La vicenda narrata nel romanzo, di recente pubblicazione, "L'isola di
Venere", assai dissimile nella forma e nella sostanza dal precedente
"La casa della Speranza" del 1996, pur conservando come teatro l'antico
borgo di Gallipoli, il centro storico, interessa problemi che vanno
oltre i confini provinciali e persino nazionali, in un arco di tempo
che è l'ultimo cinquantennio del secolo scorso. Il racconto,
sviluppandosi nello spazio e nel tempo, non si dipana sullo sfondo di
sontuosi scenari, tra ville patrizie e palazzi gentilizi fastosamente
impreziositi da saloni liberty e prati inglesi, adornati dal verde di
viti canadesi e piante esotiche volutamente snob o stravaganti.
Non s'immerge nel rigore decadente e formale di classi sociali opulente
e sonnacchiose, spudoratamente gaudenti e viziate d'ipocrisia. Ma
neppure si muove entro il grigiore di sottili compromessi e labili
convenzioni, tra spocchiosa vanità, lussuriosa dissolutezza e facciata
di maniera, dove non l'essere prevale ma il benessere, l'apparire
insieme con l'avere, sempre ostentato e non di rado falso e inverecondo.
Si dice comunemente che la vita non è altro se non l'inseguire un
sogno, ancorché accada inevitabilmente che i sogni, che non costano poi
tanto, vadano purtroppo in frantumi. Ma, se la vita è realtà concreta
vissuta giorno dopo giorno, questa rappresentazione è il mondo
autentico dei comuni sentimenti e valori condivisi, in un'alternanza di
esaltazione e scoramento, tra gioie e ambasce quotidiane. S'intrecciano
spesso con reali drammi umani, che, impulsivi o passionali, toccano,
nella loro genuina levità, gente mite del popolo vero. Si tratta di
protagonisti umili, generosi e sanguigni che, con estrema severità di
costumi, interagiscono immuni da inquinamenti morali, facili vizi e
gratuite voluttà, unicamente ricchi di una dignità e nobiltà di
pensiero: persone eticamente integre e forti, che mai rischiano di
scivolare e sfociare in intrecci squallidi e nefandi, lungi dal torbido
di misere tragedie o drammi anomali e tumultuosi.
I personaggi in scena non sono degli eroi e, ancorché possano sembrare
irreali, non sono nemmeno fittizi o d'altri tempi, ma unicamente
normali, con passioni e debolezze umane, tra le esperienze più
innocenti e veniali: uomini e donne comuni, individui semplici,
abituati ad affrontare le vicissitudini esistenziali tra indicibili
asperità, obbligati a sbarcare il lunario, impegnati a coniugare nel
pragmatismo del contingente e del quotidiano il pranzo con la cena,
senza minimamente prendere la vita sotto gamba, quale gratuita
conquista già scontata a priori. Un'umanità tormentata da continue
angosce, che agisce con schiettezza e opera senza finzioni!
L'eroismo prevalente è il patimento accettato senza fare una piega,
sofferto nella lotta incessante, con la fiducia estrema nel riscatto,
con la fiammella sempre ardente dell'attesa, pregnante di una carica
d'ottimismo che tradisce un'indubbia lezione prettamente manzoniana,
sempre improntata ad una più salda certezza della fede e della morale.
Il tema centrale della trama è una complessa e drammatica vicenda
sentimentale, una delicata storia d'intenso amore tra un umile marinaio
della nostra terra, un poeta abbastanza colto che si esprime col
linguaggio dei poeti a lui cari e vicini, e una dinamica,
intraprendente donna del nord, singolare e stupenda protagonista di un
delicato mondo femminile. Venuta a capo di incresciose e sofferte
vicissitudini, affronta, con gioia e grazie ad una folgorazione
religiosa che sa di prodigioso, tra brivido di passione e forza di
desiderio inconscio, un'imprevista decisione finale: ritornare sulle
tracce del proprio passato e del proprio vissuto, per rinvenire
l'equilibrio interiore nella consapevolezza di poter concludere i
giorni restanti di una travagliata esperienza nella serenità di
un'isola del profondo Sud, là dove si consumò l'olocausto della sua
giovinezza.
