dei bastioni e delle mura, col rivellino del Castello a costituire un avamposto verso la parte nuova della città sviluppatasi, per ragioni facilmente immaginabili, soprattutto nel XIX e XX secolo. Sul fondo, in alto nella copertina, l'isola di Sant'Andrea, celebrata - a ragione - nel libro di Schirosi tra i motivi di attrazione della città. L'immagine è un particolare "ritagliato" - si fa per dire - da un dipinto di Domenico Catalano che si trova nella Chiesa del Rosario e costituisce, guardato a sé, un felice episodio pittorico all'interno della tela dal pittore dedicata al santo di cui portava il nome, san Domenico, uno dei due grandi fondatori, con san Francesco, di ordini religiosi nel Medioevo.
Non mi soffermo sul titolo del volume, che richiama l'isola raffigurata nel dipinto e richiama, contemporaneamente, la divinità, Afrodite-Venere che, nel mito antico, era depositaria della bellezza e dell'amore. Mi soffermo, immediatamente, sulla qualificazione che Schirosi dà alla propria opera, che è quella di "romanzo storico" Direi che è una qualificazione che non sorprende in sé, visto il favore di cui hanno continuato a godere le narrazioni a sfondo storico, ben oltre il Manzoni e le vicende del romanzo della grande stagione realista dell'Ottocento e quelle del romanzo psicologico intessuto di sottili analisi interiori tra Otto e Novecento e poi, via via, oscillando tra questi due fondamentali assi direzionali su cui, a mano a mano, si sono inserite altre modalità del narrare romanzesco: il fantastico, il romanzo d'impianto saggistico, il giallo, il sentimentale (rosa!), e il nero? Se mai sorprende, quella precisazione di Schirosi, per un doppio motivo: da una parte per la perentorietà dell'indicazione, quasi a riaffermare un genere ancora ben vitale (esempi ne sono un libro di Maria Corti amato dai salentini, L'ora di tutti, e il primo romanzo best-seller di Umberto Eco, Il nome della rosa); dall'altra, per il fatto che la "storia" alla quale Schirosi fa riferimento è così vicina da ormeggiare quasi ancora la dimensione della cronaca, se non proprio di quella quotidiana, di quella così recente da poter essere ricostruita dalla memoria di un gran numero di persone che se la portano dentro come parte, spesso fondamentale, della propria memoria personale.
Schirosi ci vuol persuadere che il suo racconto nasce da riferimenti alla realtà, a vicende realmente accadute. Scrive nella Prefazione, in un passo nel quale manzonianamente ci offre il "sugo" degli avvenimenti narrati, che il racconto, «nato da un episodio casuale, è incentrato sul massimo dei valori positivi» e che il «resoconto che ne scaturisce, calato nel vissuto della seconda metà del XX sec., è tracciato in una trama minuziosa, [...] con relativa discrezione e cauta circospezione nel reperire nomi, luoghi e particolari, apparentemente privi o monchi di obiettiva autenticità storica» e «viene pubblicato tuttavia tal quale è stato raccolto in questi ultimi anni, sebbene a taluno possa sembrare non altro che mera finzione letteraria». Vien fatto di chiedersi: che male ci sarebbe se, non solo a qualcuno ma a molti lettori, il racconto sembrasse «non altro che mera finzione letteraria»? Anche perché i presupposti che il racconto si presenti come tale non mancano: dal soggiacente modello manzoniano, che avremo modo di verificare al momento opportuno, all'espressione «tal quale è stato raccolto» che, almeno a me, fa venire irresistibilmente alla memoria la dichiarazione contenuta nella lettera-prefazione a Salvatore Farina con la quale Giovanni Verga apriva una sua celebre novella, L'amante di Gramigna: «Caro Farina, eccoti non un racconto, ma l'abbozzo di un racconto. Esso almeno avrà il merito di essere brevissimo e di essere storico [...]. Io te lo ripeterò così come l'ho raccolto pei viottoli dei campi, ecc.».
