Gallipoli e Venezia tra giochi politici e intrighi baronali (maggio - settembre 1484)

Dall'agosto 1480 l'Università Gallipolitana, preoccupata dell'eccidio idruntino e delle frequenti scorrerie nemiche lungo le sue coste, aveva tempestato di dispacci la Corona di Casa Aragona. Consapevole di non poter contare su aiuti esterni, con reiterate petizioni supplicava maggiori garanzie difensive, invitando il re a provvedere la fortezza di artiglieria consolidando mura, castello e baluardi. La città demaniale, libera e franca, senza baroni né feudatari, si trovava sguarnita di mezzi, armamenti e uomini esperti, volendo dar credito alle cronache locali e venete, per la cui bibliografia si rinvia al mio recente saggio "L'epopea di Gallipoli nell'assedio veneziano" (Gallipoli, 2001), anche per offrire un ulteriore contributo utile, se mai, a chiarire o approfondire quanto, in merito alla nota vicenda Gallipoli-Venezia, è stato pubblicato nell'ultimo numero di "Anxa News".
Nel 1482 il Senato veneto, mentre allestiva un'Armata "per ferire nella Puglia", dichiarò guerra al duca di Ferrara, Ercole d'Este, col quale si allearono re Ferdinando I e papa Sisto IV, ancorché fosse Venezia l'unico baluardo contro i Turchi, stante il disinteresse dei principi italiani. Mutavano scenari politici ed equilibri diplomatici, ormai compromessi essendo i rapporti di Napoli con la Serenissima e con Maometto II. La Repubblica veneta governava l'alto Adriatico, mirando ai porti marchigiani e al Mediterraneo orientale.
Con le sue galee dominava gli empori di Morèa, Corfù, Creta, Cipro e intendeva ripristinare il controllo sull'Adriatico con la pressione sulle coste romagnole e con l'attacco all'integrità del Regno napoletano. Nel 1484 era una potenza in espansione, ricca e rispettata, attratta, per vitali interessi commerciali, dalla Puglia, ponte logistico con la costa balcanica e le piazze orientali. Intratteneva intensi rapporti mercantili persino con Gallipoli per il commercio dell'olio lampante e industriale, che da tutto il Salento confluiva nel suo porto. Intanto la feudalità territoriale, che controllava gran parte della regione, non si sentiva corrisposta né soddisfatta adeguatamente del ruolo e del rapporto col potere centrale, non godendo di favorevoli condizioni e facili privilegi da parte della Corona. I baroni preferirono così mostrarsi indifferenti e inerti dinanzi agli eventi e, senza parteggiare col proprio re né con San Marco, si mantennero assenti e neutrali, prima di macchiarsi di fellonia.
In un simile scacchiere politico-militare Venezia aveva l'obbligo di mostrarsi determinata ad indurre a trattative il re di Napoli, non senza garantirsi il mercato del basso Adriatico e dello Ionio. Nel mese di marzo, per delibera del Senato, il Capitano Generale di mare Giacomo Marcello, coadiuvato dall'Ammiraglio in seconda Domenico Malipiero, fatte razzie di vettovaglie e cereali nei porti pugliesi adriatici, radunò la flotta a Corfù. Avendo avuto mandato di "punzecchiare le coste salentine", puntò, anche per ragioni politiche, sull'indifesa e isolata città ionica abitata da circa seimila anime, ma roccaforte-caposaldo del Regno, testa di ponte verso il Levante e porto di primario interesse nell'economia di Venezia, che contava mercanti e consolati in terra di Puglia. Marcello salpò il mattino del 15 maggio per comparire nella rada gallipolina l'alba del 16 con un'Armata di una sessantina di navigli, 7.000 fanti, 200 stradiotti (cavalleggeri balcanici) e 300 cavalli.
Il mattino del 17, schierata la flotta sotto le mura, con un'ambasceria intimò la resa. Ma con orgoglio la città respinse l'ultimatum, professandosi suddita fedele al suo re; anzi, pronta ad una resistenza eroica ed epica, rigettò le allettanti profferte di accomodamento delle vicine città baronali. Al secco rifiuto iniziò l'assalto di terra e di mare con un duro combattimento durato tre giorni. Tralascio volutamente la cronaca dettagliata dell'assedio nel quale gli assediati resistettero strenuamente con tutte le forze e con ingegno, finendo per essere non tanto sconfitti quanto sopraffatti dal numero più che dal valore del nemico. La città confermò la sua fede al sovrano, nulla sperando dai baroni locali, tranne un esiguo manipolo vanamente inviato da Lecce per farvi tempestivo ritorno. Si distinsero sugli spalti le donne gallipolitane, celebrate con tutti gli onori anche dagl'invasori, e si contarono alla fine 50 vittime (200 per il Tafuri con 40 "femmine", di cui Latonia Barella, Angela Guglielmo, Maria Grassi).