Il romanzo, immune da soverchi fronzoli e orpelli, in qualche caso
richiesti solo dall'economia generale e dal ricorso alla particolare
tecnica descrittiva dell'io narrante e del conseguente flash-back che
coinvolge quasi per intero lo svolgimento dell'opera, ma ricco di
molteplici finestre aperte in una teoria di squarci ambientali e
nostalgici, si snoda all'interno di una realtà variegata del nostro
tempo, tra fantasia e atmosfera magica, senza mai offrire l'impressione
di essere irreale. Pur radicato nel pieno di processi storici talora
burrascosi, esula da facili compatimenti, a misura che non intende
raccontare passioni o delusioni amorose, più o meno epidermiche.
Qua e là insiste e si sofferma criticamente sul sentimento tragico
dell'umana esistenza: amori e gioie, travagli e lacrime. Il tutto
condito con sobrietà formale e lessicale, ma pure condotto con misura
equidistante tra mistero e azione, in un silenzio soffuso come da
favola, che tuttavia spazia in un arco cronologico ampio e
scenografico. Ovunque, in ogni pagina, la crudezza e la severa fedeltà
della ricostruzione storica s'intricano con i sentimenti e le vicende
private dei protagonisti e degli altri personaggi che fanno da corona,
in un'alternanza di colpi di scena tra traversie e tribolazioni le meno
opinabili.
La singolare avventura si snoda in un susseguirsi di diversi stadi
storici descrittivi e in misurati registri narrativi fino a risolvere
un complicato enigma svelando la sfuggente verità più volte perseguita,
ma vanificata e minacciata da una sorta di persecuzione o maleficio
inspiegabile. Un anatema che, all'interno di un singolare,
inestricabile intreccio tra immaginifico e reale, pare aver colpito una
famiglia che, sul suo intricato cammino, lastricato di strani
impedimenti, s'imbatte in una successione di disagi che rendono arduo
il naturale e legittimo ricompattarsi. È un autentico spaccato storico
o affresco realistico, comprensivo di rilevanti problemi sociali e
sentimentali, etici e religiosi, con il coinvolgimento di situazioni
intime e personali, in cui casualità e coincidenze sono, di fatto,
situazioni che, pur fortuite, fanno parte di accadimenti del vissuto
quotidiano, da considerarsi reali e non impossibili.
È un racconto talmente verosimile da sembrare virtuale. In sintesi è la
storia sofferta dagli umili di ogni tempo e luogo. Ciò nonostante, il
Sud, che oggi non dovrebbe essere più un problema, per tradursi
viceversa in una scommessa di Stato, non intende affatto presentarsi
quale ardita metafora da contrapporsi o da generalizzare a tutti i
costi né assurgere a corollario di trito meridionalismo malato di
fazioso intellettualismo. Tra l'altro, non è più tempo per inutili
denunce, per facili e languidi vittimismi di maniera o di campanile,
ormai stantii e superati.
In un'era dominata dalla cultura dell'effimero, in una società corrosa
e bacata, sconcertante è l'assenza di valori nei comportamenti
individuali e collettivi, a ragione di un raggelante senso di precario
e di vuoto, per cui si tende a scaricare ogni colpa e responsabilità
sugli errori della storia o della politica, sulle lacune e inadempienze
amministrative oppure sulla realtà compromessa della famiglia allo
sfascio, l'unica vittima predestinata di una convivenza sociale e
civile ormai irrimediabilmente disgregata. E non si punta invece il
dito sui mass-media a cui, dai potenti della terra, è stato concesso
proprio tutto, oltre ogni limite, fino all'arbitrio di confezionare,
non solo per giovani sempre più fragili, l'illusione di falsi modelli,
inevitabilmente negativi e deleteri, con la degenerazione ormai
irreversibile dei costumi pubblici e privati. E questa è la conferma
che la ragione politica (o di Stato), ed anche quella economica
contigua per profitti ed interessi collaterali, non rinuncia mai a
trasgredire la morale comune e a dissociarsi dai valori umani!
Per tale motivazione il racconto si prefigge di avere un senso: il
significato profondo dell'esistere e del consistere nel giusto rispetto
degli ideali ineludibili dell'umano sentire. Nato da un episodio
casuale, è incentrato sul massimo dei valori positivi che, nella loro
universalità, sono innati in ogni benpensante o, se si preferisce,
accompagnano l'individuo che sia sinceramente sensibile e per ciò
stesso legato agli affetti, ai più alti sentimenti, saldi e
immarcescibili: l'amore per le radici smarrite, per la casa e la
famiglia, l'unico rifugio sicuro in un mondo senza cuore, un ideale mai
sopito o appassito, nutrito tra i beni più nobili, infine ritrovati e
riscattati.