La storia narrata da Gino Schirosi nel suo libro è intrigante per le circostanze che la distinguono. Si tratta di una vicenda di quelle che, comunemente, a sottolineare la loro relativa dissomiglianza dai consueti percorsi della vita comune, venivano un tempo definite come "romanzesche". È un dato, questo, sul quale anche il narratore (non Schirosi, in questo caso, ma quello che si è soliti indicare come l'io narrante) intende richiamare l'attenzione del lettore, soprattutto nell'ultima parte del libro, quando i nodi dell'intrigo vengono al pettine e, in un susseguirsi di colpi di scena, si ristabilisce l'ordine dei fatti accaduti e si conosce, finalmente, la verità degli avvenimenti narrati e dei sentimenti di cui sono fatti portatori i personaggi del romanzo. A certificare che la vicenda narrata si mostri sotto i colori del romanzo, cioè di un percorso fuori del consueto, c'è il riferimento esplicito al "romanzo". A p. 159, ad es. : «? si trattava di un romanzo avvincente, affascinante, perché insolito e straordinario sebbene ancora monco e interrotto, senza la sua fine intrigante e coinvolgente». Questo fascio di luce sulla vicenda-romanzo è posto qui non tanto ad illuminare quanto a dare rilievo all'oscurità restante, dentro la quale bisogna penetrare per conoscere interamente quel ch'è accaduto. In questo senso il "romanzo" funziona non solo a livello di semplice richiamo ad una trama complessa, ma con le sue caratteristiche specifiche di imprevedibilità, di suspense, di creazione d'un ulteriore orizzonte d'attesa prima del finale che, si vuol dirlo qui, è un "lieto fine". E questo richiamo al romanzo è troppo frequente per essere casuale (si vedano le pp. 160, 165, 179). Che cosa racconta questo "romanzo"? Questo: due giovani, fratello e sorella, che non conoscono quasi nulla delle vicende della propria famiglia, si mettono alla ricerca delle proprie radici. Sono alla ricerca di un padre mai visto, di una madre raramente intravista più che vista. All'origine, un primo idillio troncato dalla morte; poi l'incontro del pescatore-poeta Carmine, sottratto al dolore d'un sogno d'amore interrotto, con la donna con la quale vivrà un bruciante momento di passione; la "sparizione" di questa donna; un ritrovamento tanto breve da sembrare un sogno; un matrimonio quasi clandestino che sembra subito dissolversi. In fondo, come in un antico dramma, il gioco delle agnizioni, dei ritrovamenti, il ricucirsi faticoso di destini diversi ma convergenti in una ritrovata, benché dolorosa e malinconica, unità famigliare. Il "lieto fine", se ne tenga conto, è attraversato dalla coscienza di ciò che poteva essere e non è stato e non sarà mai più come sarebbe potuto essere: un lieto fine pervaso di malinconia. Scenario della storia è Gallipoli, "l'isola di Venere", vagheggiata in tal modo da alcuni personaggi del romanzo non per qualche legame che il luogo abbia con il mito di Venere, ma per la bellezza che la connota (cfr. p. 22). Regalando alla seconda donna della sua vita una conchiglia chiamata "orecchia di Venere", Carmine la esorta a conservarla per rammentarsi di Gallipoli, «questa bella città, che pare dimora della dea!» (p. 90). Si viene ad istituire un legame tra il nome della dea e la giovane donna, Vittoria: è così che la città diventa più che uno scenario esteriore. L'isola di Venere-Vittoria sarà il luogo di un destino.
Ho accennato al fatto che sul romanzo di Schirosi agisce il modello manzoniano, fin dalla denominazione di "romanzo storico" e nella preoccupazione di creare, dove sia possibile, vari collegamenti tra i fatti della storia "grande" (per così dire) e quelli della quotidianità di un momento storico definito (qui, la seconda metà del sec. XX). Qualche rapido esempio basterà. Le vicende di Vittoria sono collegate ad avvenimenti italiani o europei o mondiali: la guerra in Bosnia nel 1992, la marcia della pace di quell'anno che ebbe tra i suoi partecipanti monsignor Tonino Bello (il rimpianto ed indimenticabile don Tonino!), la rievocazione della grande guerra, i terremoti del Belice e del Friuli, le inquietudini e i movimenti del mondo giovanile negli anni Sessanta e Settanta, il problema palestinese, il terrorismo, ecc. A volte non c'è un nesso preciso tra gli avvenimenti della storia "grande" e quelli della quotidianità dei personaggi: se non che, molti di questi avvenimenti trovano posto nelle riflessioni dell'io-narrante, del giovane che, con la sorella, va alla ricerca delle proprie radici ma anche s'interroga sul mondo nel quale si è trovato a vivere e sulle scelte morali che esso impone. Il modello manzoniano (chiarisco, a scanso di fraintendimenti, che esso non costituisce un limite dell'opera ma semplicemente un dato di memoria letteraria) agisce anche su altri piani: sulla visione del mondo, sulle scelte del linguaggio. Un esempio è questo. Vittoria legge in prospettiva provvidenzialistica la vicenda sua e di Carmine: «ancora un segnale della Provvidenza, della Misericordia di Dio [...] C'è realmente Colui che ci assiste, che tutela i suoi figli, le Sue creature?»: p. 183. C'è un'eco, non letterale ma "ideologica", del finale del cap. VIII dei Promessi sposi: «Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto; e non turba mai la gioia de' suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande».