Secondo il Galateo, Gallipoli "fu città di sperimentata fedeltà e valore, perché senza alcun aiuto esterno, si oppose ai nemici fino alla morte", aggiungendo che, "se tutte le città di questo Regno avessero avuto il coraggio dei Leccesi, dei Tarantini, dei Gallipolitani e degli Otrantini, non patiremmo quei molti mali che ci opprimono". La città subì soprusi e ruberie (l'archivio civico?), ma non si segnalarono specificamente violenze, se i Veneziani, rispettosi del diritto, non si comportarono come i Turchi. I Neretini, ammirato lo spettacolo dalle vicine serre, pensarono però bene di non intervenire e di precipitarsi a mandare i loro messi ad offrire l'ossequiosa obbedienza, consegnando le chiavi della città al segretario veneziano Alvise Sagondino. Se il 21 maggio Nardò si arrese senza colpo ferire, sono da confutare le false asserzioni che inventò il Tafuri della sua città assediata, di una difesa ad oltranza, di saccheggi e stragi, solo per mistificare l'infamia di tradimento, tant'è che per giustificare la codardia, osò spudoratamente dichiarare che i Veneziani si erano rivelati "peggio di quei cani dei Turchi".
Il Malipiero, avuta Nardò, intendeva puntare con la cavalleria su Lecce e poi su Brindisi, Monopoli, Manfredonia. Era un disegno strategico, favorito dalla conquista simultanea e incondizionata di altri 22 centri (tra cui Galatone, Copertino, Veglie, Leverano, Seclì, Aradeo, Parabita, Matino, Taviano, Racale, Alliste, Felline, Supersano, Casarano), sobillati da Nardò, "perfida et improba", e dai baroni locali che ne incoraggiarono e favorirono la resa. Solo S. Pietro in Galatina resistette a due attacchi veneziani, obbligando gli aggressori a ritirarsi, mentre anche Lecce lealmente si opponeva. Solo quando Nardò e le vicine città erano occupate dai Veneziani, le armate aragonesi si trovavano in stato d'allerta, pronte a mobilitarsi. La flotta (22 navi da carico e 30 galee) agli ordini di Federico d'Aragona, secondogenito del re, navigava al largo di Leuca, senza iniziative militari per il recupero di Gallipoli, ma per partecipare (il 12 agosto, a pace già siglata) a sporadiche scaramucce presso Ugento.
Le milizie terrestri, comandate dal marchese di Bitonto Andrea Matteo Acquaviva e dal principe d'Altamura Pirro del Balzo, Gran Contestabile del Regno e fratello di Anghilberto duca di Nardò, entrambi fautori e capi della rivolta baronale del 1485, raggiunsero il territorio salentino solo per presidiare il castello di Lecce; erano gli aiuti promessi dal re, pervenuti solo il sei d'agosto, vigilia della pace. Presidiata dai soldati veneti Terra d'Otranto, il marchese di Bitonto si premurava di comunicare ai Veneziani la sua disponibilità ad una ribellione unitamente ai principi di Rossano e Bisignano; erano pure pronte 60 città di Puglia, Basilicata e Calabria, i cui feudatari godevano di autorevole prestigio. Gallipoli non poteva aspettarsi nulla dai baroni locali signori del Salento né dalle truppe regie. Per tale ragione, a capitolazione avvenuta, uscì allo scoperto il partito filo-veneto che, per conto dell'Università gallipolitana, fece pervenire il 22 maggio al Senato veneziano un'accorata preghiera di scuse con un impegno di obbedienza. Tali sotterfugi confermano che a Gallipoli, durante l'occupazione, il potere decisionale era condizionato da infiltrati dei signori feudatari. Le loro trame avevano favorito Venezia, che accettò con qualche remora possibili trattative con personaggi infidi e inaffidabili, nelle cui mani erano cadute le sorti delle popolazioni meridionali. Non era irreale il progetto del principe Alfonso, se con insistenza, al tempo della guerra di Ferrara, ebbe a perorare, al re suo padre, una limitazione dell'autorità baronale nel territorio periferico insieme ad una più razionale e radicale riforma del sistema amministrativo del Regno.
