Dieci anni or sono Pietro CORRAO con l'intervento Le città dell'Italia
meridionale: un caso storiografico da riaprire al primo convegno di
raffronto nazionale sulle promulgazioni normative (La libertà di
decidere. Realtà e parvenze di autonomia nella normativa locale del
medioevo, Atti del Convegno Nazionale di Studi (Cento, 6-7 maggio
1993), a cura di R. Dondarini, Cento 1995) cercò di fornire criteri e
strumenti di lavoro per "ricostruire un modello di città meridionale
svincolato dal modello centro-settentrionale", caratterizzato dal
movimento comunale estraneo al sud. Analizzando l'origine delle fonti
normative (XIII-XV secc.) e il formarsi della coscienza cittadina
dall'unificazione normanna all'età post-federiciana, giunse a
concludere che la legislazione urbana meridionale si configura come il
risultato della "probatio regia" alle tradizionali forme amministrative
locali e come il prodotto del sistema pattizio fra le comunità urbane e
la monarchia. E' su questi temi che il relatore ha rivalutato
pienamente la posizione della città nella dialettica politica
meridionale, accanto ai due tradizionali protagonisti: feudalità e
monarchia.
Vi è quindi una evidente concordanza con quanto Benedetto Vetere rileva
nella Prefazione sottolineando che nel Mezzogiorno vi fu una costante
contesa tra città e corona tra la "sovranità data" della corona e
quella conferita degli organi cittadini. In effetti in questi secoli le
componenti in gioco erano quattro: oltre alla corona e alla borghesia
cittadina, il patriziato urbano - che attraverso le fortune acquisite e
la conquista di cariche pubbliche costituiva un'oligarchia emule e
spesso intrecciata con la nobiltà feudale di cui riproduceva in ambito
cittadino privilegi e chiusure. I ceti borghesi rappresentavano il
nuovo, ma secondo Salvatore Tramontana in epoca normanno sveva i
protagonisti erano rimasti il monarca e i ceti feudali, che vedevano la
borghesia urbana come loro antagonista. Da tale contrasto emerge la
vitalità delle città contrapposta alla scarsa sollecitudine dei sovrani
nei loro confronti. Benché i sovrani prima, e il governo spagnolo poi
fossero costretti a ad occuparsi delle istanze cittadine, rimanevano di
intralcio all'efficacia dei loro rapporti il patriziato urbano e la
nobiltà feudale, che la corona non voleva e non poteva ridimensionare.
Ne veniva sacrificata ogni facoltà di iniziativa e di adozione autonoma
di norme a livello periferico dato che la fonte del diritto rimaneva il
sovrano. La corona tentava di mantenere sotto controllo le dinamiche
del mondo cittadino considerato infido nella sua mobilità e
irrequietezza, e lo faceva anche attraverso le limitazioni imposte alle
magistrature e agli organi di governo cittadini. Prima tra tutte quella
che imponeva che le leggi municipali dovessero passare attraverso
l'approvazione e la conferma del sovrano. Anche secondo il Galasso la
vita delle città dell'Italia Meridionale era caratterizzata " al loro
interno dalla contrapposizione di nobiltà e popolo e, nelle loro
relazioni, dalle frequenti e fiere rivalità tra vicini. Tuttavia il
senso profondo della vita meridionale in questo periodo" stava
"proprio, più generalmente, nell'antagonismo tra baroni e università",
antagonismo che era l'esito dei precedenti sviluppi sociali del Regno.
L'approvazione degli "ordinamenti cittadini" da parte regia era il
passaggio necessario per confermare le istanze cittadine all'assetto
politico del regno e finiva fatalmente col limitare
l'autodeterminazione e i fermenti peculiari delle società urbane. Le
norme intendevano in primo luogo regolare la composizione dei consigli
e delle magistrature prevedendo criteri di eleggibilità.
Il fatto che a Taranto (1491) il consiglio rispecchiasse nella sua
composizione la presenza dei ceti urbani (gentilhomini e populari) fu
l'esito avanzato dell'inasprimento delle questioni sociali conseguente
al passaggio delle nomine delle magistrature locali dalla competenza
regia a quella popolare: un processo comune in atto in diversi contesti
e tempi (dal XII/XIII sec. nell'Italia centrosettentrionale) e che
portava da una concezione allodiale del potere (boni homines, feudatari
e castellani residenti in città determinati a imporvi le proprie
capacità di dominio con tentacoli e reti di relazioni personali) ad una
concezione nuova, aperta a comprendere tutti i ceti in una condizione
giuridicamente paritaria.