La scelta di campo dell'autore è per «la gente mite del popolo vero», persone umili, generose, di quotidiano eroismo. Questa scelta apparenta gli umili del libro a quelli rintracciabili dentro altri libri o nella vita quotidiana. Sono umili alla ricerca, spesso frustrata, della loro parte di felicità. Questa parola, felicità, non so se per caso o per calcolo, per astuzia letteraria, apre e chiude l'intera narrazione: «Felicità era per noi un concetto inusuale»: comincia così il primo capitolo. L'ultimo capitolo, e il libro intero, si chiudono con queste parole: «Sull'isola di Venere la natura, inconscia, era testimone dell'eterno scorrere del tempo tra le terrene angosce quotidiane e l'umana rara felicità» (p. 196).
Per quanto riguarda il linguaggio, basterà annotare con quanta insistenza ricorra la qualificazione di sventurato, sventurata applicata a personaggi diversi. E, quasi a far da contraltare alla visione provvidenzialistica delle vicende umane ed al linguaggio che la corrobora, il vocabolario del romanzo registra, con allarmante frequenza, i termini fatale e fatalità. E la fatalità è un elemento che non contraddice, sostanzialmente, la visione che, per comodità di riferimento, diremo manzoniana, ma ne corregge il sereno ottimismo; certo non ignaro della instabilità e della mutevolezza delle vicende umane.
C'è, nel libro, l'emergere di reminiscenze letterarie, calchi o citazioni vere e proprie: un procedimento legittimo che, però, talvolta denuncia l'eccesso. Così come accade in un passo a p. 73 in cui l'accumulo di reminiscenze e di allusioni crea un ingorgo, sembra costituirsi come un'affollata antologia che mira a comporre registri poetici diversi ed incompatibili: «Oh, Cristo, Cristo, pensoso palpito, è proprio vero che tu sei terribile! Perché il tuo amore si è tanto allontanato? Cosa ho mai fatto per meritarmi una punizione talmente dura e tremenda? Questa è dunque la tua giustizia? Queste le promesse? [...] Com'è che ci hai ingannato sino a questo punto, sino al sacrificio estremo? [...] Ah, quanta amarezza! E com'è inesorabile, perverso il destino. All'apparir del vero tu, misera, cadesti? Aveva ragione il poeta».
Si va, come si può vedere, dall'Ungaretti del Dolore («Cristo, pensoso palpito, / Perché la tua bontà / S'è tanto allontanata!») al Manzoni de Il Natale del 1833 col suo sciabolante verso iniziale («Sì che Tu sei terribile!»), al Leopardi di A Silvia in parte parafrasato in parte direttamente citato. Sono reminiscenze che s'intrecciano nella mente angosciata di Carmine che segue il funerale della fidanzata. Per quanto si tratti di un personaggio che ci viene descritto come frequentatore della poesia - come consumatore e come produttore diremmo - ci è difficile immaginare che in una circostanza simile potesse prevalere una costruzione mentale fatta di frammenti letterari e non, invece, un discorso meno alto ma umanamente più sincero.
Il romanzo di Schirosi si vale dell'antica tecnica dell'inchiesta per desiderio di scoprire la verità (è il terribile caso di Edipo, ad esempio, nell'Edipo re di Sofocle). Una tecnica del "poliziesco", tanto per semplificare? E nell'indagine entra, qui, Gallipoli, quella che il titolo del libro definisce L'isola di Venere.
Occorre fare attenzione a questa presenza della città nel romanzo. Non semplicemente uno sfondo pittoresco (benché a questa tentazione l'autore non sfugga del tutto): è la scelta di un luogo dell'anima che l'autore sente profondamente come territorio della propria anima, è la scelta di un luogo che, per l'io-narrante del libro, diventerà luogo dell'anima quando egli ne avrà saputo conquistare il segreto e quando il luogo stesso si rivelerà luogo d'origine dell'avventura della sua esistenza. L'incanto che la città esercita per la sua posizione, il suo paesaggio, il suo volto aperto e misterioso ad un tempo, diventerà, per il narratore, ragione profonda del proprio essere. Solo allora la bellezza da cartolina illustrata della città dileguerà lasciando al suo posto l'immagine sottesa, quella che non ha bisogno di configurarsi in una determinazione fisica.