Il Malipiero, preso possesso di Gallipoli, diede ordine alle truppe di rispettare l'onestà delle donne, messe al sicuro prima nella cattedrale e poi nel castello, per essere infine restituite ai rispettivi congiunti, mentre il Senato raccomandava di trattare i cittadini con riguardo ma pure di realizzare l'opera di fortificazione, perché "per la conditione del sito quella terra se potrà redur facilmente in isola". Nei quattro mesi d'occupazione il Malipiero s'insediò nel castello, trattando i cittadini assai umanamente e non con sistemi vessatori, come fece credere il Tafuri drammatizzando e travisando la realtà storica. 

Tenendo nel dovuto conto la testimonianza del Galateo, coevo all'episodio, e la narrazione apologetica del Malipiero, partecipe all'operazione militare, occorre convenire che si amministrò la cittadinanza con saggezza. Fu riserbato gran rispetto al coraggio delle donne, che lottarono come le antiche Spartane, e al comportamento esemplare, epico ed eroico dei cittadini, la cui reiterata lealtà era da encomiare, a differenza delle città baronali che, macchiandosi d'infamia e tramando, tradirono per passare al nemico senza opporre resistenza. I baroni locali furono infedeli al re, non mossero un dito contro l'invasione né restarono rammaricati dell'attacco inferto a Gallipoli, capro espiatorio da offrire alla Serenissima in cambio della lusinga di probabili privilegi superiori a quelli concessi dal loro re.
Nardò, indotta dal suo feudatario a passare subdolamente dall'altra parte, punita severamente dalla Corona più degli altri centri ribelli, fu degradata a casale aperto, assoggettato al dominio della fedelissima Lecce. Ritornò poi in possesso del legittimo feudatario Anghilberto Del Balzo, la cui assenza dalla città nell'infausta circostanza resta un'incognita inspiegabile, pur essendo nota la sua delazione in occasione della congiura dei baroni, il che servì a salvarlo se gli valse il mantenimento dell'antico feudo di famiglia. Chi aveva operato con lealtà fu invece remunerato, con misure particolari adottate a favore di Lecce, Galatina e Gallipoli, del cui danno il re mostrò dolore e rammarico nelle sue personali missive.
Il 7 agosto, in sintonia con la definizione del conflitto estense, fu firmata, a Bagnolo di Reggio Emilia, la pace che componeva i rapporti tra Venezia e Napoli. Il 6 settembre approdarono in Terra d'Otranto Marino Brancaccio, Viceré della provincia, Giovan Battista Caracciolo, cavaliere napoletano, Luigi Paladini, barone di Campi, Almerico da Lugo e Tommaso Barone Portolano di Taranto, delegati per le trattative con l'ambasceria di notabili veneti guidati da Malipiero e Sagondino. Il 9 settembre si discusse del rilascio delle 22 località del basso Salento, che si erano arrese col beneplacito dei signori feudatari, ed il 15 si definì la liberazione di Gallipoli con atto rogato per notar Francesco de Cannarillibus. Tra i testi il governatore Pietro Ribera, il sindaco Costantino Specolizzi, il castellano Andrea Longo de Tana, il vescovo Alfonso Spinelli. Si sanciva così, con la recuperata libertà, la consegna della città alla Corona, a cui i cittadini avevano offerto, con eroico patriottismo, la provata conferma della loro fedeltà.
Forte di ciò, l'Università gallipolitana, il 9 dicembre 1484, tra le altre grazie richieste e accolte (cfr. "Il Libro Rosso"), invocò invano la restituzione dell'usurpata sede episcopale con la reintegrazione dell'antica diocesi gallipolitana, "considerata la fidelità de detta Città et rebellione della Città de Neritone fatta a vostra Maestà". Restava aperta una lunga vexata quaestio, una ferita datata 1284 (regnante Carlo II d'Angiò), allorché gli Abati Benedettini, conniventi col feudatario locale ed arbitri della Chiesa neretina di rito latino, colsero l'occasione per ottenere la scissione di un'ampia giurisdizione che escludeva la fascia costiera dal Pizzo alla Montagna spaccata con vertice passante all'interno per contrada Pràndico presso Tuglie. Così la Diocesi gallipolitana, di rito greco, finì per essere mutilata e stranamente limitata al solo "scoglio abitato", inesistenti essendo allora i Comuni di Alezio e Sannicola!

Gino Schirosi