Nel VII capitolo de I Leoni di Messapia, "Amori ed unioni dinastiche
delle grandi Famiglie messapiche", la principessa mandurina Ettis sposa
il principe oritano Alaskìritas in pompa magna al cospetto dei
simulacri degli dei e alla presenza di un'immensa folla che plaude al
felice avvenimento.
Menandro nel "La fanciulla dai capelli corti", ci rappresenta
l'engyesis, fra il kyrios, in questo caso il padre della sposa, e il
pretendente. L'engyesis era essenzialmente un accordo, una convenzione
orale, ma solenne. I due contraenti si scambiavano una stretta di mano
e qualche frase rituale molto semplice.
Si trattava, quindi, di una promessa di matrimonio molto vincolante che
creava già solidi legami fra il pretendente e la futura sposa. Era
necessario inoltre che tale accordo fosse stipulato alla presenza di
testimoni che legittimavano l'esito di quella convenzione orale. II
padre di famiglia aveva diritto assoluto sulla sorte dei figli prima
del matrimonio e poteva anche venderli senza essere tacciato per questo
di dovere improprio verso la prole.
Questa pratica era molto diffusa anche in varie regioni elleniche e nei
territori balcanici prospicienti la penisola messapica.
Dal V sec. a.C. in poi era lo sposo che riceveva la ricca dote nuziale
secondo le diffuse usanze dell'epoca; probabilmente l'esistenza della
dote serviva a distinguere un matrimonio legale da un contratto con una
concubina. In età omerica invece era il pretendente che offriva doni al
suocero divenendo tale atto un vero e proprio contratto di acquisto
della figlia.
La cerimonia dell'engyesis si svolgeva presso l'altare domestico
attribuendo in questo modo a tale evento una sacralità ed una solennità
che suggellavano l'importante pronunciamento.
Secondo le informazioni di Demostene in "Contro Boeto" e in "Contro
Afobo", il padre del giovane in età di matrimonio gli sceglieva per
sposa colei che meglio di altre avrebbe potuto dargli dei nipoti sani e
belli. E' evidente che in questi casi egli sceglieva la moglie per il
figlio in famiglie ricche o benestanti che avrebbero garantito una
considerevole dote alla propria figlia. Non era inusuale che un giovane
sposasse una componente della stessa famiglia, prima cugina o
sorellastra, per non depauperare le risorse familiari e meglio
conservare il proprio patrimonio.
Dal profilo rituale, dopo l'engyesis, si passava alla consegna della
donna allo sposo, ma era la consumazione del matrimonio che offriva la
garanzia allo sposo e alla sua famiglia che la donna ricevuta in moglie
aveva conservato la verginità fino a quel momento ed era quindi pronta
a generare figli legittimi che avrebbero dato calore e fortuna alla
propria casa.
Secondo la tradizione di molti popoli autoctoni e secondo quanto ci
riporta Plutarco nel "Dialogo sull'amore", il giorno delle nozze
(gamos) si teneva un banchetto e un sacrificio nella casa del padre
della sposa.
Quest'ultima era velata, con una corona in testa, ed era circondata
dalle sue amiche e al suo fianco stava la ninfeutria, una donna che la
guidava e assisteva nella cerimonia del matrimonio. Nel capitolo de "I
Leoni di Messapia" dedicato al banchetto nuziale donne e uomini erano
separati ed il pasto includeva cibi tradizionali e i dolci di sesamo
erano garanzia di fecondità. II festoso avvenimento si concludeva con
l'offerta dei doni da parte degli ospiti e la sposa poteva a quel punto
togliersi anche il velo.
Anche da sposata, la donna messapica di alto lignaggio disponeva di un
grande margine di libertà e poteva continuare a coltivare le sue
passioni giovanili. Come abbiamo già accennato, essa poteva anche
svolgere attività fuori dal tetto coniugale e prendere parte ai riti
religiosi che si svolgevano durante l'anno. I lavori di casa, erano
demandati a donne di servizio che, di solito, vivevano all'interno
della struttura familiare.
Nel caso la donna di casa fosse in periodo di gravidanza, ella
conduceva una vita più ritirata fino al parto. In Atene, invece, le
donne rimanevano nei ginecei che non erano chiusi a chiave (tranne la
notte), ma erano privi di finestre con grate, anche se il costume era
sufficiente per trattenere le donne in casa. Affermava Euripide nella
"Medea": - una donna deve stare in casa; la strada è per la donna da
nulla -.
Durante le tesmoforie (riti religiosi in onore di Damatra), non c'era
comunque distinzione di casta; tutte le donne, a prescindere dal loro
ceto sociale, partecipavano alle processioni con in mano le torce
crociate e le varie offerte che portavano alla dea della fecondità
intonando inni propiziatori.
Un luogo di culto molto rinomato in Messapia era quello che si trovava
a ridosso della prima cerchia muraria di Orra. Lì confluivano
pellegrini non solo della zona ma anche di altri insediamenti della
penisola salentina.