Nel Mezzogiorno con la valorizzazione della proprietà terriera e
dell'allevamento si ebbe un avvicinamento del ceto baronale inserito
nelle attività produttive al patriziato urbano, il quale a sua volta
con la sua emulazione a "vivere nobilmente" giunse a creare vere e
proprie dinastie. Furono reazioni e dinamiche di una società urbana in
cui alla convergenza di interessi e di stili di vita del patriziato e
della nobiltà locale si oppone la parte popolare nel rivendicare
diritti d'uso e sfruttamento che erano minacciati dall'invadenza
dell'aristocrazia e del patriziato urbano col sostengo della corona
(Taranto e Lecce città demaniali).
In generale si trattava di una realtà che presentava una scarsa
presenza di iniziative produttive e finanziarie (eccezione
dell'iniziativa del Principe Giovanni Antonio di Balzo Orsini) e
contemporanei cambiamenti all'interno dei nobiles che tendevano8ad
abbandonare l'antico vincolo e stile militare, mentre cresceva
l'esigenza dei ceti produttivi di una più incisiva rappresentanza
politica. In risposta i nobili occupavano cariche e magistrature
entrando in competizione politica coi populares e travandovi forme di
autotutela.
In riferimento a Gallipoli nel 1484 Ferdinando d'Aragona concesse
all'Università la competenza di eleggere tutte le magistrature
cittadine sottoponendole all'approvazione del sovrano sotto forma di
una supplica che lo rendeva ad un tempo concedente e garante del
privilegio. Il fatto si inseriva nell'opera di rinnovamento e di
razionalizzazione delle strutture politiche e amministrative del Regno
di Napoli da parte di Alfonso (1442-1458) e Ferrante (1458-1494)
d'Aragona. Politica non gradita alla nobiltà che espresse la sua
opposizione ai privilegi concessi alle componenti cittadine anche
attraverso la "congiura dei baroni". Forse la corona aragonese volle
trovare consensi nei ceti cittadini anche nella prospettiva di creare
sulla loro vitalità produttiva e mercantile una sorta di mercato comune
aragonese che garantisse nelle relative dominazioni lo smercio delle
produzioni tessili aragonese e catalana e delle derrate agricole del
Regno, subendo la reazione della parte della nobiltà che si legò agli
angioini.
Di certo la famiglia del Balzo Orsini che disponeva del grande
principato di Taranto puntava a maggior autonomia rispetto al re e
presumibilmente osteggiava la sua apertura per i ceti cittadini.
A Taranto che i due terzi del consiglio dei 24 fosse appannaggio dei
popolari non era certo gradito ai nobili, né il fatto che le competenze
sul bilancio spettassero ai razionali eletti dello stesso consiglio.
Comunque le concessioni regie ai ceti produttivi costituiscono un
capitolo importante nel superamento dei vecchi modelli che legavano il
potere all'esercizio della guerra e al possesso della terra.
L'attenzione normativa a conferire spazi decisionali sulla contabilità
pubblica e sulla politica fiscale agli organi delle città, da un lato
attestano la vitalità dei contesti urbani, dall'altro assecondano
l'affermazione del "patriziato urbano" non diversamente da quanto
accadeva nel resto d'Europa.
Tra XIII e XIV secolo le città del Meridione avevano intrapreso il
superamento del loro vecchio ruolo di dipendenza totale dal regno e dal
ceto nobiliare per divenire "universitates" = comunità gestite anche
dai cittadini, potendo disporre di un demanio, di terre comuni di
gettiti fiscali ed essendo rappresentate da sindaci eletti a suffragio
universale per trattare col monarca e coi nobili.