Se la storia "grande" fa da fondale alle piccole storie quotidiane dei "protagonisti umili", parallelamente la storia della città viene a costituire un secondo pendant alle vicende di Carmine e di comprimari e comparsi chiamati sulla scena della narrazione. La visione stessa della città, con i segni delle sue modificazioni urbanistiche, si fa storia, spesso attraversata da motivi polemici espressi in un discorso veemente che vuol tradurre l'indignazione di chi osserva e commenta (si veda, a p. 22, la descrizione del grattacielo, «incongruo fungo longilineo», «manufatto mostruoso e vergognoso [...], superfluo»).
Più che la polemica, che impegnò molti disputanti per lunghi anni, o il giudizio estetico su una sorta di fuor d'opera rispetto alla tipologia della città, interessa vedere come la storia della città sia colta anche attraverso le sue trasformazioni urbanistiche o architettoniche. E la storia della città è anche storia dei suoi uomini. Vi è ricordato, in particolare, il prof. Luigi Sansò, che fu sindaco di Gallipoli, ed è rappresentato all'opera in occasione dell'epidemia di febbre asiatica, quando proprio da sindaco si trovò nella necessità di ricorrere a strumenti operativi transitori, eccezionali, per fronteggiare l'emergenza.
La scoperta dell'isola da parte dei giovani venuti a rintracciarvi le loro radici è la scoperta, anche, di una condizione morale che appartiene - o apparterrà, sì, ad essi - ma appartiene soprattutto alla storia del padre ritrovato. L'isola ha valore di metafora centrale nella narrazione. È un emblema di solitudine ma, collegata com'è alla terra peninsulare, è anche l'emblema di una comunicazione possibile. Scriverà Vittoria a Carmine, dopo averlo abbandonato: «Tu sei l'isola, come ben sai. Così dicesti [...]. È ora che tu getti un ponte sulla terra ferma per star più saldo e meno solo». Quel ponte, che l'uomo avrebbe dovuto sforzarsi di gettare tra sé e gli altri per vincere l'isolamento e la solitudine, saranno altri a gettarlo. L'isola avrà, dunque, la sua via di comunicazione e finirà d'essere l'anello d'angoscia che chiude il cuore di un uomo sempre in lotta tra illusioni svanite ed incombente disperazione. Quando questo accade, quando si compie il miracolo del ritrovamento, allora anche quell'isola che, benché bella ed amata, aveva finito per configurarsi come deserto emblema d'autoimprigionamento, rivela i varchi verso i quali dirigersi, le vie d'uscita che ancora sono concesse a chi non se ne aspettava più. È allora che l'isola si riveste della sua luce, di quella luce che le è propria; e dei suoi colori, delle sue musiche, del respiro del vento marino che la invade nelle sue strade strette, nelle sue corti dove pullula una vita segreta fatta di consuete occupazioni, di gesti ripetuti all'infinito, di parole attraverso le quali passa quanto si vive, quanto si spera e crede, quanto si ama, quanto - nella vita di ogni giorno - illude o disillude non il Carmine del racconto (non lui solo, almeno) ma il Carmine che è nell'uomo sotto qualunque latitudine.
L'isola, che appare nella limpidezza delle sue giornate serene, nella gloria dei suoi tramonti fiammeggianti, diventa l'immagine-simbolo di quelle utopie che si chiamano pace e speranza. E la glorificazione della città si rivela, a ben guardare, non una banale celebrazione campanilistica, ma l'assunzione a simbolo di positività del luogo in cui si vive e che vive, in una costruzione ideale, nella mente e nel cuore di chi lo ama.
All'isola nella quale ha vissuto un attimo di felicità, Vittoria leva un inno: «Un amore di città, [...] un fiore fulgido di ninfea [...]. Una città ridente di gioia, in volo su ali di gabbiano, lieta della sua baia luminosa, del candido balcone di fate, dello scoglio di sirene olezzante di posidonia! È un impareggiabile angolo di paradiso quest'isola orientale, amabile perla dello Ionio, bianca di luce solare: una ninfa innamorata, ebbra di Dioniso, baciata da Eros e cara ad Afrodite, tal quale si celebra sul carparo della fontana antica. Cantala anche tu, poeta, l'isola di Venere, ideale culla della bellezza suprema e dell'amore sublime!».
Ci sarà un poco di esagerazione? Forse. Ma ci è caro ricordare un detto di Flaubert, il quale diceva che si fa del vero esagerando. Se di esagerazione si tratta! E si tratta invece della condensazione, in un rosario d'immagini, di quelle occorrenze positive della vita che Schirosi, con la sua intrigante narrazione, ha inteso riproporci.

Luigi Scorrano