Per le usanze messapiche e per quelle di gran parte delle società
autoctone e magnogreche, un marito aveva comunque il diritto di
ripudiare la propria moglie, quando questa si macchiava del reato di
adulterio o di azioni diffamatorie nei suoi confronti. La sterilità era
anche considerata causa di ripudio, perché l'uomo che l'aveva sposata
aveva il diritto di garantire la continuità della propria famiglia e se
ciò non avveniva egli la rimandava al padre con la dote. Nelle famiglie
più povere quest'ultimo particolare agiva da freno, poiché il più delle
volte le precarie condizioni economiche impedivano di restituire la
dote della donna ripudiata.
Per il costume ateniese la migliore delle donne era quella della quale
gli estranei parlavano meno, sia nel male sia nel bene. Per la sua
buona reputazione era consigliabile di non uscire quasi mai da casa
anche se Gorgia sembrava mostrare maggiore finezza quando asseriva che
non era l'apparenza ma la sostanza che faceva di una donna la degna
compagna di un uomo.
Alle donne ateniesi era vietato persino di accedere all'androon (luogo
frequentato dai soli maschi). Nel primo capitolo de "I Leoni di
Messapia", troviamo, invece, diverse esponenti della nobiltà locale
intervenire nei dibattiti della grande assemblea dei principi e
dignitari della Dodecapoli Messapiea.
Durante e dopo la Guerra del Peloponneso, i costumi femminili
cambiarono anche nella capitale attica. Pericle ripudiò la moglie dalla
quale aveva avuto già due figli, per congiungersi all'intelligente e
colta Aspasia di Mileto. Essi fondarono un vero e proprio circolo
culturale composto da donne e uomini che si riunivano di tanto in tanto
per festeggiare o dibattere argomenti interessanti.
Pseudo-Demostene in "Contro Neaira" descrive una società abbastanza
aperta per i suoi tempi: - "Abbiamo le cortigiane per il piacere, le
concubine per le cure quotidiane, le mogli per darci dei figli
legittimi ed essere le custodi fedeli delle nostre case".
Nel "Lisistrata" (411) e "Le donne in assemblea" (392), alcuni ateniesi
pensavano che le cose sarebbero andate meglio se le donne avessero
determinato le scelte politiche al posto dei loro mariti.
Nell'ultima commedia citata, Aristofane contrapponeva il tranquillo
tradizionalismo delle donne alla mobilità inquieta e innovatrice degli
uomini e concludeva che le pratiche femminili sono migliori di quelle
maschili.
Per quanto riguarda, invece, il mondo delle cortigiane, anche in
Messapia ci saranno state vere e proprie mestieranti dell'amore che
avranno esercitato comodamente il loro lavoro in località portuali. A
Brention, Hodrum, Anxa-Kallipolis, Naunia, Thuria Sallentinae o in
prossimità di altri approdi lungo le frequentatissime rotte a piccolo
cabotaggio della penisola salentina, alcuni ritrovi del piacere avranno
ospitato ricchi mercanti di passaggio o persone comuni che non
disdegnavano di trascorrere un po' di tempo in dolce compagnia.
A fare parte di questo mercato erano sicuramente donne ripudiate o
molto povere da non potersi permettere alcun'altra risorsa o anche
donne che erano state prelevate alla loro nascita, allorquando il
genitore le aveva esposte al di fuori della casa su di un paniere o un
cesto, perché indesiderate. C'era stino amministrato da un'esperta
meretrice, che le sfruttava finché esse non avevano riscattato
l'adozione volontaria da parte di colei che le aveva raccolte ed aveva
provveduto al loro mantenimento fino all'età di quindici anni. Mentre
le più fortunate a quell'età prendevano marito, esse erano invece
costrette a una vita di prostituzione.
chi sapeva distinguere fra le neonate chi sarebbe diventata bella da
adulta e questo fatto determinava il loro destino amministrato da
un'esperta meretrice, che le sfruttava finché esse non avevano
riscattato l'adozione volontaria da parte di colei che le aveva
raccolte ed aveva provveduto al loro mantenimento fino all'età di
quindici anni. Mentre le più fortunate a quell'età prendevano marito,
esse erano invece costrette a una vita di prostituzione.
Dopo un certo periodo, le prostitute acquistavano la liberà e si
mettevano in proprio. Alcune di loro diventavano molto ricche e
talvolta sposavano uomini di grande potere.
Per aggraziarsi i favori delle autorità politiche e religiose, i
tenutari delle cosiddette case di prostituzione offrivano una parte dei
loro profitti per contribuire all'erezione di alcuni templi dedicati ad
Aprodita (l'Aphrodite messapica) o ad altre divinità protettrici
dell'arte amatoria.
Il culto di Aprodita, dea dell'amore, era molto diffuso in Messapia, ma
anche quello di Thana o Athana (dea dell'ingegno), di Arthemis Bendis,
Arthemis Agrogora, Damatra e Grahia, divinità della fertilità e della
riproduzione.
Chissà quante volte le donne di Messapia avranno pregato Aprodita e le
altre dee per meritare un buon matrimonio ed una sana prole?
L'universo della donna messapica, delineato in base ai tanti documenti
epigrafici e raffigurativi, è assai complesso ed è lungi dall'essere
esplorato esaustivamente; ma, ogni sforzo esegetico che si compie e
ogni frammento di informazione che si aggiunge costituiranno nel tempo
un importante apporto sulla strada della conoscenza di un così
interessante aspetto delle origini culturali del nostro Salento.
Fernando Sammarco