Certo l'Universitas a differenze del Comune centrosettentrionale non
gestiva né amministrava un bene comune che fungesse da tessuto
connettivo, ma la sua essenza era data dalla compartecipazione degli
universi homines, solidali sì nelle rivendicazioni di privilegi, ma
senza porsi come obiettivo supremo quello della prosperità e del bene
comune, così esibito - e spesso con eccesso d'enfasi - nei contesti
comunali. La stessa divisione giuridica prima che sociale che
caratterizzava le Università meridionali ne rendeva deboli le capacità
rivendicative dato che i cives dovevano conquistare i loro spazi
attraverso le concessioni della corona a sua volta vincolata per legami
atavici, per interessi ma soprattutto per la sua funzione sovrana anche
ai loro antagonisti naturali: la nobiltà e l'insorgente patriziato
urbano. L'affermazione di quest'ultimo ebbe<- come nel resto
dell'Italia - un decisivo impulso dall'inurbamento della piccola
nobiltà feudale che dapprima traspose dentro le mura cittadine gran
parte delle precedenti risorse fondiarie (la conquista della città da
parte del contado), poi partecipò a quell'allargamento dei patrimoni
cittadini che inglobò le zone più produttive dei territori già
giuridicamente dipendenti dalla città (la conquista del contado da
parte della città). In effetti questa partecipazione dell'aristocrazia
inurbata al processo di investimento cittadino sul contado, caso mai
facendo perno sui suoi antichi possessi castrensi, è stata individuata
come una delle cause che limitarono e poi compromisero le tendenze
antifeudali anche nelle aree comunali, lasciando riemergere privilegi,
vincoli di carattere personale discendenti dai possessi sia allodiali
che feudali.
Tornando alle universitates, aldilà delle concessioni dei sovrani
aragonesi, rimanevano invischiate in una tela dominata dalla grande
proprietà terriera e le rivendicazioni popolari furono prevalentemente
indotte dal fatto che il sovrano riconobbe loro la facoltà di eleggere
le magistrature cittadine, fatta salva la sua autorità di esserne
richiesto e di approvazione. Tra i motivi di questa perdurante
debolezza dei ceti produttivi, il fatto che permanesse la loro
marginalità economica e commerciale, retaggio del centralismo
normanno-svevo e causa del ristagno delle attività imprenditoriali e di
una subordinazione finanziaria e mercantile a esponenti delle città del
Nord. La campagna continuava a prevalere sulla città dal punto di vista
economico come da quello del potere effettivo. La convergenza di
interessi tra patriziato urbano, nobiltà feudale - inurbata e non - e
la corona - pur con le eccezioni suddette - limitava lo scontro e le
rivendicazioni popolari nell'ambito delle contese per l'assunzione
delle cariche municipali. E il placet del re alle delibere delle
magistrature concesso solo dietro supplica sarà il massimo risultato
conseguibile in questa condizione nella quale il potere di "condere ius
et colere iustitiam" era riconosciuto solo al sovrano fin da Ruggero II
(1140) e poi della codifica di Federico II (1231). Dunque "concessioni"
e non gli "statuta" (ciò che è stabilito) dei comuni del Centronord:
per dirla con Bartolo mentre gli Statuta di questi "sunt de
iurisdictione", le concessioni regie alle universitates meridionali
sono "de permissione" .
Come ha acutamente rilevato Benedetto Vetere, il placet del sovrano
aveva anche la funzione di normalizzare il ius proprium all'esclusiva
facoltà regia di "condere ius, di conformare la "lex municipalis" alla
"lex", perché mancava alle universitates meridionali la potestas
statuendi che, a torto o a ragione, i comuni del Nord si erano
arrogati. Era un sistema orientato e legato al vertice anche perché
questo era oltre che l'ordine gerarchico in ambito economico e
giuridico, il riferimento simbolico e comportamentale. Non essendosi
creato un modello borghese ampio, compatto e alternativo come quello
emerso nei comuni cittadini attraverso le associazioni corporative di
mestiere e la loro ascesa al potere, chi da borghese accedeva per
ricchezza acquisita ai ranghi dell'aristocrazia meridionale ne emulava
i simboli e gli atteggiamenti conferendole nuova vitalità. E forse non
fu a caso che la promulgazione di codici normativi si intensificò
proprio nei momenti di difficoltà e di crisi dei vertici del Regno, tra
XIV e XV secolo, ma sempre negli orizzonti della sovranità regia. Non
vi è dubbio però che le dinamiche e le sperimentazioni attuate in
questi contesti abbiano contribuito a delineare le grandi questioni
dello stato moderno, quali quello dell'equilibrio dei poteri tra centro
e periferia, tra città capitali e capoluoghi o quali quello del
conflitto tra diritto a base territoriale e dichiaratamente egualitario
e l'allodialità del potere, formalmente non riconosciuta, ma
sostanzialmente perdurante e spesso imperante anche nelle istituzioni
attuali.