Il resoconto, che ne scaturisce, calato nel vissuto della seconda metà
del XX sec., è tracciato in una trama minuziosa, riccamente intessuta
nella sua natura paradossale e assurda, pur con relativa discrezione e
cauta circospezione nel riferire nomi, luoghi e particolari,
apparentemente privi o monchi di obiettiva autenticità storica. La
documentazione, via via realizzata e sviluppata, è tal quale è stata a
mano a mano raccolta e poi messa in ordine a partire dal 1994, giro di
boa di un narrare particolarmente articolato e coinvolgente, sebbene il
risultato finale possa a taluno sembrare non altro che mera finzione
letteraria.
E, se mai fosse, cosa che non dispiacerebbe affatto, farebbe parte di
quel genere che a tutt'oggi si dice romanzo storico. Il che non guasta.
Resta, tutto sommato, uno spaccato della "bella città", perla dello
Ionio, in un determinato periodo della sua storia recente. Nessuna
meraviglia, dunque, se il linguaggio non è sufficientemente castigato
nell'inconscia e istintiva brama di esaltare Gallipoli, citata invero
una sola volta nel primo capitolo, proprio all'avvio della narrazione.
Ma chi, scevro da gratuito campanilismo né polemico né nocivo, non ha
mai cantato la sua terra con altrettanto appassionato affetto, ardore
ed entusiasmo? Per parte mia non potevo esimermi dal celebrare la mia
città, oltre ogni misura e con naturale esagerazione, non più di quanto
faccia per il proprio luogo natio un poeta o scrittore di Nardò,
Galatone, Sannicola, Alezio o Taviano, per rimanere entro i limiti
dell'immediato hinterland.
A dire il vero, nessuno dei Gallipolini saprà mai emulare o superare il
Galateo, l'umanista salentino vissuto a cavallo dei secoli '400 e '500
tra Galatone e Lecce, Napoli e Gallipoli. Sarebbe sufficiente esaminare
con la dovuta attenzione la sua "Callipolis descriptio". Nel trattato
filosofico, dedicato al sodale accademico napoletano Summonte, il
nostro autore si diffonde a descrivere Gallipoli come una serena città
platonica, un Eden idilliaco. Solo qui si realizzò uno stato unico e
ideale di "isonomia", l'eguaglianza perfetta voluta dagli uomini e da
Dio che non ha lesinato di far dono di una natura lussureggiante, di un
panorama pittoresco e scenografico, di un clima salubre in una società
sana e pacifica, regolata da leggi giuste e condivise.
Vi trovò posto di rilievo, tra tante eroine, lo stereotipo della
"Gallipolitana", eccezionale figura spartana come la disinvolta Nifide,
cara ad Afrodite, emblematica per bellezza, forza e virtù. Sono le più
nobili doti presenti nell'isola maliarda, le cui lontane origini di una
storia più che bimillenaria provengono dalla schiuma (in greco "afros")
del mar di Levante, dove, presso Cipro, nacque appunto Venere, figlia
di Zeus e Dione ma nipote addirittura di Cronos e Rea, la Gran Madre,
oltre che di Urano e Gea.
La dea dell'amore, tuttavia, entrò subito in rotta con la gelosa,
pingue Giunone, moglie legittima e fedele di Zeus. Per timore che
potesse ulteriormente influenzare con i suoi magici influssi erotici il
padre degli dei e degli uomini, già incallito e indomito amatore, fu
cacciata di casa, cioè dall'Olimpo. Vagò così per il Mediterraneo a
mietere vittime e a combinare dappertutto disastri e guai. Infine, dopo
l'eccidio di Troia, sazia di avventure e di successi ma appagata per
aver assicurato al figlio mortale Enea una nuova patria, l'Urbe
gloriosa, approdò su questi ameni lidi e si fermò a riposare sull'isola
di Anxa per renderla più bella e sempre più maliarda.
Ma questa è parentesi che appartiene al mito, sebbene sia in parte
un'altra favola, non il romanzo, dove pure si celebra il trionfo
dell'amore, in un connubio Nord-Sud tra Venezia e Gallipoli,
probabilmente a sanare, dopo oltre cinque secoli, un antico strappo
della storia. E sta proprio qui, nella conclusione, la chiave di volta
e d'interpretazione, perché solo alla fine del cammino compiuto un
autore, poeta o scrittore, ritrova se stesso, la sua anima, lo scrigno
dei valori etici e culturali, il mondo degli affetti, la ricchezza
degli ideali e dei sentimenti che non hanno voce ma inequivocabilmente
si esprimono con la forza degli esempi di vita, nell'impegno e
nell'azione.
Gino Schirosi