Trascritti tra XVI e XVII secolo in una fase di riorganizzazione del
Regno di Napoli in cui le universitates erano impegnate a raccogliere i
propri privilegi e diritti probabilmente per esibirli a difesa di
eventuali tentativi di rifeudalizzazione, i privilegii di Gallipoli
appartengono alla categoria dei libri rossi. Queste raccolte sono gli
esiti scritti delle volontà autonomistiche sviluppatesi nelle città
meridionali fin dalla fine del XIII secolo e rivelano questioni e
problemi riguardanti i rapporti tra corona e città, tra nobiltà,
patriziato e ceti popolari, tra città e territori.
Come tali anch'essi sono raccolte tardive che lasciano molti dubbi
sulla loro autenticità o meglio sulla loro fedeltà al nucleo originario
da cui certamente furono tratti. Per affrontare questo problema
Benedetto Vetere nella sua prefazione ha proposto uno studio comparato
tra i vari esemplari che tengono conto di variabili essenziali come
modalità e tempi delle raccolte, volontà politiche che le avevano
indotte, criteri a cui si erano conformate.
Comunque si tratta di una manifestazione significativa di coscienza
civica, di volontà di tutela delle prerogative, riconosciuta anche
dall'approvazione da parte di Carlo V il 23 giugno 1526 che li
riconosce come "consuetudines et antiques more?civitatis Gallipolis. Ma
proprio quella volontà, avverte Vetere, deve indurre a cautela.
E' una trascrizione cinquecentesca fatta da diversi notai e contiene
195 documenti compresi tra il 1200 e il 1745 e manca di un prologo.
Il materiale documentario raccolto attesta la demanialità della città,
nonché concessioni, privilegi, franchigie e immunità, come esenzioni e
sgravi fiscali e doganali.
Davvero significative le corrispondenze segnalate da Benedetto Vetere
tra i momenti di trascrizione dei vari notai e le congiunture politiche
che avevano indotto le autorità di Gallipoli a promuovere tali
trascrizioni.
Con le raccolte nei libri rossi dei documenti prima conservati
singolarmente, non solo se ne agevolava la consultazione e l'uso, ma si
confermava una sorta di specifica personalità giuridica ad ogni
comunità cittadina.
Ma proprio questo carattere di particolarità giuridica che il registro
di Gallipoli presuppone come tutti gli altri libri rossi, rivela
l'assenza di un riconoscimento di un'autonomia giuridica alle città
meridionali, che tutt'al più possono fare appello a privilegi
particolari in deroga alla lex regia. Perciò i libri rossi non possono
essere considerati dei codici di leggi municipali come quelli degli
statuti o dei libri iurium promulgati già da due secoli dai comuni
centrosettentrionali. Era il contesto politico istituzionale a non
permetterlo perché la loro derivazione de permissione regia non
comportava la piena iuridictio e la conseguente piena responsabilità
pubblica pretesa dagli statuti comunali.
In questa prospettiva sottolinea Vetere - cito testualmente - "il
maggior interesse per l'edizione di una fonte indiretta come il
registro di Gallipoli proposto in questa sede da Amalia Ingrosso
poggia, quindi, non tanto sulla natura dei privilegi concessi e
riconosciuti alla città, quanto sulla forma (che è garante del diritto)
degli stessi, sul forte ruolo della conferma sovrana, fonte, perciò
stesso, del diritto". E' un'ulteriore conferma che la gerarchia delle
fonti del diritto nei diversi ambiti dell'Italia medievale era
strettamente condizionata dalle vicende politiche e dai contesti
istituzionali.
E la pregevole edizione del Registro dei privilegi di Gallipoli di
Amalia Ingrosso introdotta da un'attenta analisi sul manoscritto, sulla
sua caratterizzazione tipologica nel contesto dei libri rossi e sui
settori documentari più rilevanti, ne è un'interessante conferma.
Se ne rileva il ruolo di un centro portuale come Gallipoli
particolarmente importante e in grado per ciò stesso di attrarre
l'attenzione della corona.
Ma soprattutto che i limiti obiettivi in cui quei privilegi si
dovettero inserire non possono oscurare gli aneliti di solidarietà e
tutela civica che ne promossero la raccolta.
Rolando Dondarini - Università di Bologna